L’amor che tutto move (Pd., XXXIII, v. 145)
Nella Repubblica della Letteratura Europea e nel
panorama culturale mondiale continuano le celebrazioni per il settimo
centenario della nascita di Giovanni Boccaccio (nato il 13 giugno 1313),
considerato dalla critica e da molti studiosi uno fra i maggiori narratori
italiani ed europei di tutti i tempi. Con il Decameron, per esempio, si
impone subito come modello letterario a partire dal XVI secolo e viene tradotto
in molte lingue; conosciuto ed apprezzato a livello europeo, tanto da influire,
per esempio, anche nella letteratura inglese di Geoffrey Chaucer (italianizzato
Goffredo Ciociaro, Londra 25 ottobre 1400) nei Racconti di Canterbury,
che riprende, del testo italiano, cornice, personaggi e temi. Soprattutto a
partire dal Cinquecento - e dopo il 1525 quando si stampa il libro Le prose
della volgar lingua di Pietro Bembo - la sua prosa (con le strutture
semiotiche del testo) diventa un modello da seguire, leggere e imitare, e anche
dopo la metà del secolo XVI il suo successo continuerà indisturbato, nonostante
il suo capolavoro assoluto, il Decameron, fosse stato messo all’indice
dalla Chiesa Cattolica (Index librorum prohibitorum, 1525) per opera
della Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione (o
Sant’Uffizio), sotto il pontefice Paolo IV.
Boccaccio è tra i primi grandi scrittori italiani ed
europei a possedere una dimensione mondo dell’epoca in cui vive e opera.
Basti considerare, per esempio l’impatto che sulla poetica e l’opera dell’autore
ebbe il mondo greco del romanzo alessandrino, e quello francese della Chanson
de geste e del Roman de Alexandre. È bene rammentare che i codici
francesi di due biblioteche veneziane del Settecento comprendono, anche, un
codice del Roman d’Alexandre conservato al Museo Correr ms. B.5.8; Vi.
665. E poi l’importanza di Venezia (Bembo a parte) che ha notevolmente
contribuito alla fortuna del Boccaccio latino: dal primo volgarizzamento del De
mulieribus a quello delle Genealogie e del De montibus.{1}.
L’altra dimensione (per non parlare di quella ovvia
autoctona) è quella napoletana, come si sa, o meglio, angioina. La componente
napoletana in alcune novelle del Decameron (anche a livello linguistico)
è fortemente in evidenza. Si ricorda il convegno Boccaccio angioino svoltosi tra il 26 e il 28
ottobre 2011 a Santa Maria Capua Vetere e Napoli in previsione del settimo
centenario della nascita dello scrittore.{2}
Quello che ci interessa in questo scritto, oltre alla
dimensione italiana ed europea dello scrittore, è analizzare l’articolata
concezione dell’Amore nella letteratura boccaccesca e leggere Boccaccio
come grande sperimentatore di generi metrici e letterari che avranno largo
seguito in Italia e in Europa nei secoli seguenti. Giovanni Boccaccio
sperimenta - ed è bene ricordarlo - vari generi metrici, e narrativi, lavora in
versi e in prosa con la stessa maestria e scioltezza, talvolta anche mescolando
le due forme scrittorie. Allo stesso modo presenta una visione plurale
dell’Amore, una panoramica a trecentosessanta gradi che ne fa uno scrittore
moderno per certi versi, anche se, ancora, non completamente svincolato dai
canoni culturali della sua epoca.
Ne La caccia di Diana (1333-1334) abbiamo una
narrazione in terzine di endecasillabi, un poemetto in diciotto canti composti
da cinquantotto versi, dove si celebrano, in chiave mitologica, alcune
gentildonne napoletane. Questo lavoro è il risultato della mescolanza di
diverse tipologie di letteratura latina medievale e di letteratura volgare. Il
motivo principale è quello del contrasto tra castità e amore e della forza di
quest’ultimo che riesce a tramutare l’uomo da animale, dotato solo d’istinto,
in un essere dotato, anche, di intelligenza. La tematica affrontata
dall’autore, che verrà riproposta in modo più ampio nel Decameron e
nell’Amorosa Visione, è mutuata dai classici latini Omero e Ovidio oltre
che dai romanzi degli ellenistici come Achille Tazio e Senofonte di Efeso
(fonti, tra l’altro anche dei Promessi Sposi manzoniani e di gran parte
della letteratura d’amore europea) e da quelli cortesi. È qui presente una
concezione cortese e stilnovistica dell’Amore che ingentilisce e nobilita
l’uomo pieno di virtù.
Il Filostrato (non vinto d’amore, ma amante
della guerra) è stato scritto durante il periodo napoletano, probabilmente
tra il 1337 e il 1339, in ottave di endecasillabi. Al centro della vicenda vi è
l’esperienza amorosa di Troilo e delle implicazioni psicologiche legate alla
complicata situazione. Si narra la vicenda amorosa di Troilo, figlio del re di
Troia Priamo, innamorato della principessa Criseida, figlia dell’indovino
Calcante. Durante uno scambio di prigionieri, però, la giovane donna si
innamora di Diomede e il giovane troiano, in cerca di vendetta, si getterà
nella battaglia trovando la morte per mano di Achille. Il poema narrativo è
tratto dal Roman de Troie, romanzo francese del XII secolo di Benoit de
Sainte-Maure. In quest’opera si indaga l’aspetto tragico dell’amore che porta
il virtuoso che lo prova a morire accecato dall’ira per essere stato tradito
(uno dei modelli eseguiti è la tradizione dei cantari).
Il Filocolo (presumibilmente 1336-1339) è la
più interessante e matura delle opere del periodo napoletano, l’unica in prosa
e anticipatrice di diversi elementi poi espressi nel Decameron: è un
romanzo in cinque libri, scritto (così almeno riferisce Boccaccio) su invito di
Maria, figlia di re Roberto d’Angiò e definita gentilissima donna,
identificabile con la Fiammetta amata dallo scrittore a Napoli. Il libro in
prosa racconta la storia di due giovani, Florio e Biancifiore ed è tratta dal
poemetto francese Floire et Blanchefleur del XII secolo e già ripresa
dal Cantare di Florio e Biancifiore, scritto in toscano nel XIV
secolo.
L’autore si ispira anche allo schema del romanzo greco
alessandrino, conosciuto grazie alla mediazione di Dionigi di Borgo S.
Sepolcro, mentre il motivo del pellegrino amoroso proviene dal Cligès
di Chrétien de Troyes. Varie e multiformi sono dunque le fonti e il romanzo,
con diversi motivi lirici, epici e, anche, comici.
Vi si narra la storia d’amore del figlio di un re Saraceno e di una schiava cristiana abbandonata. I due fanciulli si innamorano in seguito alla lettura del libro di Ovidio, Ars amandi.
Vi si narra la storia d’amore del figlio di un re Saraceno e di una schiava cristiana abbandonata. I due fanciulli si innamorano in seguito alla lettura del libro di Ovidio, Ars amandi.
È evidente la spia intertestuale che rimanda
direttamente all’ipotesto d’origine dell’esecuzione, ovvero i versi danteschi
del canto V dell’Inferno quando Francesca racconta a Dante del bacio con Paolo:
Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, /
questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. /
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante.
(vv. 133-138, che a sua volta contiene un altro ipotesto d’origine, il romanzo
della tradizione cortese che racconta le vicende adulterine di Lancillotto e
Ginevra). Dietro vi è, naturalmente, l’uso delle fonti classiche che
conosciamo, come la lontana matrice del romanzo occidentale, cioè la ricca
letteratura orientale e tardo-ellenistica. Solo per fare alcuni esempi ricordiamo
i principali romances greci sopravvissuti (datanti dal II secolo d.C.),
come Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, Abrocome e Anzia
di Senofonte di Efeso, Teagene e Cariclea di Eliodoro, Dafne e Cloe
di Longo (fonti base per l’intera letteratura amorosa dell’età moderna e
contemporanea riutilizzate, soprattutto a livello di palintesto).{3}
Dopo essere stati separati a lungo, attraverso tante peripezie, i due ragazzi si ritrovano, la giovane schiava si converte al cristianesimo e termina con un bel matrimonio segno di assoluta positività a coronamento di un amore virtuoso e benefico. Per Torquato Tasso (per esempio) potrebbe aver funzionato come intertesto esterno nell’episodio drammatico di Clorinda e Tancredi (XII, 51-61; 64-69), quando la donna, al termine di un estenuante combattimento, si accascia al suolo ferita e prima di morire, chiede al suo uccisore di poterla battezzare secondo il rito cristiano (Tasso ne fa un palintesto partendo da fonti e modelli da rielaborare a livello semiotico).
Dopo essere stati separati a lungo, attraverso tante peripezie, i due ragazzi si ritrovano, la giovane schiava si converte al cristianesimo e termina con un bel matrimonio segno di assoluta positività a coronamento di un amore virtuoso e benefico. Per Torquato Tasso (per esempio) potrebbe aver funzionato come intertesto esterno nell’episodio drammatico di Clorinda e Tancredi (XII, 51-61; 64-69), quando la donna, al termine di un estenuante combattimento, si accascia al suolo ferita e prima di morire, chiede al suo uccisore di poterla battezzare secondo il rito cristiano (Tasso ne fa un palintesto partendo da fonti e modelli da rielaborare a livello semiotico).
Il Teseida è un poema iniziato, con ogni
probabilità, negli ultimi anni del soggiorno a Napoli e completato nei primi
anni del rientro a Firenze; è, quindi, databile tra il 1339 e il 1341. Si
tratta di un poema eroico scritto in ottave di endecasillabi e costituisce
l’antecedente dell’ottava epica e romanzesca del Quattrocento e del Cinquecento
ed è strutturato in dodici libri (come l’Eneide di Virgilio) preceduti ognuno
da un sonetto che serve da introduzione e sommario, dove il primo contiene
l’argomento generale dell’intera opera. Vi è poi una lettera in prosa dal
titolo A Fiammetta che ha funzione di proemio dove l’autore dice di
voler vincere il «turbato aspetto» della «crudel donna» raccontando una storia
d’amore molto antica e simile alla sua e di essersi nascosto dietro uno dei
personaggi. Questo poema epico in ottave rievoca le gesta di Teseo che combatte
contro Tebe e le Amazzoni, ma il vero centro narrativo è la passione amorosa
dei prigionieri Tebani Arcita a Palemone che si invaghiscono di Emilia sorella
di Ippolita, regina delle Amazzoni e cognata di Teseo.
I due pretendenti arrivano a sfidarsi a duello (secondo tradizione) per sposare Emilia. Lo scontro tra Arcita e Palemone si conclude con la vittoria del primo, il quale, pur essendo ferito a morte, sposa lo stesso Emilia. Nelle disposizioni testamentarie Arcita lascia scritto che, alla sua morte, Emilia dovrà andare sposa a Pelemone.
Arcita, quindi, muore e Teseo fa predisporre l’ufficio funebre facendo preparare un immenso rogo. Sul luogo dove era stata abbattuta la selva per accendere il rogo viene, poi, fatto innalzare un tempio che custodirà le ceneri del giovane tebano. La storia termina con le sfarzose nozze di Palemone ed Emilia. In questo caso, abbiamo un esempio di lealtà e rispetto per l’avversario (nobiltà d’animo e alto sentire della più alta tradizione cortese) con il trionfo finale delle virtù amorose che possono possedere anche uomini dotato di passionalità e istinti sessuali (concezione biologica dell’amore positiva). Nel poema si sente l’influenza della Tebaide di Stazio, dell’Eneide di Virgilio, della narrativa francese, nello specifico del Roman du Chastelain de Couci di Jakemes de Boulogne, ma l’originalità di Boccaccio consiste nell’aver cercato di creare, in lingua volgare, un nuovo genere epico-cavalleresco (con il superamento delle fonti). Quest’opera boccaccesca fece sentire la sua influenza base nella costruzione letteraria delle opere principali di Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto (Orlando Innamorato e Orlando Furioso) e non solo a livello metrico.
I due pretendenti arrivano a sfidarsi a duello (secondo tradizione) per sposare Emilia. Lo scontro tra Arcita e Palemone si conclude con la vittoria del primo, il quale, pur essendo ferito a morte, sposa lo stesso Emilia. Nelle disposizioni testamentarie Arcita lascia scritto che, alla sua morte, Emilia dovrà andare sposa a Pelemone.
Arcita, quindi, muore e Teseo fa predisporre l’ufficio funebre facendo preparare un immenso rogo. Sul luogo dove era stata abbattuta la selva per accendere il rogo viene, poi, fatto innalzare un tempio che custodirà le ceneri del giovane tebano. La storia termina con le sfarzose nozze di Palemone ed Emilia. In questo caso, abbiamo un esempio di lealtà e rispetto per l’avversario (nobiltà d’animo e alto sentire della più alta tradizione cortese) con il trionfo finale delle virtù amorose che possono possedere anche uomini dotato di passionalità e istinti sessuali (concezione biologica dell’amore positiva). Nel poema si sente l’influenza della Tebaide di Stazio, dell’Eneide di Virgilio, della narrativa francese, nello specifico del Roman du Chastelain de Couci di Jakemes de Boulogne, ma l’originalità di Boccaccio consiste nell’aver cercato di creare, in lingua volgare, un nuovo genere epico-cavalleresco (con il superamento delle fonti). Quest’opera boccaccesca fece sentire la sua influenza base nella costruzione letteraria delle opere principali di Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto (Orlando Innamorato e Orlando Furioso) e non solo a livello metrico.
La Comedia delle ninfe fiorentine o Ninfale
d’Ameto è un’opera didattico-moraleggiante di carattere allegorico. Si
tratta di un prosimetro (con terzine di endecasillabi) composto tra il 1341 e
il 1342 dopo che l’autore aveva fatto ritorno a Firenze ed è dedicato all’amico
Bartolo del Buono (padre del più famoso Niccolò), del quale ci sono pervenuti ventotto
manoscritti e otto stampe. All’interno di una cornice che anticipa quella del Decameron
sono inserite delle novelle anticipate da un proemio in cui l’autore dichiara
che sono degni di essere letti «i passati amori» che riaccendono con maggior
piacere quelli nuovi. Si narra la storia di Ameto, un rozzo pastore che si
innamora di una ninfa devota a Venere, Lia. Le ninfe, dietro decisione di Lia
che sa dell’amore dei Ameto, raccontano al pastore le loro storie d’amore. E
così i vari personaggi fisici acquistano valore allegorico e didattico; Mopsa,
per esempio, rappresenta la saggezza, Emilia la temperanza, Adiona la
giustizia, Acrimonia la fortezza, Agapes la carità e Fiammetta la speranza. In
sequenza raccontano la loro storia concludendola con un canto mentre l’ultimo
racconto, che termina con un inno in lode a Cibele, viene narrato da Lia. Al
termine della storia di Lia appare Venere che, per ordine delle ninfe, prende
Ameto e lo getta in una limpida fonte dalla quale egli ne esce purificato
(funzione purificatrice dell’Amore).
Amorosa visione è un poema in terzine di endecasillabi
(presumibilmente 1342-1343) diviso in cinquanta canti. La narrazione è
preceduta da un proemio di tre sonetti che formano un grande acrostico e sono
composti da parole i cui monemi corrispondono alle rispettive lettere di
ciascuna terzina del poema (ordinatamente e progressivamente). È un poemetto
didattico-allegorico, (sovente scivola nello stile parodico) e evidenti sono i
debiti nei confronti della Commedia dantesca (la donna gentil, la
visio in somnis) e nei confronti di Petrarca (i Trionfi, ma anche
il Secretum come modello da eseguire e da scartare); non a caso
Boccaccio divulga i due grandi scrittori e li lega unendosi a loro nella triade
delle Tre corone della Letteratura Italiana. Il protagonista della
storia si addormenta e sogna di andare vagabondando per luoghi deserti quando
incontra una donna che lo invita a seguirlo e lo conduce ad un castello con due
porte; quella a destra è piccola e stretta e conduce alla virtù, mentre quella
a sinistra è grande e larga e promette ricchezza e gloria mondana. Lasciandosi
convincere da due giovinetti, sceglie la porta più larga e prende ad
attraversare numerose sale sulle cui pareti sono affrescati i trionfi della
Sapienza, della Gloria, degli Avari, dell’Amore, della Fortuna e di una donna
gentile. Per prima cosa scorge una fontana di marmo sulla quale spiccano quattro
cariatidi che rappresentano simbolicamente le quattro virtù cardinali, tre
piccole statue di donna, simbolo dell’amore puro, dell’amore carnale e
dell’amore venale, e tre teste di animali, un leone, un toro e un lupo che
simboleggiano la superbia, la lussuria e l’l’avarizia. In seguito entra in un
giardino dove passeggiano donne leggiadre ed egli riconosce tra esse Fiammetta.
Con quest’ultima si allontana in un luogo solitario, ma quando cerca di
possederla il sogno svanisce. Risvegliatosi, si ritrova così accanto alla guida
che lo rimprovera e gli dice che potrà raggiungere quello che desidera solo
seguendo la virtù e lasciando i beni terreni. Il poema termina con una
invocazione alla donna amata perché sia verso di lui pietosa: «Dunque, donna
gentile e valorosa».
Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344) è un romanzo in prosa
suddiviso in nove capitoli (l’ultimo dei quali funge da congedo, più un prologo
di anticipo) che narra la storia di una donna napoletana abbandonata e
dimenticata dal giovane fiorentino Panfilo; un romanzo psicologico strutturato
come un lungo monologo-confessione. Assume infatti la forma di una lunga
lettera di una fanciulla napoletana alle «innamorate donne mandata» (incipit).
La protagonista, che è anche voce narrante, racconta la sua vicenda
sentimentale: innamoratasi al primo sguardo di Panfilo, mercante fiorentino,
vive una stagione di felicità interrotta però dalla partenza dell’amante per
Firenze.{4}
Non si tratta di uno sfogo sincero e appassionato, di una trascrizione spontanea e immediata dei sentimenti: siamo invece di fronte ad un’opera tutta letteraria, interamente strutturata secondo i dettami e i procedimenti della retorica. Non stupisce quindi la complessa e costante trama di riferimenti a fonti svariate, classiche e medievali. Interessante è notare che il Boccaccio, a molti secoli di distanza dalle Heroides di Ovidio, pone una donna come narratrice in prima persona. Fiammetta infatti non è rappresentata come oggetto d’amore, cosa che accadeva di norma nella lirica stilnovistica e trecentesca, ma come persona dotata di volontà ed emotività proprie, attraverso le quali parla alle altre donne per suscitarne la compassione e consolarsi così della propria sofferenza.
Non si tratta di uno sfogo sincero e appassionato, di una trascrizione spontanea e immediata dei sentimenti: siamo invece di fronte ad un’opera tutta letteraria, interamente strutturata secondo i dettami e i procedimenti della retorica. Non stupisce quindi la complessa e costante trama di riferimenti a fonti svariate, classiche e medievali. Interessante è notare che il Boccaccio, a molti secoli di distanza dalle Heroides di Ovidio, pone una donna come narratrice in prima persona. Fiammetta infatti non è rappresentata come oggetto d’amore, cosa che accadeva di norma nella lirica stilnovistica e trecentesca, ma come persona dotata di volontà ed emotività proprie, attraverso le quali parla alle altre donne per suscitarne la compassione e consolarsi così della propria sofferenza.
Il Ninfale Fiesolano (1344-1346) è un poemetto
eziologico in ottave di endecasillabi dove si raccontano le origini di Fiesole
e Firenze. Qui Boccaccio riprende le cadenze e le formule linguistiche del cantare
popolare toscano cui sovrappone fitti motivi di derivazione classica (Metamorfosi
ovidiane, Georgiche e Bucoliche virgiliane). Vi si narra la
storia del pastore Africo che si innamora della ninfa Mensola, seguace di
Diana. Come le altre ninfe è obbligata alla castità. Venere gli appare in sogno
e gli promette di aiutarlo. Intanto, con uno stratagemma, Africo e Mensola si
incontrano e si innamorano. Ma la ninfa, consapevole dell’errore fugge e Africo
si uccide gettandosi in un fiume. Anche Mensola, rimasta in cinta di Africo,
verrà tramutata in un fiume dalla crudele Diana. Secondo Carlo Salinari{5} «lo schema
dell’arioso poemetto sembra rifarsi alle favole eziologiche, assai diffuse
sulle orme delle Metamorfosi di Ovidio, ma la materia dell’idillio non è
ovidiana, come potrebbe far pensare la metamorfosi della ninfa, perché il suo
mondo è quello della realtà, interpretato con un gusto fresco e con schietta
aderenza, attraverso un linguaggio che, superando le tendenze auliche, esprime,
nei modi della poesia popolaresca, i temi della passione, del pudore e del
rimorso, accanto a quelli nuovi per il Boccaccio, degli affetti familiari».
Dall’analisi delle differenti concezioni dell’Amore
presenti, fin qui, nei lavori letterari di Boccaccio, possiamo determinare le
diverse tipologie e weltanschauungen che si articolano e si intersecano
dentro i testi:
- Amore virtuoso (di stampo cortese e stilnovistico; La caccia di Diana)
- Amore tragico (Filostrato)
- Amore cristiano e matrimoniale (Filocolo)
- Amore passionale (che diventa esempio di virtù cavalleresche e cortesi; Teseida)
- Raggiungimento della virtù (dopo aver lasciato i beni terreni e le pulsioni erotiche; Amorosa Visione)
- Amore come speranza di riavvicinamento (Elegia di Madonna Fiammetta)
- Amore al femminile (donna soggetto d’amore; Elegia di Madonna Fiammetta)
- Amore impossibile (con finale tragico; Ninfale Fiesolano)
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse (If., V, 137)
È noto che Boccaccio fu uno dei fondatori
dell’Umanesimo insieme a Petrarca e il primo grande divulgatore della Commedia
dantesca. Ed è proprio l’opera dantesca a costituire il modello per Boccaccio
da cui partire verso scarti o esecuzioni. Il Decameron come libro
dell’amore. La dedica di Boccaccio al Decameron («comincia il libro
chiamato Decameron cognominato prencipe galeotto») rappresenta una spia
intertestuale precisa che rimanda esplicitamente ai famosissimi versi danteschi
del canto V dell’Inferno quando Francesca racconta a Dante del bacio con Paolo:
Quando leggemmo il disïato riso / essere basciato da cotanto amante, /
questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto
fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante. (vv.
133-138). È come se questo episodio (non importa se effettivamente verificatosi
o meno) rappresentasse, per sineddoche, la poesia e la letteratura romanzesca
amorosa della civiltà cavalleresca, responsabile, in qualche modo, della
dannazione dei due cognati che si sono lasciati trasportare dalla passione
invece che dominarla (i peccator carnali, / che la ragion sommettono al
talento, vv. 38-39). Un idea differente rispetto all’amore cortese dei
trovatori, il cui destino inappagato diventa il tema centrale e la stessa idea
erotica presente è capace di accogliere in sé una quantità di contenuti etici
senza rinunciare completamente al nesso con l’amore naturale per la donna. E l’amore
diventa il campo semantico di applicazione nel quale poteva svilupparsi
qualsiasi perfezione estetica e morale degli ideali di quella civiltà. Per
Boccaccio la dedica al Decameron costituisce l’importante funzione che il libro
avrà di intermediario tra gli amanti (oltre che strizzar l’occhio a Dante per
iniziare lo scarto dal modello). Se per Dante la virtù sta nel dominare certi
impulsi erotici (per poi assoggettarli a una legge superiore e sublimarli ad
una concezione dell’Amore Assoluto), per Boccaccio sta, invece (anche), nel
soddisfarli e viverli dentro una dimensione fisica e istintuale.
Tre intere giornate (III, IV,V) sono dedicate al tema
amoroso in varie sfaccettature (senza calcolare le novelle, comunque, ispirate all’Amore).
Nell’introduzione alla prima giornata l’autore-narratore della cornice (prima
di passare la parola ai personaggi-narratari) scrive una dedica alle donne
preparando così l’orizzonte d’attesa per il destinatario ideale o Lettore
Modello. Una letteratura d’evasione, oggi diremmo a destinazione borghese o a
destinazione mondo con un’attenzione particolare al contesto culturale
femminile e alla tematica amorosa. Le Muse ispiratrici sono ora donne, non più
intermediarie tra l’uomo e Dio, ma tra lo scrittore e il testo. L’amore si
presenta come una forza irresistibile della natura, come si dice
nell’introduzione alla IV giornata: «gli altri e io che vi amiamo naturalmente
operiamo» e spesse volte con «grandissimo danno del praticante» (con i pericoli
del caso). Egli sviluppa l’aspetto naturalistico dell’Amore, già trattato come
fondamento del sentimento stesso dagli antichi. L’amore è un bene e un valore
in sé, a prescindere dagli effetti virtuosi di elevazione morale attribuitigli
dalla tradizione cortese. Nel Decameron è assente il conflitto tra
spiritualità e sensualità, presente, invece, nella cultura del Trecento e
(fortemente e drammaticamente) in Petrarca.
Tale idea dell’amore comporta una particolare
valorizzazione del ruolo femminile e del rapporto tra i sessi. Eros e
sessualità femminile sono rivalutati con grande spregiudicatezza da Boccaccio
fino a capovolgere i loci communes della polemica misogina:
insaziabilità sessuale, infedeltà, adulterio femminile. L’amore non esiste
senza il coinvolgimento del corpo e senza il suo adempimento erotico. Lo
stresso tema del suicidio (cfr. per esempio Ninfale Fiesolano),
tendenzialmente estraneo alla tradizione cortese, allude all’impossibilità
della sopravvivenza fisica senza l’amato. Prende, così, campo una concezione
biologica e istintuale della vita che si ritrova in V,1, dove Cimone, per amore
di Efigenia, diventa un uomo gentile e virtuoso, ma il necessario compimento
erotico dell’amore lo rende violento e lo trasforma in un assassino.
Cade, inoltre nel Decameron ogni distinzione
tra amore onesto e amore dilettevole: solo l’amore mercenario è condannato. È
nota la simpatia dell’autore per le scene di adulterio femminile. In VII,8
Monna Sismonda applica il suo ingegno nel tradire il marito; l’amore naturale,
per esempio, si concentra intorno alla figura di Caterina in V,4, mentre in
VI,7 monna Filippa arriva ad esprimere. nel modo più estremo. le ragioni delle
donne difendendo l’adulterio davanti al tribunale di Prato come diritto al
totale appagamento erotico e alla libertà di gestire il proprio corpo. Filippa
giunge addirittura a contestare la validità della legge che condannava a morte
la donna adultera poiché fatta dagli uomini contro le donne e senza la loro
approvazione.
Notissima è la novella della badessa e le brache
(IX,2) il cui monastero di monache si trasforma, alla fine, in un comico
incontro tra amanti. Boccaccio, in questo senso, supera decisamente i limiti
della concezione cortese dell’amore che diventa una forza eversiva tendente a
un livellamento democratico tra i sessi e i differenti ceti della società. La
spinta erotica, però, non arriva a mettere in crisi l’ordine borghese, ma
soltanto i suoi aspetti più autoritari. In V,9 (novella di Federigo Degli
Alberighi) - nonostante il clima iniziale inquadri un uomo che sperpera il
proprio danaro per una donna sposata - l’autore non va contro il matrimonio,
anzi; il racconto si conclude con le nozze tra Federigo e Giovanna, rimasta
vedova (un finale borghese, quindi).
Le donne, e questo è un fatto del tutto nuovo nella
letteratura italiana, acquistano dignità di personaggio e si trasformano in
soggetto del desiderio (oltre che di oggetto), senza il timore di esprimere i
propri desideri erotici; è spesso la donna a prendere l’iniziativa, ella non è
priva di coraggio, ma dà prova di ingegno e virtù, anche se il suo campo di
applicazione semantico (e prima sociale), nello spazio narrativo, difficilmente
va oltre l’ambito erotico.
La donna del Decameron smette di essere la donna angelicata della tradizione stilnovista: è diventata la donna borghese, ingegnosa, intelligente, capace di elevata nobiltà d’animo, ma sempre, come si è detto, dentro la sfera applicativa del ruolo concessogli. In IV,1 Ghismunda trasgredisce l’autorità paterna (e del principe), contrapponendo al padre un ideale di vita costruito intorno a valori nuovi, sulla libertà dei sensi e dell’intelletto. Le sconfitte delle eroine dell’amore e la fine tragica di alcune di esse (cfr. Elegia di Madonna Fiammetta), mettono in luce i limiti storici e culturali cui sono destinate a scontrarsi in quel un sistema sociale.{6} La ribellione di Ghismunda in IV,1 si scontra con una condizione storica in cui la donna è condannata a subire, comunque, l’iniziativa maschile.{7}
La donna del Decameron smette di essere la donna angelicata della tradizione stilnovista: è diventata la donna borghese, ingegnosa, intelligente, capace di elevata nobiltà d’animo, ma sempre, come si è detto, dentro la sfera applicativa del ruolo concessogli. In IV,1 Ghismunda trasgredisce l’autorità paterna (e del principe), contrapponendo al padre un ideale di vita costruito intorno a valori nuovi, sulla libertà dei sensi e dell’intelletto. Le sconfitte delle eroine dell’amore e la fine tragica di alcune di esse (cfr. Elegia di Madonna Fiammetta), mettono in luce i limiti storici e culturali cui sono destinate a scontrarsi in quel un sistema sociale.{6} La ribellione di Ghismunda in IV,1 si scontra con una condizione storica in cui la donna è condannata a subire, comunque, l’iniziativa maschile.{7}
Il libro si chiude con l’esempio di Griselda{8} (X,10), segno di
una femminilità che rappresenta l’esatto contrario rispetto a Ghismunda e in
contrasto anche con le altre figure dell’opera, completamente passiva e
sottomessa alla sopraffazione maschile. E qui finisce il grande carnevale
della rappresentazione boccaccesca, una società al femminile completamente
ribaltata rispetto ai valori della tradizione cortese, dove il ruolo della
donna non è affatto secondario, ma più attivo e dinamico (spesso irriverente
rispetto all’ideologia dominante).
In definitiva la donna del Decameron è una
sorta di proiezione dell’eros e delle pulsioni sessuali maschili della società
tardo medievale, un ruolo attanziale che veicola un’ideologia letteraria
specifica. Caduto l’interesse per la tematica erotica, e sfruttato fino in
fondo il mondo nascosto delle pulsioni erotiche femminili (e degli stratagemmi
messi in atto), la donna, il corpo, il sesso tornano ad essere una forza
negativa da esorcizzare e condannare. Con Griselda Boccaccio ottiene lo stesso
effetto che Dante ottiene con Beatrice contemplata nella Rosa dei Beati e
Petrarca con la preghiera alla Vergine nella poesia di chiusura dei Rerum
Vulgarium Fragmenta.
Griselda è il modello di perfezione morale femminile
plasmato dall’uomo dell’epoca come proprio ideale, forse, irraggiungibile
proprio perché non reale, come non sono reali Beatrice e Laura. La condizione
reale della donna{9} è un carattere di
un contesto storico inesorabile in cui la donna è condannata alla passività e a
subire l’iniziativa e le prevaricazioni maschili.
La novella di Griselda, dunque, si pone come éksodos
= fuori strada rispetto al resto della popolazione degli attanti femminili
presenti ed operanti dentro lo spazio semantico del testo. Fa, però, parte del
sistema semiotico della narrazione e del contesto sociale dell’epoca. È quindi
una novella intratestuale che secondo il classico schema ascensionale
letterario medievale conduce alla virtù partendo dai piani meno elevati del
sistema.
Quest’ultimo testo chiude questa grande
rappresentazione della classe borghese mercantile e della classe aristocratico
cortese di origine cavalleresca. Leggiamo, quindi, questo ultimo racconto come
una sorta di agnizione dei personaggi recitanti in questa grande commedia della
classe borghese mercantile dell’epoca e della classe aristocratico-cortese in
cui si evidenziano maggiormente le virtù cavalleresche di quel mondo. Griselda
rappresenta l’esempio massimo di virtù femminile attraverso un comportamento
magnanimo, nobile, paziente e sottomesso alla «matta bestialità» maschile (ma
anche la determinazione dello sposo).
Tutti quei personaggi recitanti nello spazio narrativo
non ci sono più, la scena finale è soltanto per Griselda, il massimo esempio di
ideale femminile di quella cultura giunta al termine (per poi svilupparsi in
modo differente) del suo percorso storico.
Amor condusse noi ad una morte (If., V,
v. 106)
Il Corbaccio risale, forse, al 1365 (data
ricostruita filologicamente) e fu composto in volgare, seguendo lo schema delle
rime petrose dantesche. L’etimologia del titolo risulta ancora incerta e
rimangono due ipotesi: si potrebbe riferire allo spagnolo corbacho e al
francese courbache che sta per «sferza contro le donne», oppure potrebbe
riferirsi a un uccello (il corvo = corvaccio) simbolo dell’amore che fa uscire
di senno. Il protagonista, disperato per l’amore non corrisposto di una vedova,
invoca la morte e, dopo essersi addormentato, inizia a sognare. In sogno gli
appare lo spirito di un uomo che sostiene di essere il defunto marito della
donna il quale dice di essere stato inviato da Dio - e per intercessione della
Vergine Maria - per farlo uscire dal labirinto d’amore nel quale è
entrato. Il protagonista narra allo spirito (in prima persona) la storia del
suo amore e da questi viene messo in guardia sul pericolo cui va incontro a
causa della lussuria femminile. Lo spirito lo invita, dunque, alla vendetta che
potrebbe proprio consistere, viste le sue indiscusse qualità di scrittore,
nella letteratura al fine di smascherare la vera indole subdola delle donne.
Questo tardo scritto boccaccesco rappresenta un
ribaltamento della posizione nei confronti della donna rispetto a quanto messo
in scena nel Decameron, ma anche rispetto alla produzione letteraria
giovanile. A guardar meglio, però, Boccaccio dirige la sua ideologia
esclusivamente intorno alla visione misogina, escludendo ogni riferimento ad
altra natura. Più che un ribaltamento rispetto alla visione precedente è un
dirigersi altrove, puntare il mirino esclusivamente su un modello differente e
che aveva visto già il suo compimento con la novella di Griselda che chiude il
libro di novelle . Ogni altra posizione e concezione dell’amore legato alla
donna in quanto forza fisica non esiste più. L’autore si riposiziona ora
all’interno della concezione medievale prevalente. Nel Decameron, ma non
solo, l’amore era visto, per così dire, al naturale, come forza positiva e
incontrastabile e quelle novelle stesse erano dedicate proprio alle donne, un
pubblico non letterato da allietare con testi gradevoli. Ora, invece, l’amore è
sentito come motivo di degrado che conduce alla morte dello spirito e le donne,
in quanto femmine, sono ripudiate in nome delle Muse classiche, simboli di una
letteratura e di un pensiero più elevati e austeri. Nella tarda produzione
letteraria,{10} Boccaccio esegue
una operazione di scelta e di selezione del destinatario adottando altri
criteri; cambia pubblico e ricezione culturale, alza il livello, possiamo dire,
muovendosi verso una destinazione esclusivamente di dotti.{11}
_________
{1}20-22 giugno 2013
presso Casa Artom, sede italiana a Venezia della Wake Forest Universuty,
North Carolina - USA, si è svolto il convegno per celebrare il
VII centenario della nascita di Boccaccio. Il Convegno è voluto essere un
omaggio al lavoro svolto trent’anni fa da Vittore Branca e Giorgio Padoan, Boccaccio,
Venezia e il Veneto.
{2}Boccaccio
angioino. Verso il centenario. Organizzato dalla seconda università di
Napoli, la Federico II, l'Orientale di Napoli e l'università di Salerno.
{3}Per il concetto
di palintesto (come nuova testura costruita attraverso la rielaborazione
semiotica di fonti e modelli) mi permetto di rimandare al mio recente studio Il
primato e la norma, in «Letteratura e società», Anno XIII, n. 2
maggio-agosto 2011, p. 43.
{4}Secondo il
seguente schema generale: equilibrio iniziale, rottura dell'equilibrio,
peripezie dell'eroe, ristabilimento dell'equilibrio. V. PROPP, Morfologia
della fiaba, Einaudi, 1966. Schema e funzioni sovrapponibili all'intera
produzione letteraria giovanile.
{5}C. SALINARI, C.
RICCI, Storia della letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari, 1991, p.
613.
{6}Una trattazione
analitica del concetto di corpo nel Medioevo è affrontata da J. LE GOFF, N.
TRUONG, Il corpo nel Medioevo, Laterza, 2007.
{7}Per un discorso
più articolato di quello affrontato fin qui rimando a R. LUPERINI, P. CATALDI,
L. MARCHIANI, F. MARCHESE, R. DONNARUMMA, La scrittura e l'interpretazione
I, Dalle origini al Manierismo, Palumbo, 2010.
{8}Novella tradotta
in latino da Petrarca e inserita nella dimensione Mondo dell'epoca. Quel testo,
grazie alla traduzione in latino ebbe all'epoca la funzione che hanno oggi i
contemporanei best seller il cui campo di applicazione culturale è
quello della mondializzazione del prodotto.
{9}Cfr. E. EDITH, Le
donne nel Medioevo, Laterza, 1991.
{10}Per quanto
riguarda le altre opere della maturità come De genealogiis deorum gentilium,
il Trattatello in laude di Dante, il De mulieribus claris e le Esposizioni
sopra la Comedia di Dante non sono materia di argomento di questo scritto.
{11}In questo senso
i severi modelli danteschi e petrarcheschi sono molto più eseguiti che
scartati. Si pensi al Secretum e al messaggio di Agostino a Petrarca
sulla necessità di staccarsi dalle catene che lo tengono prigioniero e gli
impediscono di raggiungere la libertà. Il riferimento è, come si sa, all'amore
fisico e terreno per Laura e al desiderio di gloria letteraria. Desideri che
distolgono dal raggiungimento della felicità eterna. Questo manca, naturalmente,
in Boccaccio, ma in quest'ultima opera lo scrittore fiorentino è molto più
vicino ai modelli medievali di quanto non lo fosse stato precedentemente.
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