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L'insegnamento non può fermarsi alle ore di lezioni in classe.

Compito del docente è quello di accompagnare gli allievi nella formazione della persona e ciò può essere possibile solo in un tempo dilatato, per un'educazione permanente (C.C.E., 2001).

Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

mercoledì 27 maggio 2020

IL GELSOMINO NOTTURNO


Giovanni Pascoli Canti di Castelvecchio – Canti di Castelvecchio
 

IL GELSOMINO NOTTURNO


E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

5 Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
10 l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
15 La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
20 brilla al primo piano: s’è spento...

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.


La poesia fu composta in occasione delle nozze dell’amico Gabriele Briganti (luglio 1901), secondo la testimonianza del poeta:”E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fior che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del Gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce ( secondo l’intenzione sua), al nome di un dio e di un angelo, quello di un povero uomo: voglio dire, gli nacque il suo Dante Gabriele Giovanni”. Il Pascoli, a conferma del carattere velatamente sensuale della lirica, raccomandava tra l’altro all’amico di non leggerla subito alla sposina, ma “domani, se mai”.

La lirica si struttura su due piani: uno, apparente, fenomenico, che è la descrizione impressionistica del mistero della notte; l’altro, profondo e in parte inconscio, che è la fantasticheria dell’unione sessuale. Sappiamo, dall’analisi di Barberi Squarotti, che la simbologia floreale può avere nel Pascoli una particolare valenza erotica. Qui il significante principale, il “gelsomino notturno” o “bella di notte”, copre contemporaneamente un significato referenziale-denotativo e uno fortemente connotato da affascinanti richiami sessuali. Intanto l’azione dell’aprirsi e del chiudersi allude all’accoppiamento, visto però a partire dall’organo femminile è sofferto quasi come una violenza: una deflorazione, appunto:

E s’aprono i fiori notturni



E’ l’alba: si chiudono i petali

un poco sgualciti…


Parallelamente abbiamo altre immagini-transfert:

Dai calici aperti si esala

L’odore di fragole rosse



Per tutta la notte s’esala

L’odore che passa col vento.


Dove sia l’odore sia l’impressività coloristica veicolano indirettamente dei richiami sessuali.

Ma è soprattutto l’immagine finale che ci permette di recuperare utilmente il discorso psicanalitico:

…si cova,

dentro l’urna molle e segreta,

non so che felicità nuova.


Che cos’è l’urna molle e segreta? Naturalmente non si sbaglia se si risponde, vocabolario alla mano, che è l’ovario, una parte del pistillo. Ma la metafora ha indubbiamente sprofondato un significato rimosso, qualcosa di chiuso, di visceralmente molle e caldo: il ventre della donna o meglio l’utero, dove avviene il miracolo attraente-repulsivo del concepimento.
In questo senso, l’urna-ventre-utero è anche una sineddoche, una parte fascinosa e orrorosa per il tutto, il corpo femminile, sottoposto alla deflorazione. L’inconscio si è rivelato grazie alla doppia mascheratura metaforica-metonimica: riemerge, insomma, il bisogno o la mancanza dell’io rispetto all’oggetto del desiderio (la donna, metafora del fiore), che viene inserito nel significante parziale metonimico: l’urna-ventre-utero. Non è necessario aggiungere che si tratta di un desiderio represso, che ritorna nella struttura formale del simbolo.
La proibizione è dovuta al Super-io funereo dei “cari”, alla Legge dei morti che impone l’autocastrazione nella continenza forzata fuori del matrimonio o del rapporto sessuale), insomma, l’etica inibente del “nido”. La presenza memoriale dei morti costringe il soggetto a un lavorio morboso di fantasia, ad un’immaginazione visionaria eccitata: in buona sostanza, a una sublimazione sostitutiva. È la presenza dei morti, tanto più intensa quanto più lievemente sfumata, a costringere il poeta alla parte di chi contempla, non senza un turbamento quasi morboso, l’attuarsi del rapporto d’amore negli altri, dal di fuori, con un’attrazione accesa che è continuamente corrosa dall’insistenza acuta e amara delle immagini funebri. “l’ora che penso ai miei cari”, cioè l’allusione ai morti ritorna in un fitto contrappunto con le immagini della contemplazione eccitata del possesso amoroso in altri:”le farfalle crepuscolari”, “le fosse”, intrecciate allo scatto improvviso e sensualissimo delle “fragole rosse”, del “nido sotto l’ali”, poi “le celle”, i “calici aperti”, “il lume su per la scala”, con un’accentuazione di cronaca che sottolinea l’attenzione eccitata del voyeur di fronte al compiersi dell’unione sessuale; e già prima i richiami dell’attenzione sui dati dell’evento che sta per compiersi erano stati continui, quale terzo elemento unito alla simbologia vagamente e poeticizzatamente sessuale e il momento dei morti:” là sola una casa bisbiglia”; “splende un lume là nella casa” ( e si noti ancora la ripetizione degli avverbi di luogo ad esprimere l’orgasmo e il turbamento dell’attenzione a ciò che avviene nella casa).Nella struttura dell’enunciato, nella “storia”, l’Io ci appare infatti spazialmente esterno all’evento che si compie nella casa: letteralmente, è “fuori”, al buio, in attitudine voyeuristica; e’ “l’ape tardiva” che è rimasta esclusa dall’alveare e si aggira nella sua desolata solitudine o, se si vuole, nell’esemplare triangolo della scena primaria, l’Io è escluso e regredito ad uno stadio infantile di lacerata, morbosa curiosità:

là sola una casa bisbiglia.

La solitudine della casa, quel bisbiglio misterioso nel silenzio della notte ricoprono la fantasticheria dell’approccio amoroso dei due sposi: tutto è visto e presentito con penoso distacco. La contemplazione del rito avviene da parte di chi ne è escluso. Il punto di osservazione infatti si colloca all’esterno della casa dove avviene il rapporto amoroso, una distanza incolmabile separa l’osservatore dall’oggetto, come indica la ripetizione insistita dell’avverbio di luogo “là”: “là sola una casa bisbiglia”,”splende un lume là nella sala”. Il rito può essere costruito solo nell’immaginazione, un’immaginazione turbata da un’ansia, da un eccitamento astratto e febbrile.
La pericolosa tentazione di apertura al “mondo”, cioè l’esperienza sessuale e la costruzione di un proprio “nido”, deve essere esorcizzata dal richiamo della censura interiore, del Super-io funereo. Ed ecco che il Pascoli dissemina il percorso erotico di simboli negativi, che alludono alla morte e all’esclusione vittimistica: le “farfalle crepuscolari”(v.4);l’”erba sopra le fosse”(v.12);l’”ape tardiva”che “sussurra/trovando già prese le celle”(vv.13-14): parabola, quest’ultima, nient’affatto descrittiva, ma emblematica della condizione estraniata (e masochistica) di chi arriva tardi all’appuntamento con la felicità.
Mentre lo sguardo segue con eccitazione tutta immaginativa i preparativi dell’unione sessuale, dietro quel lume che si spegne nello spazio segreto della camera.

Splende un lume là nella sala.



Passa il lume su per la scala;

brilla al primo piano: s’è spento...


la compensazione del Pascoli “buono” e rassegnato si rifugia in alcune metonimie rassicuranti, non ossessive, quelle che i suoi morti gli impongono, come esempi di pace e naturalezza non peccaminosa: la chiusa intimità dei nidi degli uccelli:

Sotto l’ali dormono i nidi,

come gli occhi sotto le ciglia.


E’ il sonno della semplicità, antitetico al voglioso fervore della casa : la chiusura, la copertura, la protezione, il non vedere sono i valori naturali evocati per esorcizzare quella “non so che felicità nuova”così morbosamente allettante, e che sembra per un attimo infrangere le barriere della censura.
Poi un’altra immagine familiare, agreste, “la Chioccetta” lassù nel cielo, lontana dallo spazio chiuso della casa dell’amore, verso cui è attratto lo sguardo febbrile:

La Chioccetta per l’aia azzurra

va col suo pigolìo di stelle.


Una pausa di contemplazione della natura nel silenzio profondo della notte? Il gioco metaforico-sinestetico riduce però quel cielo alla domestica aia, con la chioccia e il codazzo dei pulcini pigolanti:un idillico quadretto del tutto rassicurante, nella propensione evasiva del buen retiro fra la pace della campagna, lontano dalle cose del mondo, piene di fascino ambiguo, ma inesorabilmente vietate.
La coscienza del poeta è al centro di una serie di tensioni laceranti:estraniata e regredita rispetto all’esperienza mondana della casa e del rapporto sessuale; dominata dal Super-io funereo, che ha il duplice compito di elargire rassicurazioni naturali e di imporre proibizioni istintuali. La fantasticheria, il sogno ad occhi aperti sono una sorta di compensazione immaginaria permessa anche se in qualche modo negativa, mentre l’unione sessuale è proibita: donde il ritorno del represso nella metafora-metonimia del fiore-urna-ventre-utero.
Quello di Pascoli non è un inno gioioso alla fecondità, quale si poteva trovare nelle poesie per nozze del mondo classico, gli epitalami; è un epitalamio moderno, quale può scrivere un poeta dalla coscienza turbata, inquieta, infelice. La conferma viene anche dall’immagine conclusiva dell’”urna molle e segreta”, in cui si “cova” il frutto della fecondazione: gli aggettivi rivelano un misto di attrazione e repulsione per il corpo femminile. Il concepimento è visto non in modo sereno, ma con una sorta di eccitazione morbosa. “C’è nella conclusione il senso del possesso amoroso come violenza, entro la simbologia floreale tipica per la donna, del Pascoli, ma con quel tanto di morboso, di eccitato, che è nella figurazione pascoliana per l’immagine, che vi è legata, della fragilità femminile sottoposta all’offesa, alla violazione:” Si chiudono i petali/ un poco sgualciti”.(G. Barberi Squarotti).
Il vagheggiamento del rito amoroso è trepidante ma anche turbato: Pascoli non può concepire il sesso che come violenza inferta alla carne.
La violenza, che per il Pascoli caratterizza il mondo, si estende anche al rapporto fra i sessi, raffigurato, nella trasposizione floreale o in altre immagini analoghe, come schianto e sfibramento che corrompe, deturpa e aliena. Si legga nel Chiù (Nuovi Poemetti) l’eccitato sogno ad occhi aperti di Viola, la fanciulla rimasta nel protettivo nido familiare dove rivive, con un misto di attrazione e di orrore, il rapporto coniugale della sorella Rosa col marito Rigo: “Splendea lassù la gran luce di Sirio./ Recava odor di fiori pésti il vento./ Ell’era andata a chi sa qual martirio!/ Ora dov’era? A lume acceso o spento/ Buon che le mise al collo, nell’aspetto,/ quella sua croce piccola d’argento!/ Ella doveva ora vegliar nel letto/sola con lui! senza sperare aiuto!/ Viola i panni si stringea sul petto./ Che cosa avrebbe egli da lei voluto?/ Qual piaga dare tenera e mortale/ a quelle carni bianche, di velluto?/ Qual pianto fa di quel ch’è ora, e quale/ rimpianto mai di quel ch’ un giorno fu!…/ Col mesto verso eternamente uguale/ le rispondeva di lontano il chiù”. Il rapporto possessivo e violento che caratterizza, per la psiche pascoliana, il sesso, emerge per traslato persino dall’apparentemente innocua aratura: “ch’io pur ti sono florido marito,/ o bruna terra, ubbidiente, che ami/ chi ti piagò col vomere brunito…” (La siepe, Poemi, poemetti).
Nel Sogno della vergine ( Canti di Castelvecchio) la labile allucinazione di una maternità per partenogenesi rivela l’orrore del rapporto fisico:”Le gracili membra non sanno / lo schianto, non sanno l’amplesso; / nel cuore, sì, forse un affanno / c’è, l’ombra di un palpito, l’orma / di un grido: il respiro sommesso / d’un vago ricordo che dorma; / che dorma nel cuore ed esali/ nel cuore il suo sonno romito. / La vergine sogna:ecco un alito / piccolo, accanto…un vagito…”.
Il pendant di questa fantasticheria autoerotica è sempre nei Canti, Addio! “Oh! se, se rondini rondini anch’io…/io li avessi quattro rondinotti/dentro questo nido di sassi”,
Ma è soprattutto nell’Etera (Poemi conviviali) che si può cogliere il peculiare carattere onirico assunto dall’immagine liberty della donna-fiore. Myrrhine, “la molto cara”, dorme alfine sola nella pace della morte; ma il suo spirito irrequieto vola, “ con lo stridio di una falena”, verso le belle membra: “vagava in cerca / del suo corpo amato per vederlo ancora, / bianco, perfetto, il suo bel fior di carne, / fiore che apriva tutta la corolla / tutta la notte, e si chiudea su l’alba / avido e aspro, senza più profumo. / Or la falena stridula cercava / quel morto fiore, e battè l’ali al lume / della lucerna, che sapea gli amori; / ma il corpo amato ella non vide, chiuso, / coi molti arcani balsami, né l’arca”.
Si noti come la mirabile ambivalenza delle immagini del Gelsomino notturno si espliciti qui nel turbamento morboso con cui si raffigura il corpo della donna e diciamo pure il suo sesso, che si apre e si chiude nella veglia amorosa, appassendo e perdendo il profumo. L’alone funereo che circonda queste immagini attraenti e repulsive è del tutto conforme all’esorcizzazione dell’eros come violenza e tradimento del candore protettivo del nido, sorvegliato dai morti. E, in effetti, la parte più sconvolgente della poesia- nella prospettiva necrofila che la domina tutta, fin dall’inizio, quando l’amante contempla il corpo senza vita di Mirrhyne, ancora pieno di desiderio- sta nell’incontro dell’etera con i “suoi figli non nati”:”E intese là bisbigli,/ma così tenui, come di pulcini/gementi nella cavità dell’uovo./Era un bisbiglio, quale già l’etera/s’era ascoltata, con orror, dal fianco/venir su pio, sommessamente…quando/avea, di là, quel suo bel fior di carne,/senza una piega i petali. Ma ora/trasse al sussurro, Mirrhyne, l’etera./Cauta pestava l’erbe alte del prato/l’anima ignuda, e riguardava in terra,/tra gli infecondi caprifichi, e vide./Vide lì, tra gli asfodeli e i narcissi,/starsene, informi tra la vita e il nulla,/ombre ancor più dell’ombra esili, i figli/suoi, che non volle. E nelle mani esangui/aveano i fiori delle ree cicute,/avean dell’empia segala le spighe,/per lor trastullo. E tra morte ancora/erano e il nulla, presso il limitare./ E venne a loro Mirrhyne; e gli infanti/lattei, rugosi, lei vedendo, un grido/diedero, smorto e gracile, e gettando/i tristi fiori, corsero coi guizzi,/via, delle gamba e delle lunghe braccia,/pendule e flosce; come nella strada/molle di pioggia, al risonar d’un passo,/fuggono ranchi ranchi i piccolini/di qualche bodda: tali i figli morti/avanti ancor di nascere, i cacciati/prima d’uscire a domandar pietà!”
Nell’ideologia del nido non è ammissibile dunque l’amore, che sarebbe un tradimento ai morti. E come un vero e proprio tradimento, con infantili manifestazioni di gelosia, sentì il Pascoli il matrimonio di Ida, che veniva a incrinare quel suo per molti aspetti morboso amore di fratello, padre e marito virginale.

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