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giovedì 11 giugno 2015

LA LIRICA AMOROSA

Il canone lirico nel XIII-XIV sec.


La produzione poetica di argomento amoroso e di stile elevato è la più importante nella letteratura volgare del Due-Trecento ed è l'unica in cui sia possibile individuare con precisione scuole e movimenti definiti, che contribuirono a fissare un "canone" di testi e caratteri del genere che avrebbe influenzato grandemente anche gli scrittori dell'epoca successiva: questo filone viene detto di "poesia lirica" sul modello della lirica greca e latina, ovvero i testi di argomento per lo più amoroso destinati all'accompagnamento musicale con la lira o altri strumenti, anche se i modelli dei poeti volgari italiani furono piuttosto i trovatori provenzali i cui testi ebbero grande diffusione nell'Italia del Duecento. L'importanza di questo filone si deve anzitutto al carattere aristocratico dei componimenti che riflettevano, in molti casi, modi di vita e mentalità "cortesi", esprimendosi in uno stile "tragico" che si contrapponeva a quello "comico" della poesia più popolare e rispetto alla quale i lirici rivendicavano con orgoglio una netta superiorità; i centri di diffusione furono molti, dalla Sicilia di Federico II di Svevia alla Toscana, passando per Bologna (dove fu attivo Guinizelli) sino a Firenze dove si sviluppò lo Stilnovo e dove si fissò il canone in maniera pressoché definitiva, ponendo le basi per la successiva produzione lirica in volgare del Trecento in cui spiccherà soprattutto l'opera di Petrarca. Gli ambienti sociali furono dunque assai vari, poiché accanto a quello aristocratico e curiale dei Siciliani (comunque differente dal mondo feudale dei trovatori) vi è quello borghese e cittadino dei Comuni toscani, in cui insieme all'amore trova spazio anche il tema politico. A differenza della poesia occitanica, inoltre, quella italiana non era quasi mai destinata all'accompagnamento musicale e il volgare che finì per imporsi fu quello fiorentino, grazie al contributo decisivo di Dante e Cavalcanti tra XIII-XIV sec. e poi di Petrarca nel Trecento, creando le premesse per le discussioni sulla lingua che animeranno i trattati degli scrittori del Cinquecento.

I trovatori italiani del XIII secolo


ImmagineSordello da Goito (min. XIII sec.) Le prime esperienze poetiche "cortesi" in Italia nel XIII sec. non furono tuttavia in volgare italiano, bensì in lingua occitanica alla maniera dei trovatori  e protagonisti ne furono alcuni poeti (detti "trovatori italiani") attivi soprattutto nell'Italia settentrionale, tra cui le figure più interessanti furono il genovese Lanfranco Cigala, il bolognese Rambertino Buvalelli, il veneziano Bartolomeo Zorzi e soprattutto il mantovano Sordello da Goito (1200 ca.-1269), che deve la sua fama al Purgatorio dantesco in cui è protagonista dei canti VI-VIII. Questi rimatori non furono molto originali e imitarono per lo più la lingua e lo stile dei poeti occitanici le cui opere erano maggiormente circolate in Italia nel primo Duecento, operando in un ambiente sociale simile a quello della Provenza (le corti dei principali signori del Nord Italia). Tra essi Sordello merita una citazione particolare, non solo per l'interesse mostrato da Dante nei suoi confronti (lo cita anche in DVE, I, 15.2 dove lo definisce "uomo di alta eloquenza") ma anche per la sua vita turbolenta e avventurosa in cui ebbe parte l'amore per Cunizza da Romano che addirittura rapì, fatto che già all'epoca gli diede grande notorietà. Fu anche in Provenza alla corte di Raimondo Berengario IV e seguì i baroni angioini in Italia nel 1265-66, forse partecipando alla battaglia di Benevento e acquisendo in seguito una posizione di rilievo nel regno angioino, anche se morì povero nel 1269. Di lui ci sono giunte una quarantina di liriche di argomento vario, tutte scritte in lingua d'oc, in cui spazia dalla celebrazione dell'amor cortese ai temi politici e che ebbero una notevole diffusione nella prima metà del Duecento, come testimonia il fatto che Dante le conobbe e ne trasse ispirazione per alcune sue poesie giovanili. Tra le sue opere è molto interessante un planh (compianto funebre, alla maniera occitanica) per la morte di ser Blacatz, nobile cavaliere che fu suo protettore alla corte di Berengario in Provenza, del cui cuore i sovrani del tempo sono invitati metaforicamente a cibarsi per acquistarne il valore (Dante ne ha forse tratto spunto per attribuire a Sordello in Purg., VII la rassegna dei principi negligenti della valletta).

La scuola siciliana


ImmagineFederico II di Svevia (XIII sec.)
Se l'esperienza dei trovatori italiani rimase per lo più un fatto isolato nella nostra letteratura e l'uso della lingua d'oc venne gradualmente abbandonato, l'influsso della poesia trobadorica rimase invece molto grande e si concretizzò in alcune "scuole" di poesia lirica che utilizzarono il volgare italiano, tra cui la prima fu la cosiddetta scuola siciliana: si formò negli anni 1230-1250 alla corte dell'imperatore Federico II di Svevia e fu una cerchia di poeti e intellettuali coscienti di produrre lo stesso tipo di testi, ricevendo grande impulso dallo stesso sovrano che amava circondarsi di scrittori e pensatori alla sua Magna Curia (come venne chiamata la sua corte "mobile", che si spostava di città in città in Sicilia) e il cui prestigio era accresciuto dalla presenza di poeti che si esprimevano in volgare, con uno stile alto e ricercato. I poeti siciliani si ispiravano ovviamente alla poesia trobadorica in lingua d'oc, da cui riprendevano le forme metriche (canzone, ballata, sirventese, cui si aggiunse il sonetto di loro creazione) e i temi fondamentali, anche se nei loro componimenti non trovava spazio la politica e si dedicavano esclusivamente all'amore, probabilmente per ragioni di opportunità data la loro dipendenza dall'imperatore. La scuola si sviluppò soprattutto negli anni di Federico II e si esaurì dopo la sua morte nel 1250, mentre tra gli esponenti più importanti vi furono l'imperatore stesso e i suoi figli (Enzo e Manfredi), oltre a numerosi funzionari della corte imperiale di estrazione nobiliare o borghese, molti dei quali notai o giudici: tra essi il caposcuola riconosciuto fu Giacomo da Lentini, detto il "Notaro" per la sua professione e a cui venne attribuita l'invenzione del sonetto (la forma metrica poi ampiamente diffusa nella poesia italiana anche comica), mentre altri poeti furono Rinaldo d'Aquino, Guido delle Colonne, Pier della Vigna (protagonista del canto XIII dell'Inferno dantesco; Stefano Protonotaro, Giacomino Pugliese. La lingua usata fu il volgare siciliano, anche se i loro testi ci sono giunti attraverso la trasmissione manoscritta dei copisti toscani del Duecento, che ne corressero in parte la lingua rendendola più simile al toscano (si parla di "toscanizzazione"): questo produsse alcuni effetti distorsivi tra cui quello famoso della "rima siciliana" (si veda oltre), ma contribuì soprattutto a rendere il volgare siciliano meno regionale e più simile a una lingua pura e letteraria, tanto che Dante nel De vulgari eloquentia lo elogia come molto vicino al suo ideale di "volgare illustre" e stabilisce una linea evolutiva della lirica volgare che parte dai Provenzali e giunge, attraverso i Siciliani, fino agli esponenti dello Stilnovo (DVE, I, 12). L'unico testo siciliano che ci sia giunto nella forma originale è la canzone Pir meu cori alligrari, di Stefano Protonotaro.
I siciliani come detto trassero ispirazione dai trovatori provenzali, tuttavia trasferirono la loro esperienza poetica in un diverso ambiente sociale quale era la corte di un sovrano (Federico II) aperto e tollerante, centro di un regno laico e "secolare": la corte dell'imperatore era dunque un luogo molto lontano dal castello dove operava il trovatore occitanico e diversa era la provenienza sociale dei poeti siciliani, non cavalieri-poeti al servizio di un signore feudale e legati da amore cortese per la propria signora, ma piuttosto funzionari laici del sovrano e uomini di legge, con una mentalità per molti versi più aperta e moderna. Ne consegue che le loro poesie non esprimono tanto esperienze amorose personali, ma tendono a presentare una varia "casistica" degli effetti dell'amore sull'uomo e spesso producono discussioni alquanto teoriche sulla natura del sentimento amoroso, se ad esempio nasca sempre dalla vista della persona amata oppure no, se sia da preferire l'amore sensuale o quello spirituale, a volte dando luogo a delle "tenzoni" tra poeti alla maniera dei trovatori. Nonostante gli esiti non sempre elevati della loro poesia, i Siciliani contribuirono alla fissazione di un "canone" e influenzarono notevolmente i poeti toscani della generazione successiva, specie gli Stilnovisti che riconobbero in loro e nei provenzali i modelli principali cui ispirarsi per scrivere le loro liriche amorose. Tra i testi più interessanti della scuola siciliana ricordiamo una canzonetta di Giacomo da Lentini sull'innamorato timido che non osa esprimere il proprio sentimento all'amata , una tenzone tra lo stesso autore e Pier della Vigna sull'origine del sentimento amoroso, oltre alla canzone già citata di Stefano Protonotaro.

La poesia lirica in Toscana: Bonagiunta e Guittone


Le poesie della scuola siciliana ebbero grande diffusione nell'Italia centrale e soprattutto in Toscana, dove (come già detto) esse circolarono grazie all'opera di copisti che ne trascrissero il testo "toscanizzandolo" ed eliminando gli aspetti linguistici più marcatamente regionali, col risultato che la versione originale di quelle liriche andò perduta. I poeti toscani conobbero dunque i testi siciliani nella forma "toscanizzata" e pensarono erroneamente che la lingua fosse assai più simile alla loro di quanto non fosse in realtà, creando anche alcuni equivoci come quello della cosiddetta "rima siciliana": nelle poesie originali di Giacomo da Lentini e degli altri poeti della scuola le rime erano perfette, ma a causa della correzione dei copisti molte divennero semplici assonanze, poiché ad esempio la parola amuruso veniva corretta in "amoroso" pur essendo in rima con "uso", oppure vide diventava "vede" e doveva rimare con "ride", facendo credere che ciò fosse un artificio stilistico voluto dagli autori dei testi. Paradossalmente, quando i poeti toscani iniziarono ad imitare la lingua e lo stile dei Siciliani, inserirono nelle loro liriche anche molte rime di questo tipo e l'equivoco venne svelato solo in epoca relativamente recente, per cui le "rime siciliane" sono presenti in Dante Alighieri e in alcune liriche di Petrarca, non scomparendo del tutto neppure alle soglie dell'età moderna.
Le poesie dei Siciliani vennero dunque prese a modello da più di un rimatore dell'area toscana e qui nacque una corrente lirica (detta anche "siculo-toscana") che non fu una vera e propria scuola né ebbe un unico centro propulsore, dato che gli esponenti di rilievo provennero da città molto diverse: i più importanti furono Bonagiunta Orbicciani da Lucca e Guittone del Viva d'Arezzo, più giovane e attivo qualche anno dopo, anche se i contemporanei videro in lui il poeta di spicco del movimento (si veda oltre); altri rimatori simili furono Giovanni dell'Orto (anche lui aretino), il pistoiese Mino Abbracciavacca e il fiorentino Chiaro Davanzati, tutti attivi nella seconda metà del XIII sec. Rispetto alla lirica siciliana la poesia toscana era legata alla realtà mercantile e politicamente attiva dei Comuni, perciò nei testi trova spazio oltre all'amore anche il tema politico escluso dai Siciliani, inoltre c'è un minor interesse per gli aspetti astratti della "casistica" amorosa e un più ampio spazio alle vicende personali degli autori, anticipando in parte una tendenza che sarà propria anche dello Stilnovo. Molto diffusa tra i poeti toscani l'abitudine a scambiarsi sonetti nel corso di "tenzoni", a volte per discutere questioni legate alla concezione dell'amore cortese (a imitazione delle tensos provenzali e siciliane) e a volte a scopo polemico, specialmente con gli esponenti del nuovo movimento lirico che nacque tra Emilia e Toscana verso la fine del secolo: è famoso un sonetto che Bonagiunta da Lucca rivolse al bolognese Guido Guinizelli, iniziatore di una nuova maniera di poetare d'amore (su cui si veda oltre), in cui il lucchese gli rimproverava troppe sottigliezze teoriche e di voler fare sfoggio di sapienza per stupire il lettore. Tali polemiche letterarie non erano rare tra i poeti del Duecento e non a caso Dante includerà il personaggio di Bonagiunta nel canto XXIV del Purgatorio, servendosi di lui come pretesto per spiegare la sostanza del "dolce stil novo" di cui il poeta fiorentino era stato esponente e di cui Guinizelli era stato secondo Dante l'iniziatore.

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