Citazione

L'insegnamento non può fermarsi alle ore di lezioni in classe.

Compito del docente è quello di accompagnare gli allievi nella formazione della persona e ciò può essere possibile solo in un tempo dilatato, per un'educazione permanente (C.C.E., 2001).

Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

mercoledì 20 gennaio 2021

SUICIDIO

 

Dialogo di Plotinio e di Porfirio

 

«Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere si fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese». Porfirio nella Vita di Plotino. Il simile in quella di  distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.

Plotino. Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dèi maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiositá; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. Giá sono piú giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.

Porfirio.

…dico che quel che tu immagini della mia intenzione è la veritá. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benché l’animo mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in cosí fatti pensieri ami di essere solitaria e ristretta in se medesima piú che mai; pure io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, cosí veemente che si assomiglia a dolore e spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanitá di ogni cosa che mi occorre nella giornata.

(G. Leopardi, Operette morali, Dialogo di Plotinio e di Porfirio)

L’ultimo canto di Saffo

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva.

(G. Leopardi, Canti, L’ultimo canto di Saffo)

Il suicidio è un problema di sanità pubblica

 

A fine maggio di quest’anno, J. Cramer, docente della facoltà di sanità pubblica dell’università del Nord Carolina, negli USA, scriveva: “La pandemia di covid19 continua a mettere sotto stress il Paese e il mondo”, evidenziando come la probabilità di una “seconda ondata” – annunciata dai media – avrebbe potuto comportare una “perdita di speranza” e conseguente rischio di aumento di suicidi.

 (Cramer, 2020).

Il suicidio rappresenta un problema di sanità pubblica rilevante, come dimostrato dai numerosi dati raccolti a livello locale e mondiale, ed è diventato un tema prioritario di interesse, come dichiarato da fonti autorevoli, ad esempio:
- l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato quest’anno un documento per la prevenzione del suicidio, rivolto ai professionisti del settore dei media, segnalando la potenziale influenza che questi possono avere rispetto al fenomeno, in particolare per le persone con una “vulnerabilità” al suicidio, e fornendo indicazioni sulle modalità informative più adeguate.

(WHO, 2020).

- sempre l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2014 ha pubblicato il I rapporto ufficiale, dichiarando il suicidio la 15esima causa di morte a livello globale (WHO, 2014), contenente un forte richiamo ai governi di impegnarsi nell’elaborazione di policy di prevenzione, in continuità con il Piano di Azione Mentale 2013 – 2020 che prevede la riduzione del tasso dei suicidi almeno del 10% entro il 2020.

 (WHO, 2013)

 

 

 

 

giovedì 24 dicembre 2020

ARTE E CALCIO

 

Il calcio è fonte di passioni e i poeti non potevano mancare di raccontare il gioco del calcio, sport popolare per eccellenza, che unisce in un comune sentimento di entusiasmo e partecipazione tutte le fasce sociali e che riesce a tenere desta l’attenzione ben prima e ben dopo l’ora e mezza di durata della partita. Che sia il mezzo televisivo o la visione diretta a comunicare le immagini del gioco, l’eccitazione del pubblico si mantiene sempre a un livello molto alto e la tensione quasi mai si acquieta con la fine del gioco, ma va la di là della partita e ha modo di scaricarsi nelle strade cittadine, coinvolgendo anche chi l’incontro agonistico non l’ha seguito. È un gioco che, proiettato oltre gli stadi ufficiali, si reinventa quotidianamente nelle migliaia di campi sportivi più o meno improvvisati, nelle scuole e nei cortili delle case, ovunque si ritrovino un gruppo di ragazzi intorno a un pallone. Registrare questo fenomeno, con spirito di partecipazione, con l’ottica imparziale dell’interesse culturale, con l’acuta indagine della curiosità è la sfida che nel tempo  hanno lanciato giornalisti, fotografi, sociologi, filosofi, pittori, scultori e anche letterati.

Il calcio è una metafora della vita, sentenzia Jean-Paul Sartre.

 


 

 

La vita è una metafora del calcio, corregge il filosofo Sergio Givone.

 




 

Di certo, calcio e letteratura vanno a braccetto, in una simbiosi ormai consolidata. Un caso rilevante è quello di Giacomo Leopardi, con la canzone  A un vincitore nel pallone, datata 1821. 

 


 A un vincitore nel pallone

 

Di gloria il viso e la gioconda voce
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Nè la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse

Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
II caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese

 

 

Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,

Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne' perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede

 

 

Il poeta di Recanati si riferisce a un ben preciso personaggio, il giovane Carlo Didimi di Treia, e lo acclama come campione, elogiandolo per l’energia espressa nell’azione sportiva. Dietro questa profonda ammirazione si cela anzitutto una punta di invidia per una vigoria fisica che il poeta non possedette mai.

 

Ma, cosa ben più importante, si intravede la visione leopardiana della vita, che va presa come un gioco, come il calcio quindi, e come tale va giocata, cercando quindi di passare dall’ignavia all’azione; e non è necessario stare attenti allo scopo dell’azione, purché azione sia.

 

Infatti “nostra vita a che val? Solo a spregiarla”, è il momento conclusivo della composizione.

E allora Leopardi, oltre a elogiare il ragazzo, lo incita a continuare così e, anzi, a fare ancora di più, per non cadere nel suo stesso errore, del quale egli si è accorto troppo tardi per potervi porre rimedio.

 

Più aderenti al tema calcistico sono le 5 poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, inserite poi nella sezione del Canzoniere intitolata Parole (1933-34). Il poeta si avvicina al calcio casualmente e entra la prima volta allo stadio solo per accompagnarvi la figlia, desiderosa di vedere la squadra di casa, la Triestina.

Fino a quel momento Saba non aveva mai dato molto peso al calcio, anzi tutti quei tifosi che deliravano o si disperavano seguendo le evoluzioni di una sfera di cuoio lo irritavano; non riusciva a capirne il senso; ma da quel giorno per lui tutto cambiò, dentro quello stadio Saba si sentì perduto, avvolto dal calore della folla.
Quel primo incontro col calcio è narrato in Squadra paesana.

Squadra paesana

Anch'io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angoscie
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

Il poeta fu rapito da quello spettacolo che gli permetteva, tra l’altro, di riconoscersi nella collettività, bisogno da lui sempre inseguito, e continuò a scrivere liriche sull’argomento, prendendo spunto ogni volta da alcuni momenti che lo avevano colpito maggiormente; così, mentre nella prima composizione esprime lo stupore personale, nella seconda, Tre momenti, descrive la felicità dei tifosi, la cui brevità è compensata dall’immensità, gli istanti che precedono il fischio d’inizio e il comportamento del portiere, che si rilassa quando i suoi compagni hanno il controllo del gioco, ma che diventa guardingo appena lo perdono.

II - Tre momenti

Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune.
Poi,quello che nasce poi,
che all’altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come sentinella.
Il pericolo lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia.

Festa è nell’aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessuna offesa varcava la porta,
s’incrociavano grida ch’eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste. 

Ancora il comportamento dei tifosi è il tema della Tredicesima partita scritta in occasione di uno incontro disputato a Padova, del quale il poeta fu spettatore insieme a sua figlia. Dopo aver capito che la coppia, nonostante non parli il dialetto locale, tifa per la squadra di casa, i tifosi con un gesto di galanteria regalano un mazzetto di fiori alla ragazza (il clima non era quello di oggi, non si lanciavano motorini giù dalle gradinate…). Saba per ringraziarli dedica loro quella poesia, nonostante non fossero tifosi della sua Triestina, facendo leva sul sentimento di unità che lega gli spettatori. Emblematico è invece il quarto capitolo della raccolta: è l’unico momento in cui Saba mostra una sorta di disprezzo per il calcio o, meglio, per i calciatori, che “odiosi di tanto eran superbi / passavano là sotto” e “tutto vedevano, e non quegli acerbi”. Gli acerbi sarebbero i ragazzini e, infatti, specialmente a loro è dedicata la poesia Fanciulli allo stadio, perché nelle loro speranze, puntualmente deluse, Saba crede di rivivere la propria infanzia.

 

III - Tredicesima partita

Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando
- smisurata raggiera - il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva
essere così pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.

 

IV - Fanciulli allo stadio

Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.
Ai confini del campo una bandiera
sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l’immagine lieta; a un ricordo
si sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.

Odiosi di tanto eran superbi
passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.




Infine c’è Goal, la più famosa tra queste poesie di Saba a soggetto calcistico. Tema di questa lirica sono i sentimenti contrastanti dei due portieri nel momento di un goal, appunto: il vinto, che si dispera e “contro terra cela la faccia”, come a voler scomparire, e l’altro, che, obbligato a rimanere nei pali, lascia libera di vagare almeno la sua anima, alla ricerca della felicità insieme ai suoi compagni.

 

V - Goal

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con la mano, a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla - unita ebbrezza- par trabocchi
nel campo: intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l’altro- è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.

La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch’io son parte.

 


Eugenio Montale non si occupò di calcio, ma con una frase, una sola frase, sul football, carica di metafore e rimandi e suggestioni, ha trovato spazio nella letteratura sportiva: "Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo". Dietro a quel "gol" possiamo leggere la guerra, oppure un qualcosa che rientra nella sfera dell'esistenziale, il sogno di un mondo di eguali, senza vincitori e vinti.



Ma il più appassionato, tra i letterati, è Pasolini.




Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare? 

Chiede Enzo Biagi in un’intervista pubblicata su“La Stampa” a Pier Paolo Pasolini.
«Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri».                   

«I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo "Stukas": ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po' ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!»

 Pasolini assimila in modo alquanto originale il calcio a un vero e proprio linguaggio, coi suoi poeti e prosatori, e definisce il football un sistema di segni, cioè un linguaggio, che ha tutte le caratteristiche fondamentali di quello scritto-parlato:

 Scrive Giovanni Santucci in "Calcio e letteratura: lo sport di Pasolini":

 «Una tra le più belle fotografie di Pasolini lo ritrae in strada. Dietro di lui un marciapiede non finito, solo un gradino di marmo e, oltre, un cumulo di erba e terra. Segni di quell’Italia dall’edilizia affaccendata e frettolosa, di una modernità sbrigativa e inconcludente.

È una giornata di sole e Pasolini è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e le scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l'abbigliamento, con l'interno del piede destro controlla un pallone, la gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, tutto il peso sull'altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni sono stretti e le braccia larghe, tese come ali alla ricerca dellequilibrio; lo sguardo fisso a terra sul suo gesto tecnico, concentratissimo come in una quantità di altre fotografie scattate sui campi da gioco.

Dovrebbe esserci un’incongruenza tra quel vestito e l’impegno sportivo, tra quel vestito e il “gioco“: sulle gambe i pantaloni si agitano in mille pieghe, sbalzati da cunei di ombra e luce, le code della giacca si aprono come un mantello e sventolano scomposte dietro la schiena. Invece tutto è naturale, in quella foto, la posa e lo sguardo, l’abito e la strada.

È la fotografia più bella del Pasolini calciatore perché il calcio al pallone è in essa un gesto di libertà e di gioia. A indovinare dall’esterno, non si direbbe neppure una partita vera e propria, con tutta probabilità si trattava piuttosto di un incontro non prestabilito: una di quelle occasioni offerte dal caso in mezzo alla strada che lo scrittore aveva accolto di buon grado, unendosi, com’era solito fare, a quelle situazioni in cui non si contrasta e non si segnano dei goal, ma si fa semplicemente volare e correre il pallone, si prova qualche finezza, si urla e si ride mentre la palla l’hanno gli altri. Pasolini si prende la libertà di sporcarsi e di sudare quando non dovrebbe, di rovinare i suoi vestiti e magari di dimenticarsi di qualche appuntamento.

Di sicuro quel mattino annodandosi la cravatta non prevedeva questa piccola occasione per scalmanarsi, ma quando essa si è presentata non ha avuto bisogno di prepararsi o cambiarsi, e neppure di togliersi la giacca. Ha chiamato, ha detto - passamela! - e via. È il modo di essere libero e tipico del bambino, che può correre senza remore dietro al pallone anche fuori della chiesa, dopo la prima comunione, con il vestito della festa e i mocassini, perché a vedere una palla che salta e rotola non si può star lì a guardare. Oltre i quindici o sedici anni, la vita attenta e pulita opprime, nega la possibilità di un simile divertimento, così estemporaneo e anarchico, e vedere il poeta in cravatta che gioca per strada a trenta e a quarant'anni mette addosso una qualche malinconia. 


Fonti:web

 

giovedì 28 maggio 2020

LA DISSOLUZIONE DELL'IO- L. PIRANDELLO -I. SVEVO


LA DISSOLUZIONE DELL'IO: LUIGI PIRANDELLO- I. SVEVO


L’autore che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la dissoluzione dell’io e con largo anticipo sugli altri è Luigi Pirandello (1867-1936).
Al centro della tematica pirandelliana è l’uomo, colto nel difficile esercizio del mestiere di vivere, con le sue ansie e le sue nevrosi, con le sue contraddizioni psicologiche e i suoi rovelli interiori, alla continua ricerca di un varco (o di un autoinganno, o di una finzione, o di un attimo di pazzia) che consenta l’uscita dalla sua “forma”, dal carcere del suo ruolo, dal limite del copione che è costretto a recitare, in mille variazioni e con l’unica ossessiva persistenza di una “coscienza infelice”. La presenza ossessiva dell’umano, inteso come terreno di scavo, di perenne interrogazione non è prerogativa di un’opera, è motivo trasversale che si attesta in tutta la produzione pirandelliana: non conosce la barriera dei generi e trasborda dalle novelle alle poesie, dalle sceneggiature cinematografiche ai romanzi, dai saggi ai libretti d’opera. “È come un vasto terreno da cui scorrono- afferma G. Macchia- continui canali di irrigazione”; questi canali sono gli apporti che giunsero a Pirandello non da un’adesione naturalistica ai “vissuti”, ma dalle letture filosofiche, da Binet a Bergson, da una cultura eterogenea in cui grandi movimenti di pensiero, dal Romanticismo all’irrazionalismo, hanno lasciato il loro segno, hanno seminato, sulla scorta di un pessimismo di fondo, non risposte, solo grumi concettuali, nodi attorno ai quali indagare. I personaggi stessi (da Paleari de Il fu Mattia Pascal a Laudesi di Così è (se vi pare)) sono i portavoce di questa ricerca dentro l’esistente: ad essi è affidato il compito sia di dare voce all’idee dell’autore, sia di portare avanti, fino agli esiti più paradossali, l’opera di incrinatura e di disgregazione della compatta superficie delle cose. Da un lato, allora, proprio perché i personaggi fanno parte dell’esistente, tracciano il primo filone tematico caro a Pirandello, quello che descrive, tassello dopo tassello, la situazione dell’uomo, i segni del vivere; dall’altro lato, dal momento che i personaggi sono esseri pensanti, portano avanti il secondo filone, quello della coscienza di questa condizione esistenziale. La condizione dell’uomo è tutta riassumibile nell’assurdità che sta alla radice del nascere: il venire alla luce significa il venir meno al caos, perdere l’infinita varietà delle possibili forme per fissarsi soltanto in una, che, se garantisce l’identità, parallelamente chiude, incasella, nasconde. Nascere, per Pirandello, significa cessare, è sinonimo di morire, morire perché implica la perdita del poter essere, delle infinite possibilità dell’esistere, per chiudersi in una realtà finita, particolare, distinta da tutte le altre, ma perciò stesso caduca. Nascere allora significa acquisire un corpo, un volto, una maschera: precludersi la vita del tutto per diventare monade inconoscibile e non- conoscente, incarnazione del relativismo dei sofisti. Il campione d’uomo assunto da Pirandello sembra il manifesto programmatico di tutto il controsenso della vita. In essa, infatti, la verità unica, assoluta, non esiste e, se anche ci fosse, l’uomo non potrebbe coglierla, perché lo strumento che ha a disposizione, la ragione, è troppo limitata per reggere a tale incarico; se anche l’uomo potesse comunque coglierla, non saprebbe comunicarla perché la verità sarebbe eccedente in rapporto alle parole che egli ha a disposizione. Il motivo della “verità in frantumi”, della sfaccettatura dell’unicum in schegge non più ricomponibili porta con sé tutta l’incertezza del soggettivismo che diviene l’etichetta, la titolazione di molte sue opere e a cui si ricollegano il motivo dell’angoscia, della nausea dell’uomo che scopre di avere le ali tarpate ( La carriola) intuendo che esiste un’altra dimensione, tanto gratificante quanto irraggiungibile, del vivere. Privo di un qualsiasi nucleo unificante, l’individuo ha un doppio volto, è un erma bifronte oscillante fra il pianto nascosto e il riso apparente, esternamente libero di operare delle scelte, in realtà internamente imbrigliato dal suo ruolo, dalla sua maschera, oltre la quale non può vivere. L’uomo di Pirandello, precipitato dal caos ad opera della fortuna, forza onnipresente che colpisce inaspettatamente, sotto forma di azzardo (altro tema-motivo costante in Pirandello), in questa forma di uomo, deve semplicemente adattarsi al calco, deve integrarsi ad esso in un perenne processo di standardizzazione: deve cioè aderire senza scarto al suo ruolo, a quanto gli altri hanno pre-formato e si attendono da lui (così ad esempio, il triste personaggio de La patente). Deve gettare a fondo, occultare fino a dimenticarsene, le pulsioni, i sogni, i desideri, il brulichio della vita vera. La società diviene, quindi, palcoscenico, spazio della finzione, somma senza interazione di tanti microcosmi slegati e ammaestrati. L’incomunicabilità non è un male sociale, non è solo un malessere storico, è la risultante dell’impossibilità di aggregarsi agli altri che l’uomo vive come un destino ineluttabile. Egli, inoltre, è impedito nel suo tentativo di costruire una recedi rapporti, non solo con l’ esterno ma addirittura con se stesso, chiuso nell’assurdità delle convenzioni che impongono il primato dell’apparenza sul reale. È emblematica la vicenda che dà vita a L’esclusa (1894), il primo romanzo di Pirandello: qui la società è infatti caratterizzata, pessimisticamente, nel suo intrico di pregiudizi e di luoghi comuni. Marta, la protagonista è un’onesta moglie cacciata, innocente, dal marito sotto l’accusa del tradimento e, in seguito, dopo molte peripezie, riabilitata e reintegrata nel suo ruolo familiare quando si è realmente macchiata della colpa di cui era stata accusata. La società, soprattutto quella meridionale ( così come è colta neI vecchi e i giovani o in tante novelle che hanno come sfondo l’ambiente siciliano), teatro di desolazione dove ciascuno, individualmente, consuma il proprio fallimento. In Pirandello, infatti, il motivo della sconfitta, lontano dall’aura di grandezza del superuomo dannunziano, “si afferma con piena consapevolezza al centro della sua opera”. Se i personaggi de I vecchi e i giovani sintetizzano la “ bancarotta del patriottismo”, e, nella stessa misura testimoniano la caduta verticale degli ideali risorgimentali, allo stesso tempo manifestano, nella constatazione dell’arretratezza sociale e culturale delle masse meridionali, il crollo della fiducia nelle teorie socialiste. “ nel romanzo si ha l’acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del risorgimento, come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e, in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e dell’ignoranza e dell’arretratezza delle masse. E insieme si ha la storia dei fallimenti individuali: dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano ad essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno, dei giovani che si sentono soffocare in una società ormai cristallizzata che non permette l’azione trasformatrice e, quindi, il libero esprimersi della personalità”. La sconfitta non è, però, nell’universo pirandelliano, il frutto di un’epoca, del ”rovinio…di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede”; non è scritta soltanto dalla storia dentro una particolare ideologia o dentro un particolare ambiente.
In particolare nei due romanzi Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità alterata, maniacale o schizoide, emblemi del caos dell’esistenza. Mattia Pascal è un caso di sdoppiamento della personalità, ha abbandonato un io per costruirsene artificialmente un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra il suo io passato e quello presente, senza poter essere né l’uno né l’altro. Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, scopre l’inconsistenza del proprio io, il suo essere un flusso di percezioni mutevoli, un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento. In altre parole il soggetto si frantuma in una miriade di sensazione, si sfarina nelle cose che riflette, in un libro, in un albero, in una nuvola.
ITALO SVEVO
Svevo, così come Pirandello, si orientò verso una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e dell’aridità dell’individuo che avverte con disperazione la propria incapacità alla vita e riflette la generale tragedia di tutta la società. Anche per Svevo, infatti,l’interesse per l’uomo non si risolve in uno studio dei rapporti tra l’individuo e l’ambiente ma si accentra in un’indagine degli impulsi più segreti e oscuri dell’animo.
Tutti e tre i grandi romanzi di Svevo rappresentano in primo piano l’abulia e l’inettitudine, che congiurano a creare atmosfere stanche e malsane. I suoi personaggi rappresentano situazioni umane caratterizzate da un’incertezza spirituale, da una sostanziale inutilità di esistenze e di destini. La vicenda di ciascuno si rivela fatta di mancanze che sollecitano una vana alacrità psicologica, carica di tensioni e povere di scopi, eccitata di sogni, di ambizioni, ma squallidamente incatenata a un ruolo di inoperosa inconcludenza. Svevo sviluppa nelle sue opere il tema dell’inettitudine, della incapacità di vivere che è forse il vero tema di fondo dalla letteratura novecentesca.
Nel romanzo Una vita, il cui titolo originario era Un inetto, Alfonso è il fratello carnale dei protagonisti degli altri due romanzi: è abulico come Brentani e Zeno. Alfonso Nitti è un piccolo impiegato che viene a contatto con la società dominata dall’interesse e dal denaro con cui finisce con l’esserne travolto. Ciononostante, anche come eroe negativo, come inetto proiettato nella grande lotta per la vita, egli dovrà conoscere il potere delle illusioni nell’esperienza che viene compiendo. Nel ritratto di questo personaggio l’autore concentra l’alternativa sogno-realtà, la crisi della volontà e della coscienza di fronte alla brutalità delle scelte imposte dalla vita.
Il vero tema del romanzo è il meccanismo della psicologia di Alfonso, l’incastro perfido e inesorabile delle sue scelte di destino, la contraddittoria catena delle sue illusioni e dei suoi errori, che lo porteranno al suicidio. Egli è un inetto come suonava più propriamente il titolo originario. Egli è un intellettuale e soprattutto un megalomane impedito da un suo rapporto sbagliato con la vita. Il suo vero regno è il sogno, la fantasticheria, l’irrealismo che gli procura una provvisoria sicurezza e addirittura la felicità. La svolta del romanzo è costituita quando nasce la simpatia tra Anna e Alfonso, nonostante la distanza tra le rispettive posizioni sociali. Il successo in amore di Alfonso è paradossalmente il fatto che scatena il suo fallimento morale che lo porterà alla tragedia. L’inetto non è in grado di vivere il proprio successo, perché questo significherebbe la preclusione del sogno, la sostituzione della realtà alla grande fantasia di cui la sua vita ha bisogno. Col pretesto di visitare la madre ammalata si allontana dalla fidanzata, ma il processo di autodistruzione continua. Tornato, vistosi circondato dal disprezzo e dalla indifferenza di tutti sceglie il suicidio. Molto diverso da Alfonso è il protagonista del secondo romanzo Senilità, Emilio Brentani, la cui passione per Angiolina, una popolana esuberante ed infedele, è contrassegnata da una tormentosa gelosia. Il rapporto del protagonista con la vita è sempre quello della malattia, della fondamentale sfasatura che lo rende inetto ad inserirsi nel ritmo normale dell’esistenza. Egli è l’uomo della crisi: disperso in mezzo ala sua solitudine egli anela la verità della vita e non ne incontra che gli adescamenti. Se Alfonso è la vittima della propria astratta intelligenza, Emilio è pronto a sottomettersi ai ricatti della vita, ma neanche questa basata a salvarlo. L’uomo è smarrito nel labirinto e non può che registrare il suo penoso disorientamento per primo nel grande romanzo del 900. Lo Svevo individua esattamente il momento in cui l’uomo, abbandonata ogni metafisica, scoperti i territori laici della conoscenza, avverte che il crollo delle antiche fedi e della vecchia società lo lascia alla mercè di forze incontrollabili che sorgono dal profondo del suo stesso essere, e che ha oil deserto intorno a sé. Nel suo capolavoro, La coscienza di Zeno, l’autore riprende il tema della malattia. La malattia consiste nel vedere la realtà ridotta  a frammenti e a vedere come è irrimediabile la scissione della propria coscienza. Anche Zeno è un inetto, ma è presentato dallo scrittore in maniera completamente diversa:; come Alfonso soffre delle stesse complicazioni nel suo rapporto con la realtà, di entrambi si può dire che le loro velleità sono sempre in anticipo, le loro decisioni sempre in ritardo. La differenza sta in questo: che per Zeno Cosini tutto  il mondo è complice in suo favore, la vita gli aggiusta gli errori e li trasforma miracolosamente in successi. L’alienazione, la solitudine, che per Alfonso era un problema personale, nella Coscienza è una regola di vita, in realtà egli è l’inetto di sempre e il pessimismo dello scrittore si riflette in lui, è gaio, scanzonato, ironico, gli vanno tutte bene. In realtà è l’inetto di sempre, non è uno che è guarito, ma uno che ha accettato la sua malattia e si è reso conto che essa coincide con la sua originalità esistenziale. In tal modo si è messo nelle condizioni di poter convivere con i normali, e anzi godere dei vantaggi che la conoscenza analitica di sé e degli altri gli procura. Il romanzo di Svevo esprime la crisi europea del primo 900: egli è l’unico narratore italiano che abbia effettivamente interpretato la grande crisi europea del primo 900, non mascherandola nell’artificio stilistico la propria possibilità sociale, ma anzi riconducendola ai termini spogli dell’autobiografia, al diario dei giorni senza speranza che precedettero o seguirono immediatamente la prima guerra mondiale. Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno sono i tre romanzi in cui Svevo raccolse il suo problema, quello dell’uomo che non sa e non può inserirsi nella società a cui appartiene. L’uomo, per Svevo, è portato necessariamente ad esaminare la propria funzione sociale ed è distrutto dalla propria inquieta problematica che è indice di una crisi non più soggettiva ma universale.
SVEVO/PIRANDELLO
L’accostamento di Svevo a Pirandello è d‘obbligo, anche se nella vita non c’è mai stato nessun sodalizio, hanno tuttavia seguito un itinerario artistico che per molti aspetti li ha uniti: la comune formazione nell’area veristico - naturalistica, gli studi in Germania e l’acquisizione di una cultura filosofica tendente al relativismo e al problematicismo, il ruolo di testimoni della coscienza smarrita dell’uomo moderno, la fama dopo la guerra mondiale.
La consapevolezza della crisi dei valori che erano stati propri della società borghese ottocentesca, dall’età romantica a quella positivistica, divenne totale in Italo Svevo e Luigi Pirandello.
Entrambi affrontarono la desolata condizione dell’uomo contemporaneo che viveva in un’angosciosa prigione di apparenze.
Si distaccano per le diverse reazioni che hanno i loro personaggi davanti ad un identico stato di crisi sociale ed esistenziale.
Partono entrambi dal labirinto della coscienza, però, mentre Svevo scava con ironia nella psicologia del profondo del personaggio, facendone emergere l’inettitudine in Alfonso e in Emilio un atteggiamento più sornione in Zeno, in Pirandello avviene attraverso la riflessione umoristica.
Con la loro attività letteraria entrambi compirono una spietata esplorazione della condizione dell’uomo del nostro tempo, del suo smarrimento, della sua disperata solitudine.
Sia Svevo che Pirandello possiedono un luogo nella loro produzione destinato alla riflessione critica sui rispettivi strumenti di scrittura: questo è il Profilo autobiografico (1927) per Svevo e il saggio L’Umorismo (1908) per Pirandello.
Se il carattere del Profilo sveviano è non solo quello di un’opera di teoria letteraria, ma anche quello, come suggerisce il titolo stesso, di una vera e propria autobiografia in terza persona, per Pirandello si tratta invece di una riflessione critica su una componente essenziale della sua produzione, soprattutto letteraria oltre che teatrale, appunto l’umorismo.
Innanzitutto sarà utile indicare la sostanziale differenza che vi è tra ironia e umorismo: l’ironia è un particolare modo di esprimersi che conferisce alle parole un significato contrario o diverso da quello letterale, spesso con intento derisorio, mentre l’umorismo è una vera e propria attitudine a vedere la realtà sotto aspetti bizzarri o singolari che, suscitando il riso, consentono una visione più ampia e complessiva della realtà stessa. Vale a dire che l’ironia è una figura retorica volta a deformare il senso primo e più diretto di una parola o di un’espressione, è una tecnica espressiva capillare di chi scrive che, accostando immagini tra loro diverse o inconsuete, suscita il sorriso del lettore, mentre l’umorismo è un atteggiamento, un modo di osservare la realtà riportato sulla pagina stessa in cui la presenza dello scrittore rimane più in ombra e l’attenzione è indirizzata più al fatto descritto o alla situazione osservata.
Nel suo saggio Pirandello analizza con grande lucidità critica il significato dell’umorismo nelle sue opere attraverso la differenza tra “avvertimento” del contrario (comico) e “sentimento” del contrario (umoristico). A differenza dell’arte in generale, secondo Pirandello, le creazioni tipiche dell’umorismo nascono da una “scomposizione” della realtà che ne mette a nudo gli elementi contraddittori, di disordine e di imprevisto, il contrario di ciò che generalmente ci aspettiamo di vedere. In Pirandello l’umorismo nasce da un’attività della riflessione e dell’analisi della ricerca di contrasti e contraddizioni che portano a una visione drammatica della realtà, al di là del dato superficialmente comico, in una assoluta e inestricabile ambivalenza tra riso e pianto.
Per Svevo l’ironia ha invece una funzione essenziale, soprattutto nella Coscienza di Zeno, in quanto ad essa è affidato tutto il peso del piano del giudizio, vale a dire che è lo strumento retorico del quale lo scrittore si serve per afferrare in un giudizio complessivo di condanna il protagonista e il mondo nel quale è invischiato. L’ironia si insinua così in ogni azione di Zeno per corrodere ogni certezza che il personaggio sembra raggiungere, divenendo l’occhio critico che coglie l’incolmabile distanza e inconciliabilità tra azioni umane e intenzioni, tra la volontà e la sua realizzazione mai fedele e sempre distorta da impulsi incontrollabili perché inconsci. Svevo, dunque, attraverso l’ironia deforma la realtà in caricatura per affermare l’impotenza della volontà. Come lo stesso autore afferma nel Profilo autobiografico:” Rasenta una caricatura, questa rappresentazione; e infatti il Cremieux lo metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa tra le cose”. Ciò che di comune hanno gli atteggiamenti di Svevo e di Pirandello è senz’altro una lucida e spesso cinica osservazione del reale, che ne coglie le storture e le contraddizioni, meno drammatica in Svevo in cui l’ironia stempera e alleggerisce la pagina, più meditata, analitica e cupa in Pirandello, che non nasconde ma evidenzia, la violenta antinomia che simboleggia l’uomo moderno.