Citazione

L'insegnamento non può fermarsi alle ore di lezioni in classe.

Compito del docente è quello di accompagnare gli allievi nella formazione della persona e ciò può essere possibile solo in un tempo dilatato, per un'educazione permanente (C.C.E., 2001).

Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

giovedì 28 maggio 2020

LA DISSOLUZIONE DELL'IO- L. PIRANDELLO -I. SVEVO


LA DISSOLUZIONE DELL'IO: LUIGI PIRANDELLO- I. SVEVO


L’autore che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la dissoluzione dell’io e con largo anticipo sugli altri è Luigi Pirandello (1867-1936).
Al centro della tematica pirandelliana è l’uomo, colto nel difficile esercizio del mestiere di vivere, con le sue ansie e le sue nevrosi, con le sue contraddizioni psicologiche e i suoi rovelli interiori, alla continua ricerca di un varco (o di un autoinganno, o di una finzione, o di un attimo di pazzia) che consenta l’uscita dalla sua “forma”, dal carcere del suo ruolo, dal limite del copione che è costretto a recitare, in mille variazioni e con l’unica ossessiva persistenza di una “coscienza infelice”. La presenza ossessiva dell’umano, inteso come terreno di scavo, di perenne interrogazione non è prerogativa di un’opera, è motivo trasversale che si attesta in tutta la produzione pirandelliana: non conosce la barriera dei generi e trasborda dalle novelle alle poesie, dalle sceneggiature cinematografiche ai romanzi, dai saggi ai libretti d’opera. “È come un vasto terreno da cui scorrono- afferma G. Macchia- continui canali di irrigazione”; questi canali sono gli apporti che giunsero a Pirandello non da un’adesione naturalistica ai “vissuti”, ma dalle letture filosofiche, da Binet a Bergson, da una cultura eterogenea in cui grandi movimenti di pensiero, dal Romanticismo all’irrazionalismo, hanno lasciato il loro segno, hanno seminato, sulla scorta di un pessimismo di fondo, non risposte, solo grumi concettuali, nodi attorno ai quali indagare. I personaggi stessi (da Paleari de Il fu Mattia Pascal a Laudesi di Così è (se vi pare)) sono i portavoce di questa ricerca dentro l’esistente: ad essi è affidato il compito sia di dare voce all’idee dell’autore, sia di portare avanti, fino agli esiti più paradossali, l’opera di incrinatura e di disgregazione della compatta superficie delle cose. Da un lato, allora, proprio perché i personaggi fanno parte dell’esistente, tracciano il primo filone tematico caro a Pirandello, quello che descrive, tassello dopo tassello, la situazione dell’uomo, i segni del vivere; dall’altro lato, dal momento che i personaggi sono esseri pensanti, portano avanti il secondo filone, quello della coscienza di questa condizione esistenziale. La condizione dell’uomo è tutta riassumibile nell’assurdità che sta alla radice del nascere: il venire alla luce significa il venir meno al caos, perdere l’infinita varietà delle possibili forme per fissarsi soltanto in una, che, se garantisce l’identità, parallelamente chiude, incasella, nasconde. Nascere, per Pirandello, significa cessare, è sinonimo di morire, morire perché implica la perdita del poter essere, delle infinite possibilità dell’esistere, per chiudersi in una realtà finita, particolare, distinta da tutte le altre, ma perciò stesso caduca. Nascere allora significa acquisire un corpo, un volto, una maschera: precludersi la vita del tutto per diventare monade inconoscibile e non- conoscente, incarnazione del relativismo dei sofisti. Il campione d’uomo assunto da Pirandello sembra il manifesto programmatico di tutto il controsenso della vita. In essa, infatti, la verità unica, assoluta, non esiste e, se anche ci fosse, l’uomo non potrebbe coglierla, perché lo strumento che ha a disposizione, la ragione, è troppo limitata per reggere a tale incarico; se anche l’uomo potesse comunque coglierla, non saprebbe comunicarla perché la verità sarebbe eccedente in rapporto alle parole che egli ha a disposizione. Il motivo della “verità in frantumi”, della sfaccettatura dell’unicum in schegge non più ricomponibili porta con sé tutta l’incertezza del soggettivismo che diviene l’etichetta, la titolazione di molte sue opere e a cui si ricollegano il motivo dell’angoscia, della nausea dell’uomo che scopre di avere le ali tarpate ( La carriola) intuendo che esiste un’altra dimensione, tanto gratificante quanto irraggiungibile, del vivere. Privo di un qualsiasi nucleo unificante, l’individuo ha un doppio volto, è un erma bifronte oscillante fra il pianto nascosto e il riso apparente, esternamente libero di operare delle scelte, in realtà internamente imbrigliato dal suo ruolo, dalla sua maschera, oltre la quale non può vivere. L’uomo di Pirandello, precipitato dal caos ad opera della fortuna, forza onnipresente che colpisce inaspettatamente, sotto forma di azzardo (altro tema-motivo costante in Pirandello), in questa forma di uomo, deve semplicemente adattarsi al calco, deve integrarsi ad esso in un perenne processo di standardizzazione: deve cioè aderire senza scarto al suo ruolo, a quanto gli altri hanno pre-formato e si attendono da lui (così ad esempio, il triste personaggio de La patente). Deve gettare a fondo, occultare fino a dimenticarsene, le pulsioni, i sogni, i desideri, il brulichio della vita vera. La società diviene, quindi, palcoscenico, spazio della finzione, somma senza interazione di tanti microcosmi slegati e ammaestrati. L’incomunicabilità non è un male sociale, non è solo un malessere storico, è la risultante dell’impossibilità di aggregarsi agli altri che l’uomo vive come un destino ineluttabile. Egli, inoltre, è impedito nel suo tentativo di costruire una recedi rapporti, non solo con l’ esterno ma addirittura con se stesso, chiuso nell’assurdità delle convenzioni che impongono il primato dell’apparenza sul reale. È emblematica la vicenda che dà vita a L’esclusa (1894), il primo romanzo di Pirandello: qui la società è infatti caratterizzata, pessimisticamente, nel suo intrico di pregiudizi e di luoghi comuni. Marta, la protagonista è un’onesta moglie cacciata, innocente, dal marito sotto l’accusa del tradimento e, in seguito, dopo molte peripezie, riabilitata e reintegrata nel suo ruolo familiare quando si è realmente macchiata della colpa di cui era stata accusata. La società, soprattutto quella meridionale ( così come è colta neI vecchi e i giovani o in tante novelle che hanno come sfondo l’ambiente siciliano), teatro di desolazione dove ciascuno, individualmente, consuma il proprio fallimento. In Pirandello, infatti, il motivo della sconfitta, lontano dall’aura di grandezza del superuomo dannunziano, “si afferma con piena consapevolezza al centro della sua opera”. Se i personaggi de I vecchi e i giovani sintetizzano la “ bancarotta del patriottismo”, e, nella stessa misura testimoniano la caduta verticale degli ideali risorgimentali, allo stesso tempo manifestano, nella constatazione dell’arretratezza sociale e culturale delle masse meridionali, il crollo della fiducia nelle teorie socialiste. “ nel romanzo si ha l’acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del risorgimento, come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e, in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e dell’ignoranza e dell’arretratezza delle masse. E insieme si ha la storia dei fallimenti individuali: dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano ad essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno, dei giovani che si sentono soffocare in una società ormai cristallizzata che non permette l’azione trasformatrice e, quindi, il libero esprimersi della personalità”. La sconfitta non è, però, nell’universo pirandelliano, il frutto di un’epoca, del ”rovinio…di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede”; non è scritta soltanto dalla storia dentro una particolare ideologia o dentro un particolare ambiente.
In particolare nei due romanzi Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità alterata, maniacale o schizoide, emblemi del caos dell’esistenza. Mattia Pascal è un caso di sdoppiamento della personalità, ha abbandonato un io per costruirsene artificialmente un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra il suo io passato e quello presente, senza poter essere né l’uno né l’altro. Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, scopre l’inconsistenza del proprio io, il suo essere un flusso di percezioni mutevoli, un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento. In altre parole il soggetto si frantuma in una miriade di sensazione, si sfarina nelle cose che riflette, in un libro, in un albero, in una nuvola.
ITALO SVEVO
Svevo, così come Pirandello, si orientò verso una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e dell’aridità dell’individuo che avverte con disperazione la propria incapacità alla vita e riflette la generale tragedia di tutta la società. Anche per Svevo, infatti,l’interesse per l’uomo non si risolve in uno studio dei rapporti tra l’individuo e l’ambiente ma si accentra in un’indagine degli impulsi più segreti e oscuri dell’animo.
Tutti e tre i grandi romanzi di Svevo rappresentano in primo piano l’abulia e l’inettitudine, che congiurano a creare atmosfere stanche e malsane. I suoi personaggi rappresentano situazioni umane caratterizzate da un’incertezza spirituale, da una sostanziale inutilità di esistenze e di destini. La vicenda di ciascuno si rivela fatta di mancanze che sollecitano una vana alacrità psicologica, carica di tensioni e povere di scopi, eccitata di sogni, di ambizioni, ma squallidamente incatenata a un ruolo di inoperosa inconcludenza. Svevo sviluppa nelle sue opere il tema dell’inettitudine, della incapacità di vivere che è forse il vero tema di fondo dalla letteratura novecentesca.
Nel romanzo Una vita, il cui titolo originario era Un inetto, Alfonso è il fratello carnale dei protagonisti degli altri due romanzi: è abulico come Brentani e Zeno. Alfonso Nitti è un piccolo impiegato che viene a contatto con la società dominata dall’interesse e dal denaro con cui finisce con l’esserne travolto. Ciononostante, anche come eroe negativo, come inetto proiettato nella grande lotta per la vita, egli dovrà conoscere il potere delle illusioni nell’esperienza che viene compiendo. Nel ritratto di questo personaggio l’autore concentra l’alternativa sogno-realtà, la crisi della volontà e della coscienza di fronte alla brutalità delle scelte imposte dalla vita.
Il vero tema del romanzo è il meccanismo della psicologia di Alfonso, l’incastro perfido e inesorabile delle sue scelte di destino, la contraddittoria catena delle sue illusioni e dei suoi errori, che lo porteranno al suicidio. Egli è un inetto come suonava più propriamente il titolo originario. Egli è un intellettuale e soprattutto un megalomane impedito da un suo rapporto sbagliato con la vita. Il suo vero regno è il sogno, la fantasticheria, l’irrealismo che gli procura una provvisoria sicurezza e addirittura la felicità. La svolta del romanzo è costituita quando nasce la simpatia tra Anna e Alfonso, nonostante la distanza tra le rispettive posizioni sociali. Il successo in amore di Alfonso è paradossalmente il fatto che scatena il suo fallimento morale che lo porterà alla tragedia. L’inetto non è in grado di vivere il proprio successo, perché questo significherebbe la preclusione del sogno, la sostituzione della realtà alla grande fantasia di cui la sua vita ha bisogno. Col pretesto di visitare la madre ammalata si allontana dalla fidanzata, ma il processo di autodistruzione continua. Tornato, vistosi circondato dal disprezzo e dalla indifferenza di tutti sceglie il suicidio. Molto diverso da Alfonso è il protagonista del secondo romanzo Senilità, Emilio Brentani, la cui passione per Angiolina, una popolana esuberante ed infedele, è contrassegnata da una tormentosa gelosia. Il rapporto del protagonista con la vita è sempre quello della malattia, della fondamentale sfasatura che lo rende inetto ad inserirsi nel ritmo normale dell’esistenza. Egli è l’uomo della crisi: disperso in mezzo ala sua solitudine egli anela la verità della vita e non ne incontra che gli adescamenti. Se Alfonso è la vittima della propria astratta intelligenza, Emilio è pronto a sottomettersi ai ricatti della vita, ma neanche questa basata a salvarlo. L’uomo è smarrito nel labirinto e non può che registrare il suo penoso disorientamento per primo nel grande romanzo del 900. Lo Svevo individua esattamente il momento in cui l’uomo, abbandonata ogni metafisica, scoperti i territori laici della conoscenza, avverte che il crollo delle antiche fedi e della vecchia società lo lascia alla mercè di forze incontrollabili che sorgono dal profondo del suo stesso essere, e che ha oil deserto intorno a sé. Nel suo capolavoro, La coscienza di Zeno, l’autore riprende il tema della malattia. La malattia consiste nel vedere la realtà ridotta  a frammenti e a vedere come è irrimediabile la scissione della propria coscienza. Anche Zeno è un inetto, ma è presentato dallo scrittore in maniera completamente diversa:; come Alfonso soffre delle stesse complicazioni nel suo rapporto con la realtà, di entrambi si può dire che le loro velleità sono sempre in anticipo, le loro decisioni sempre in ritardo. La differenza sta in questo: che per Zeno Cosini tutto  il mondo è complice in suo favore, la vita gli aggiusta gli errori e li trasforma miracolosamente in successi. L’alienazione, la solitudine, che per Alfonso era un problema personale, nella Coscienza è una regola di vita, in realtà egli è l’inetto di sempre e il pessimismo dello scrittore si riflette in lui, è gaio, scanzonato, ironico, gli vanno tutte bene. In realtà è l’inetto di sempre, non è uno che è guarito, ma uno che ha accettato la sua malattia e si è reso conto che essa coincide con la sua originalità esistenziale. In tal modo si è messo nelle condizioni di poter convivere con i normali, e anzi godere dei vantaggi che la conoscenza analitica di sé e degli altri gli procura. Il romanzo di Svevo esprime la crisi europea del primo 900: egli è l’unico narratore italiano che abbia effettivamente interpretato la grande crisi europea del primo 900, non mascherandola nell’artificio stilistico la propria possibilità sociale, ma anzi riconducendola ai termini spogli dell’autobiografia, al diario dei giorni senza speranza che precedettero o seguirono immediatamente la prima guerra mondiale. Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno sono i tre romanzi in cui Svevo raccolse il suo problema, quello dell’uomo che non sa e non può inserirsi nella società a cui appartiene. L’uomo, per Svevo, è portato necessariamente ad esaminare la propria funzione sociale ed è distrutto dalla propria inquieta problematica che è indice di una crisi non più soggettiva ma universale.
SVEVO/PIRANDELLO
L’accostamento di Svevo a Pirandello è d‘obbligo, anche se nella vita non c’è mai stato nessun sodalizio, hanno tuttavia seguito un itinerario artistico che per molti aspetti li ha uniti: la comune formazione nell’area veristico - naturalistica, gli studi in Germania e l’acquisizione di una cultura filosofica tendente al relativismo e al problematicismo, il ruolo di testimoni della coscienza smarrita dell’uomo moderno, la fama dopo la guerra mondiale.
La consapevolezza della crisi dei valori che erano stati propri della società borghese ottocentesca, dall’età romantica a quella positivistica, divenne totale in Italo Svevo e Luigi Pirandello.
Entrambi affrontarono la desolata condizione dell’uomo contemporaneo che viveva in un’angosciosa prigione di apparenze.
Si distaccano per le diverse reazioni che hanno i loro personaggi davanti ad un identico stato di crisi sociale ed esistenziale.
Partono entrambi dal labirinto della coscienza, però, mentre Svevo scava con ironia nella psicologia del profondo del personaggio, facendone emergere l’inettitudine in Alfonso e in Emilio un atteggiamento più sornione in Zeno, in Pirandello avviene attraverso la riflessione umoristica.
Con la loro attività letteraria entrambi compirono una spietata esplorazione della condizione dell’uomo del nostro tempo, del suo smarrimento, della sua disperata solitudine.
Sia Svevo che Pirandello possiedono un luogo nella loro produzione destinato alla riflessione critica sui rispettivi strumenti di scrittura: questo è il Profilo autobiografico (1927) per Svevo e il saggio L’Umorismo (1908) per Pirandello.
Se il carattere del Profilo sveviano è non solo quello di un’opera di teoria letteraria, ma anche quello, come suggerisce il titolo stesso, di una vera e propria autobiografia in terza persona, per Pirandello si tratta invece di una riflessione critica su una componente essenziale della sua produzione, soprattutto letteraria oltre che teatrale, appunto l’umorismo.
Innanzitutto sarà utile indicare la sostanziale differenza che vi è tra ironia e umorismo: l’ironia è un particolare modo di esprimersi che conferisce alle parole un significato contrario o diverso da quello letterale, spesso con intento derisorio, mentre l’umorismo è una vera e propria attitudine a vedere la realtà sotto aspetti bizzarri o singolari che, suscitando il riso, consentono una visione più ampia e complessiva della realtà stessa. Vale a dire che l’ironia è una figura retorica volta a deformare il senso primo e più diretto di una parola o di un’espressione, è una tecnica espressiva capillare di chi scrive che, accostando immagini tra loro diverse o inconsuete, suscita il sorriso del lettore, mentre l’umorismo è un atteggiamento, un modo di osservare la realtà riportato sulla pagina stessa in cui la presenza dello scrittore rimane più in ombra e l’attenzione è indirizzata più al fatto descritto o alla situazione osservata.
Nel suo saggio Pirandello analizza con grande lucidità critica il significato dell’umorismo nelle sue opere attraverso la differenza tra “avvertimento” del contrario (comico) e “sentimento” del contrario (umoristico). A differenza dell’arte in generale, secondo Pirandello, le creazioni tipiche dell’umorismo nascono da una “scomposizione” della realtà che ne mette a nudo gli elementi contraddittori, di disordine e di imprevisto, il contrario di ciò che generalmente ci aspettiamo di vedere. In Pirandello l’umorismo nasce da un’attività della riflessione e dell’analisi della ricerca di contrasti e contraddizioni che portano a una visione drammatica della realtà, al di là del dato superficialmente comico, in una assoluta e inestricabile ambivalenza tra riso e pianto.
Per Svevo l’ironia ha invece una funzione essenziale, soprattutto nella Coscienza di Zeno, in quanto ad essa è affidato tutto il peso del piano del giudizio, vale a dire che è lo strumento retorico del quale lo scrittore si serve per afferrare in un giudizio complessivo di condanna il protagonista e il mondo nel quale è invischiato. L’ironia si insinua così in ogni azione di Zeno per corrodere ogni certezza che il personaggio sembra raggiungere, divenendo l’occhio critico che coglie l’incolmabile distanza e inconciliabilità tra azioni umane e intenzioni, tra la volontà e la sua realizzazione mai fedele e sempre distorta da impulsi incontrollabili perché inconsci. Svevo, dunque, attraverso l’ironia deforma la realtà in caricatura per affermare l’impotenza della volontà. Come lo stesso autore afferma nel Profilo autobiografico:” Rasenta una caricatura, questa rappresentazione; e infatti il Cremieux lo metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa tra le cose”. Ciò che di comune hanno gli atteggiamenti di Svevo e di Pirandello è senz’altro una lucida e spesso cinica osservazione del reale, che ne coglie le storture e le contraddizioni, meno drammatica in Svevo in cui l’ironia stempera e alleggerisce la pagina, più meditata, analitica e cupa in Pirandello, che non nasconde ma evidenzia, la violenta antinomia che simboleggia l’uomo moderno.

Nessun commento:

Posta un commento