LA DISSOLUZIONE DELL'IO: LUIGI PIRANDELLO- I. SVEVO
L’autore
che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la
dissoluzione dell’io e con largo anticipo sugli altri è Luigi Pirandello (1867-1936).
Al centro
della tematica pirandelliana è l’uomo, colto nel difficile esercizio del
mestiere di vivere, con le sue ansie e le sue nevrosi, con le sue
contraddizioni psicologiche e i suoi rovelli interiori, alla continua ricerca
di un varco (o di un autoinganno, o di una finzione, o di un attimo di pazzia)
che consenta l’uscita dalla sua “forma”, dal carcere del suo ruolo, dal limite
del copione che è costretto a recitare, in mille variazioni e con l’unica
ossessiva persistenza di una “coscienza infelice”. La presenza ossessiva
dell’umano, inteso come terreno di scavo, di perenne interrogazione non è
prerogativa di un’opera, è motivo trasversale che si attesta in tutta la
produzione pirandelliana: non conosce la barriera dei generi e trasborda dalle
novelle alle poesie, dalle sceneggiature cinematografiche ai romanzi, dai saggi
ai libretti d’opera. “È come un vasto terreno da cui scorrono- afferma G.
Macchia- continui canali di irrigazione”; questi canali sono gli apporti che
giunsero a Pirandello non da un’adesione naturalistica ai “vissuti”, ma dalle
letture filosofiche, da Binet a Bergson, da una cultura eterogenea in cui
grandi movimenti di pensiero, dal Romanticismo all’irrazionalismo, hanno
lasciato il loro segno, hanno seminato, sulla scorta di un pessimismo di fondo,
non risposte, solo grumi concettuali, nodi attorno ai quali indagare. I
personaggi stessi (da Paleari de Il fu Mattia Pascal
a Laudesi di Così
è (se vi pare)) sono i portavoce di questa ricerca dentro l’esistente: ad
essi è affidato il compito sia di dare voce all’idee dell’autore, sia di
portare avanti, fino agli esiti più paradossali, l’opera di incrinatura e di
disgregazione della compatta superficie delle cose. Da un lato, allora, proprio
perché i personaggi fanno parte dell’esistente, tracciano il primo filone
tematico caro a Pirandello, quello che descrive, tassello dopo tassello, la
situazione dell’uomo, i segni del vivere; dall’altro lato, dal momento che i
personaggi sono esseri pensanti, portano avanti il secondo filone, quello della
coscienza di questa condizione esistenziale. La condizione dell’uomo è tutta
riassumibile nell’assurdità che sta alla radice del nascere: il venire alla
luce significa il venir meno al caos, perdere l’infinita varietà delle
possibili forme per fissarsi soltanto in una, che, se garantisce l’identità,
parallelamente chiude, incasella, nasconde. Nascere, per Pirandello, significa
cessare, è sinonimo di morire, morire perché implica la perdita del poter
essere, delle infinite possibilità dell’esistere, per chiudersi in una realtà
finita, particolare, distinta da tutte le altre, ma perciò stesso caduca.
Nascere allora significa acquisire un corpo, un volto, una maschera:
precludersi la vita del tutto per diventare monade inconoscibile e non-
conoscente, incarnazione del relativismo dei sofisti. Il campione d’uomo
assunto da Pirandello sembra il manifesto programmatico di tutto il controsenso
della vita. In essa, infatti, la verità unica, assoluta, non esiste e, se anche
ci fosse, l’uomo non potrebbe coglierla, perché lo strumento che ha a
disposizione, la ragione, è troppo limitata per reggere a tale incarico; se
anche l’uomo potesse comunque coglierla, non saprebbe comunicarla perché la
verità sarebbe eccedente in rapporto alle parole che egli ha a disposizione. Il
motivo della “verità in frantumi”, della sfaccettatura dell’unicum in schegge
non più ricomponibili porta con sé tutta l’incertezza del soggettivismo che
diviene l’etichetta, la titolazione di molte sue opere e a cui si ricollegano
il motivo dell’angoscia, della nausea dell’uomo che scopre di avere le ali
tarpate ( La
carriola) intuendo che esiste un’altra dimensione, tanto gratificante
quanto irraggiungibile, del vivere. Privo di un qualsiasi nucleo unificante,
l’individuo ha un doppio volto, è un erma bifronte oscillante fra il pianto
nascosto e il riso apparente, esternamente libero di operare delle scelte, in
realtà internamente imbrigliato dal suo ruolo, dalla sua maschera, oltre la
quale non può vivere. L’uomo di Pirandello, precipitato dal caos ad opera della
fortuna, forza onnipresente che colpisce inaspettatamente, sotto forma di
azzardo (altro tema-motivo costante in Pirandello), in questa forma di uomo,
deve semplicemente adattarsi al calco, deve integrarsi ad esso in un perenne
processo di standardizzazione: deve cioè aderire senza scarto al suo ruolo, a
quanto gli altri hanno pre-formato e si attendono da lui (così ad esempio, il
triste personaggio de La patente). Deve
gettare a fondo, occultare fino a dimenticarsene, le pulsioni, i sogni, i
desideri, il brulichio della vita vera. La società diviene, quindi,
palcoscenico, spazio della finzione, somma senza interazione di tanti
microcosmi slegati e ammaestrati. L’incomunicabilità non è un male sociale, non
è solo un malessere storico, è la risultante dell’impossibilità di aggregarsi
agli altri che l’uomo vive come un destino ineluttabile. Egli, inoltre, è
impedito nel suo tentativo di costruire una recedi rapporti, non solo con l’
esterno ma addirittura con se stesso, chiuso nell’assurdità delle convenzioni
che impongono il primato dell’apparenza sul reale. È emblematica la vicenda che
dà vita a L’esclusa (1894), il primo romanzo di Pirandello: qui la società è
infatti caratterizzata, pessimisticamente, nel suo intrico di pregiudizi e di
luoghi comuni. Marta, la protagonista è un’onesta moglie cacciata, innocente,
dal marito sotto l’accusa del tradimento e, in seguito, dopo molte peripezie,
riabilitata e reintegrata nel suo ruolo familiare quando si è realmente
macchiata della colpa di cui era stata accusata. La società, soprattutto quella
meridionale ( così come è colta neI vecchi e i giovani o in tante novelle che
hanno come sfondo l’ambiente siciliano), teatro di desolazione dove ciascuno,
individualmente, consuma il proprio fallimento. In Pirandello, infatti, il
motivo della sconfitta, lontano dall’aura di grandezza del superuomo
dannunziano, “si afferma con piena consapevolezza al centro della sua opera”.
Se i personaggi de I vecchi e i giovani sintetizzano la “ bancarotta del
patriottismo”, e, nella stessa misura testimoniano la caduta verticale degli
ideali risorgimentali, allo stesso tempo manifestano, nella constatazione
dell’arretratezza sociale e culturale delle masse meridionali, il crollo della
fiducia nelle teorie socialiste. “ nel romanzo si ha l’acuta consapevolezza di
tre fallimenti collettivi: quello del risorgimento, come moto generale di
rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità come strumento di liberazione
e di sviluppo delle zone più arretrate e, in particolare della Sicilia e
dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la
ripresa del movimento risorgimentale, invece si era perduto nelle secche della
irresponsabile leggerezza dei dirigenti e dell’ignoranza e dell’arretratezza
delle masse. E insieme si ha la storia dei fallimenti individuali: dei vecchi
che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano ad essere
responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno, dei giovani che
si sentono soffocare in una società ormai cristallizzata che non permette
l’azione trasformatrice e, quindi, il libero esprimersi della personalità”. La
sconfitta non è, però, nell’universo pirandelliano, il frutto di un’epoca, del
”rovinio…di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede”; non è scritta
soltanto dalla storia dentro una particolare ideologia o dentro un particolare
ambiente.
In particolare nei
due romanzi Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila
(1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità
alterata, maniacale o schizoide, emblemi del caos dell’esistenza. Mattia Pascal
è un caso di sdoppiamento della personalità, ha abbandonato un io per
costruirsene artificialmente un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra
il suo io passato e quello presente, senza poter essere né l’uno né l’altro.
Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, scopre
l’inconsistenza del proprio io, il suo essere un flusso di percezioni mutevoli,
un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento. In altre parole il soggetto
si frantuma in una miriade di sensazione, si sfarina nelle cose che riflette,
in un libro, in un albero, in una nuvola.
ITALO SVEVO
Svevo, così come Pirandello, si orientò verso
una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e
dell’aridità dell’individuo che avverte con disperazione la propria incapacità
alla vita e riflette la generale tragedia di tutta la società. Anche per Svevo,
infatti,l’interesse per l’uomo non si risolve in uno studio dei rapporti tra
l’individuo e l’ambiente ma si accentra in un’indagine degli impulsi più
segreti e oscuri dell’animo.
Tutti e tre i grandi romanzi di
Svevo rappresentano in primo piano l’abulia e l’inettitudine, che congiurano a
creare atmosfere stanche e malsane. I suoi personaggi rappresentano situazioni
umane caratterizzate da un’incertezza spirituale, da una sostanziale inutilità
di esistenze e di destini. La vicenda di ciascuno si rivela fatta di mancanze
che sollecitano una vana alacrità psicologica, carica di tensioni e povere di
scopi, eccitata di sogni, di ambizioni, ma squallidamente incatenata a un ruolo
di inoperosa inconcludenza. Svevo sviluppa nelle sue opere il tema
dell’inettitudine, della incapacità di vivere che è forse il vero tema di fondo
dalla letteratura novecentesca.
Nel
romanzo Una vita,
il cui titolo originario era Un inetto, Alfonso è il fratello carnale dei
protagonisti degli altri due romanzi: è abulico come Brentani e Zeno. Alfonso
Nitti è un piccolo impiegato che viene a contatto con la società dominata
dall’interesse e dal denaro con cui finisce con l’esserne travolto.
Ciononostante, anche come eroe negativo, come inetto proiettato nella grande
lotta per la vita, egli dovrà conoscere il potere delle illusioni
nell’esperienza che viene compiendo. Nel ritratto di questo personaggio l’autore
concentra l’alternativa sogno-realtà, la crisi della volontà e della coscienza
di fronte alla brutalità delle scelte imposte dalla vita.
Il vero
tema del romanzo è il meccanismo della psicologia di Alfonso, l’incastro
perfido e inesorabile delle sue scelte di destino, la contraddittoria catena
delle sue illusioni e dei suoi errori, che lo porteranno al suicidio. Egli è un
inetto come suonava più propriamente il titolo originario. Egli è un
intellettuale e soprattutto un megalomane impedito da un suo rapporto sbagliato
con la vita. Il suo vero regno è il sogno, la fantasticheria, l’irrealismo che
gli procura una provvisoria sicurezza e addirittura la felicità. La svolta del
romanzo è costituita quando nasce la simpatia tra Anna e Alfonso, nonostante la
distanza tra le rispettive posizioni sociali. Il successo in amore di Alfonso è
paradossalmente il fatto che scatena il suo fallimento morale che lo porterà
alla tragedia. L’inetto non è in grado di vivere il proprio successo, perché
questo significherebbe la preclusione del sogno, la sostituzione della realtà
alla grande fantasia di cui la sua vita ha bisogno. Col pretesto di visitare la
madre ammalata si allontana dalla fidanzata, ma il processo di autodistruzione
continua. Tornato, vistosi circondato dal disprezzo e dalla indifferenza di
tutti sceglie il suicidio. Molto diverso da Alfonso è il protagonista del
secondo romanzo Senilità, Emilio Brentani,
la cui passione per Angiolina, una popolana esuberante ed infedele, è
contrassegnata da una tormentosa gelosia. Il rapporto del protagonista con la
vita è sempre quello della malattia, della fondamentale sfasatura che lo rende
inetto ad inserirsi nel ritmo normale dell’esistenza. Egli è l’uomo della
crisi: disperso in mezzo ala sua solitudine egli anela la verità della vita e
non ne incontra che gli adescamenti. Se Alfonso è la vittima della propria
astratta intelligenza, Emilio è pronto a sottomettersi ai ricatti della vita,
ma neanche questa basata a salvarlo. L’uomo è smarrito nel labirinto e non può
che registrare il suo penoso disorientamento per primo nel grande romanzo del
900. Lo Svevo individua esattamente il momento in cui l’uomo, abbandonata ogni
metafisica, scoperti i territori laici della conoscenza, avverte che il crollo
delle antiche fedi e della vecchia società lo lascia alla mercè di forze
incontrollabili che sorgono dal profondo del suo stesso essere, e che ha oil
deserto intorno a sé. Nel suo capolavoro, La coscienza di Zeno,
l’autore riprende il tema della malattia. La malattia consiste nel vedere la
realtà ridotta a frammenti e a vedere come è irrimediabile la scissione
della propria coscienza. Anche Zeno è un inetto, ma è presentato dallo
scrittore in maniera completamente diversa:; come Alfonso soffre delle stesse
complicazioni nel suo rapporto con la realtà, di entrambi si può dire che le
loro velleità sono sempre in anticipo, le loro decisioni sempre in ritardo. La
differenza sta in questo: che per Zeno Cosini tutto il mondo è complice
in suo favore, la vita gli aggiusta gli errori e li trasforma miracolosamente
in successi. L’alienazione, la solitudine, che per Alfonso era un problema
personale, nella Coscienza è una regola di vita, in realtà egli è l’inetto di
sempre e il pessimismo dello scrittore si riflette in lui, è gaio, scanzonato, ironico,
gli vanno tutte bene. In realtà è l’inetto di sempre, non è uno che è guarito,
ma uno che ha accettato la sua malattia e si è reso conto che essa coincide con
la sua originalità esistenziale. In tal modo si è messo nelle condizioni di
poter convivere con i normali, e anzi godere dei vantaggi che la conoscenza
analitica di sé e degli altri gli procura. Il romanzo di Svevo esprime la crisi
europea del primo 900: egli è l’unico narratore italiano che abbia
effettivamente interpretato la grande crisi europea del primo 900, non
mascherandola nell’artificio stilistico la propria possibilità sociale, ma anzi
riconducendola ai termini spogli dell’autobiografia, al diario dei giorni senza
speranza che precedettero o seguirono immediatamente la prima guerra mondiale.
Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno sono i tre romanzi in cui Svevo
raccolse il suo problema, quello dell’uomo che non sa e non può inserirsi nella
società a cui appartiene. L’uomo, per Svevo, è portato necessariamente ad
esaminare la propria funzione sociale ed è distrutto dalla propria inquieta
problematica che è indice di una crisi non più soggettiva ma universale.
SVEVO/PIRANDELLO
L’accostamento
di Svevo a Pirandello è d‘obbligo, anche se nella vita non c’è mai stato nessun
sodalizio, hanno tuttavia seguito un itinerario artistico che per molti aspetti
li ha uniti: la comune formazione nell’area veristico - naturalistica, gli
studi in Germania e l’acquisizione di una cultura filosofica tendente al
relativismo e al problematicismo, il ruolo di testimoni della coscienza
smarrita dell’uomo moderno, la fama dopo la guerra mondiale.
La
consapevolezza della crisi dei valori che erano stati propri della società
borghese ottocentesca, dall’età romantica a quella positivistica, divenne
totale in Italo Svevo e Luigi Pirandello.
Entrambi
affrontarono la desolata condizione dell’uomo contemporaneo che viveva in
un’angosciosa prigione di apparenze.
Si
distaccano per le diverse reazioni che hanno i loro personaggi davanti ad un
identico stato di crisi sociale ed esistenziale.
Partono
entrambi dal labirinto della coscienza, però, mentre Svevo scava con ironia
nella psicologia del profondo del personaggio, facendone emergere
l’inettitudine in Alfonso e in Emilio un atteggiamento più sornione in Zeno, in
Pirandello avviene attraverso la riflessione umoristica.
Con la
loro attività letteraria entrambi compirono una spietata esplorazione della
condizione dell’uomo del nostro tempo, del suo smarrimento, della sua disperata
solitudine.
Sia Svevo
che Pirandello possiedono un luogo nella loro produzione destinato alla
riflessione critica sui rispettivi strumenti di scrittura: questo è il Profilo
autobiografico (1927) per Svevo e il saggio L’Umorismo (1908) per
Pirandello.
Se il
carattere del Profilo sveviano è non solo quello di un’opera di teoria
letteraria, ma anche quello, come suggerisce il titolo stesso, di una vera e
propria autobiografia in terza persona, per Pirandello si tratta invece di una
riflessione critica su una componente essenziale della sua produzione,
soprattutto letteraria oltre che teatrale, appunto l’umorismo.
Innanzitutto
sarà utile indicare la sostanziale differenza che vi è tra ironia e umorismo:
l’ironia è un particolare modo di esprimersi che conferisce alle parole un
significato contrario o diverso da quello letterale, spesso con intento
derisorio, mentre l’umorismo è una vera e propria attitudine a vedere la realtà
sotto aspetti bizzarri o singolari che, suscitando il riso, consentono una
visione più ampia e complessiva della realtà stessa. Vale a dire che l’ironia è
una figura retorica volta a deformare il senso primo e più diretto di una
parola o di un’espressione, è una tecnica espressiva capillare di chi scrive
che, accostando immagini tra loro diverse o inconsuete, suscita il sorriso del
lettore, mentre l’umorismo è un atteggiamento, un modo di osservare la realtà
riportato sulla pagina stessa in cui la presenza dello scrittore rimane più in
ombra e l’attenzione è indirizzata più al fatto descritto o alla situazione osservata.
Nel suo
saggio Pirandello analizza con grande lucidità critica il significato
dell’umorismo nelle sue opere attraverso la differenza tra “avvertimento” del
contrario (comico) e “sentimento” del contrario (umoristico). A differenza
dell’arte in generale, secondo Pirandello, le creazioni tipiche dell’umorismo
nascono da una “scomposizione” della realtà che ne mette a nudo gli elementi
contraddittori, di disordine e di imprevisto, il contrario di ciò che
generalmente ci aspettiamo di vedere. In Pirandello l’umorismo nasce da
un’attività della riflessione e dell’analisi della ricerca di contrasti e
contraddizioni che portano a una visione drammatica della realtà, al di là del
dato superficialmente comico, in una assoluta e inestricabile ambivalenza tra riso
e pianto.
Per Svevo
l’ironia ha invece una funzione essenziale, soprattutto nella Coscienza di
Zeno, in quanto ad essa è affidato tutto il peso del piano del giudizio,
vale a dire che è lo strumento retorico del quale lo scrittore si serve per
afferrare in un giudizio complessivo di condanna il protagonista e il mondo nel
quale è invischiato. L’ironia si insinua così in ogni azione di Zeno per
corrodere ogni certezza che il personaggio sembra raggiungere, divenendo
l’occhio critico che coglie l’incolmabile distanza e inconciliabilità tra
azioni umane e intenzioni, tra la volontà e la sua realizzazione mai fedele e
sempre distorta da impulsi incontrollabili perché inconsci. Svevo, dunque,
attraverso l’ironia deforma la realtà in caricatura per affermare l’impotenza
della volontà. Come lo stesso autore afferma nel Profilo autobiografico:”
Rasenta una caricatura, questa rappresentazione; e infatti il Cremieux lo
metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa tra le cose”. Ciò che
di comune hanno gli atteggiamenti di Svevo e di Pirandello è senz’altro una
lucida e spesso cinica osservazione del reale, che ne coglie le storture e le
contraddizioni, meno drammatica in Svevo in cui l’ironia stempera e
alleggerisce la pagina, più meditata, analitica e cupa in Pirandello, che non
nasconde ma evidenzia, la violenta antinomia che simboleggia l’uomo moderno.
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