Storia del teatro occidentale
Teatro moderno
Teatro
rinascimentale
Teatro
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dell'Arte
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Dramma
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teatrale
Teorici del
teatro
Teatro epico
Teatro
dell'assurdo
Commedia
d'intreccio
Commedia di carattere
Commedia musicale
Commedia all’italiana
Varietà
Teatro moderno: Teatro rinascimentale
Il Rinascimento fu l'età dell'oro della commedia italiana,
anche grazie al recupero e alla traduzione nelle diverse lingue moderne, da
parte degli umanisti di numerosi testi classici greci e latini (sia testi
teatrali che opere teoriche come la Poetica di Aristotele, tradotta per la
prima volta in italiano nel 1549).
I generi sviluppati e proposti furono la commedia, la
tragedia, il dramma pastorale, il melodramma, i quali ebbero una notevole
influenza sul teatro europeo del secolo.
Uno dei commediografi più rappresentativi del teatro
rinascimentale è stato Niccolò Machiavelli; il segretario fiorentino aveva
scritto una delle commedie più importanti di questo periodo, La Mandragola,
caratterizzata da una carica espressiva e da una linfa inventiva difficilmente
eguagliate in seguito, ispirata da riferimenti satirici alla realtà quotidiana
dei personaggi e non più necessariamente legati ai tipi della tradizione classica.
Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena scrisse un'unica ma
interessante commedia esemplare del gusto del periodo: La Calandria. Fra i
molti che si cimentarono in composizioni di testi teatrali si possono citare
gli eruditi Donato Giannotti, Annibal Caro, Anton Francesco Grazzini detto Il
Lasca e il nobile senese Alessandro Piccolomini.
Un posto particolare occupano Pietro Aretino, Ludovico
Ariosto e Ruzante, che furono tutti intellettuali al servizio delle corti. Per
quella estense di Ferrara, Ariosto, oltre Orlando furioso, scriverà delle
divertenti commedie come La Cassaria. Nella Roma di Leone X imperverserà Pietro
Aretino con le sue pasquinate ma anche con commedie come La Cortigiana, nella
quale trasgredirà molte convenzioni linguistiche e sceniche.
A Roma il teatro venne riscoperto e, per la prima volta,
avallato dai papi, che intuiscono la possibilità di strumentalizzarlo a fini
politici.
In caso a parte è rappresentato dalla figura e l'opera di
Angelo Beolco detto il Ruzante dal nome del contadino padovano protagonista
delle sue opere. La particolarità del teatro di Ruzante era quella di
introdurre nel teatro italiano, che sino ad allora aveva usato il volgare
fiorentino, l'uso del dialetto. Ruzante lavorava alla corte padovana di Alvise
Cornaro il quale fece costruire un'apposita scenografia nella sua villa di
Padova che fu detta la Loggia del Falconetto dal nome dell'architetto che la
ideò, spazio atto alla rappresentazione delle commedie ruzantiane come la Betìa
e l'Anconitana per citare le più famose fra le commedie di Beolco. Nel caso di
Ruzante il dialetto con il quale si esprimeva la sua drammaturgia era il
padovano cinquecentesco delle campagne venete: le sonorità onomatopeiche della
difficile lingua furono di ispirazione, a distanza di molti secoli, per artisti
contemporanei come Dario Fo, che trasse ispirazione appunto dalla lingua di
Ruzante per il suo grammelot.
Il teatro in dialetto cominciò a svilupparsi in questo
periodo con la Commedia dell'Arte, le sue maschere, come il bergamasco
Arlecchino (che poi assumerà come lingua il veneziano) e il napoletano
Pulcinella, le sue invenzioni mimiche e gestuali.
Anche il teatro tragico trovò un suo spazio; il conte Gian
Giorgio Trissino e Torquato Tasso composero tragedie di carattere
epico-pastorale, genere a metà strada fra la tragedia e la commedia. La
tragedia più rappresentativa di questo periodo, di sapore molto arcadico, fu Il
pastor fido di Giovan Battista Guarini. Anche l' Aminta di Torquato Tasso è
considerato un capolavoro, non solo per la fortuna editoriale e teatrale
ottenuta, ma soprattutto per la sua notevole influenza sulla drammaturgia
europea e sul melodramma seicentesco.
Questi testi teatrali venivano rappresentate da giovani
dilettanti, come le Compagnie della calza dei nobili veneziani, l'Accademia dei
Rozzi di Siena o le Confraternite fiorentine: la professionalità dell'attore
non era riconosciuta, sebbene la professione esistesse e sviluppò, nel tempo,
progressi notevoli dal punto di vista dell'arte drammatica e
dell'interpretazione del testo, nonché dell'allestimento scenico, spesse volte
a carico delle compagnie girovaghe.
La commedia cinquecentesca subì una svolta nel 1582, quando
a Parigi venne pubblicato Il Candelaio, di Giordano Bruno ricco di
caratteristiche anomale e trasgressive.
Con la ripresa del teatro si cominciarono a costruire anche
degli spazi atti a contenere scenografie, alle volte anche molto complesse: in
questo periodo vennero costruiti nuovi teatri, l'esempio più eclatante è il
Teatro Olimpico di Andrea Palladio che si trova a Vicenza dove ancora oggi viene
conservata la scenografia originale cinquecentesca di Vincenzo Scamozzi
dell'Edipo re di Sofocle, opera con la quale fu inaugurato il teatro nel 1585.
A Roma grazie all'attivismo di Pomponio Leto, atto a far
riscoprire il teatro latino, il Foro e Castel Sant'Angelo divennero luoghi
deputati per le rappresentazioni, solitamente effettuate durante le feste e le
celebrazioni.
La riscoperta e valorizzazione degli antichi classici da
parte degli umanisti permise lo studio delle opere concernenti il teatro non
solo dal punto di vista drammaturgico (nel 1425 Nicolò di Cusa scoprì, ad
esempio, nove commedie plautine) ma anche dal punto di vista architettonico:
architetti e trattatisti come Girolamo Genga o Leon Battista Alberti cercarono
ispirazione in Vitruvio negli aspetti teatrali del suo trattato sull'architettura
romana, mentre lo scenografo Sebastiano Serlio adattò al teatro del Cinquecento
i modelli delle scenografie: comica, tragica e pastorale, tripartizione che fu
rispettata nelle opere del teatro del Rinascimento.
Teatro moderno: Teatro elisabettiano
Il teatro elisabettiano è stato uno dei periodi artistici di
maggior splendore del teatro britannico. Esso viene collocato tradizionalmente
fra il 1558 e il 1625, durante i regni dei sovrani britannici Elisabetta I
d'Inghilterra e Giacomo I d'Inghilterra. Il termine, nella sua accezione di
teatro rinascimentale inglese, si estende ai fenomeni teatrali fioriti nel
periodo che va dalla riforma anglicana alla chiusura dei teatri nel 1642, a
causa del sopraggiungere della Guerra Civile, comprendendo quindi anche buona
parte del regno di Carlo I. La produzione del periodo successivo al 1603 (anno
della morte della regina) è talvolta definita in modo distinto come il teatro
dell'età giacobita (jacobean) e presenta caratteri differenti dal precedente,
di cui è l'evoluzione.
Il teatro di tutto il periodo viene tradizionalmente
associato a due grandi figure: la regina Elisabetta (1533-1603), da cui trae il
nome, e il drammaturgo William Shakespeare (1564-1616), massimo esponente di
questo periodo e considerato tuttora uno dei maggiori autori teatrali a livello
mondiale.
Il periodo elisabettiano coincide cronologicamente solo in
parte col Rinascimento europeo e meno ancora con quello italiano, recando in sé
forti accenti di Manierismo e di Barocco in quanto più tardivo.
Questo periodo storico fu idealizzato dalla storiografia
vittoriana e del primo Novecento come una sorta di età dell'oro. Gli studi
storici più recenti tendono a ridimensionare questa visione idilliaca,
sottolineando la povertà della stragrande maggioranza della popolazione, il
sostegno allo schiavismo e le grandi tensioni interne al paese che sfoceranno,
quarant'anni dopo la morte di Elisabetta, nella Guerra civile inglese. È
tuttavia opinione generale degli storici che l'età elisabettiana consentì
all'isola un periodo di relativa pace, un governo che utilizzò con parsimonia
la tortura, una riduzione consistente delle persecuzioni religiose e un grado
di libertà e prosperità di gran lunga superiore alle monarchie precedenti e
immediatamente successive.
L'età elisabettiana segnò l'ingresso dell'Inghilterra
nell'età moderna sotto la spinta delle innovazioni scientifico-tecnologiche
come la rivoluzione copernicana e delle grandi
esplorazioni geografiche (è l'inizio della colonizzazione
inglese dell'America settentrionale). La tempesta si ambienta non a caso in
un'isola dei Caraibi la cui popolazione (rappresentata simbolicamente dal
"selvaggio" Calibano e da sua madre, la strega Sicorace) è stata
sottomessa dalle arti magiche di Prospero, cioè dalla tecnologia e dal progresso
dei colonizzatori europei.
L'ascesa al trono di Elisabetta, dopo il tragico quinquennio
di regno di Maria la cattolica, si caratterizzò per un consolidamento del
protestantesimo e uno sviluppo deciso dei commerci e delle conquiste
territoriali del regno. Il distacco dall'orbita del papato e del Sacro Romano
Impero, con la sconfitta di Filippo II di Spagna e della sua Invencible Armada
(1588), il maggior benessere economico dovuto all'espansione dei commerci oltre
Atlantico, suggellarono il trionfo di Elisabetta e la nascita dell'Inghilterra
moderna.
Una nuova classe mercantile acquistava potere, e con i
commerci aumentarono anche gli scambi culturali con l'estero. Si accrebbe
l'interesse verso le humanae litterae e quindi verso l'Italia, dove gli
intellettuali fuggiti da Costantinopoli (1453) avevano portato con sé gli
antichi manoscritti dei grandi classici greci e latini facendo esplodere un interesse
senza precedenti per l'antichità greco-romana e lo studio della lingua ebraica.
Nasceva allora in Italia l'Umanesimo (a vocazione
soprattutto filologica e archeologica), destinato a maturare nel XVI secolo nel
Rinascimento, con la creazione di un'arte e un'architettura moderna e un rinnovamento
tecnologico su larga scala (si pensi soltanto a Leonardo da Vinci). Se in
Italia il Rinascimento si esaurì verso la metà del XVI secolo, nel Nord Europa
(dove arriva più tardi) esso perdurò fino ai primi decenni del XVII secolo.
Un fattore sociale che segnò la nuova realtà inglese, oltre
alla crescente intraprendenza dei commercianti, fu l'aumento della popolazione.
Le differenze economiche tra i ceti ricchi e i meno abbienti durante la
Dinastia Tudor si approfondirono. La crescita demografica e l'emigrazione dalle
campagne investirono Londra, che quadruplicò la sua popolazione in meno di un
secolo. Nel 1600 la capitale contava circa 200.000 abitanti. Lo sviluppo del
teatro inglese di quest'epoca ha il suo centro proprio a Londra, diffondendosi
poi nella provincia.
Nel periodo immediatamente precedente all'era del teatro
elisabettiano, erano molti diffuse le rappresentazioni sacre, i Corpus Christie
plays e i Miracle plays, interrotti solo dal re scismatico Enrico VIII (1548),
e definitivamente messi al bando sotto Elisabetta. Vennero rappresentati in
oltre centoventicinque città britanniche e per alcune loro caratteristiche,
come il passaggio improvviso dal serio al comico e viceversa, la narrazione per
episodi priva della classica strutturazione dei cinque atti tradizionali,
anticiparono il
teatro elisabettiano. Quest'ultimo fu maggiormente
influenzato, invece dalle Moralities, testi allegorici con fini educativi che
seppur legati alla sfera sacra, introdussero il gusto della visualizzazione di
concetti astratti, ottenuta grazie a figure simboliche, ovverossia personaggi
che rappresentano idee o atteggiamenti. Inoltre un altro filone teatrale, questa
volta laico, precedette quello elisabettiano: gli Interludes
("interludi"), che ebbero
l'apice del loro successo dalla metà del quattrocento fino
alla seconda metà del cinquecento, il cui protagonista era solitamente il
monarca, l'ambientazione era Londra, la trama insisteva sull'enfatizzazione
della felicità terrena.
Fondamentale fu la nascita dei cosiddetti minidrammi,
influenzati dalle opere latine e classiche che inventeranno il metro del teatro
in versi che caratterizzerà la produzione successiva.
Le compagnie di attori sotto la protezione dei casati
nobiliari, che eseguivano periodicamente rappresentazioni nelle corti e in
altri luoghi, esistevano anche prima del regno di Elisabetta, e prepararono la
strada agli attori professionisti del teatro elisabettiano. I sovrani Tudor si
circondarono spesso di artisti, giullari, musicisti e attori. Enrico VII manteneva
a corte una piccola compagnia di attori, i King's Players (Lusores Regis), allo
scopo di intrattenere e divertire gli ospiti. I nobili più potenti, come il
duca di Northumberland o quello di Buckingham, non erano da meno nell'affermare
il proprio prestigio arruolando attori e menestrelli, impegnandoli in sfarzose
celebrazioni, in occasione delle festività natalizie o per inaugurare un nuovo
palazzo. Gli attori, pedine nei giochi politici, legavano il proprio successo a
quello del protettore, di cui portavano la livrea. Spesso venivano 'prestati'
ad altre corti, allo scopo di accrescere il prestigio del proprio mecenate, e
compivano viaggi nei quali a volte erano impiegati anche come informatori. Le
lotte di potere e le rivalità tra la monarchia e le casate più potenti diventarono
argomento degli stessi drammi rappresentati, in una finzione che rifletteva e
si confondeva con la realtà.
Le tournée di queste compagnie di attori in livrea
soppiantarono gradualmente le altre forme di rappresentazione sacre e profane.
Un articolo della Poor Law (legge sui poveri) del 1572 eliminò le rimanenti
compagnie che operavano senza una formale protezione, equiparandole al
vagabondaggio. Le autorità di Londra furono generalmente ostili alle pubbliche
rappresentazioni. Nonostante le protezioni reali e nobiliari, i teatri pubblici
della città furono edificati nelle liberties fuori dalla giurisdizione
comunale, quali il quartiere di Southwark, e per mettersi al riparo dai divieti
le compagnie dovettero ricorrere frequentemente allo stratagemma di presentare
le rappresentazioni come semplici
prove di spettacoli destinati alla corte reale.
A Londra, città in forte espansione nella quale fiorivano le
attività economiche, l'edificazione e la gestione di un teatro assunse il carattere
allora inedito di impresa commerciale autonoma, facendo emergere la figura
dell'impresario. Thomas Dekker giunse ad equiparare i teatri alla Borsa Reale
di Londra costruita nel 1565 da Thomas Gresham, affermando come le Muse si
fossero «trasformate in mercanti, scambiandosi la merce leggera delle parole»
Quando nel Cinquecento sorsero i primi teatri nelle
liberties fuori dalla City (sorta di zone franche non completamente
assoggettate all'autorità comunale) essi conservarono molto della antica semplicità
medievale. Senza l'aiuto di macchine o luci artificiali gli attori inglesi
svilupparono al massimo creatività e fantasia personale prima ancora che
fossero scritte le prime grandi opere elisabettiane
(Shakespeare si fece le ossa esordendo come attore, e così fecero molti altri).
Ricavato in origine dai circhi dell'epoca per le lotte tra orsi o tra cani
oppure dagli "inn", locande economiche di provincia, l'edificio teatrale
consisteva in una costruzione molto semplice in legno o in pietra, spesso circolare
e dotata di un ampio cortile interno chiuso tutt'intorno ma senza tetto. Tale
corte diventò la platea del teatro, mentre i loggioni derivavano dalle
balconate interne della locanda.
Quando la locanda o il circo divennero teatro, poco o nulla
mutò dell'antica costruzione: le rappresentazioni si svolgevano nella corte,
alla luce del sole.
L'attore elisabettiano recitava in mezzo, non davanti alla
gente: infatti il palcoscenico si "addentrava" in una platea che lo
circondava da tre lati (solo la parte posteriore era riservata agli attori
restando a ridosso dell'edificio).
Come nel Medioevo, il pubblico non era semplice spettatore,
ma partecipe del dramma. L'assenza degli "effetti speciali" raffinava
le capacità gestuali, mimiche e verbali dell'attore, che sapeva creare con
maestria luoghi e mondi invisibili (le magie di Prospero ne La Tempesta
alludono metaforicamente proprio a questa magia "evocativa").
Il primo grande anfiteatro aperto al pubblico dell'età
elisabettiana fu quello denominato semplicemente The Theatre, Il teatro,
costruito dall'attore e impresario James Burbage e dal cognato John Brayne nel
quartiere periferico di Shoreditch nel 1576, su un terreno preso in affitto dal
puritano Giles Allen (il quale venti anni più tardi ne pretenderà la restituzione
e la demolizione del teatro). Nello stesso anno la regina Elisabetta aveva infatti
accordato ai Leicester's men di Burbage una licenza, grazie alla quale essi
erano esenti dal vigente divieto alle pubbliche rappresentazioni teatrali. Il
prototipo per il nuovo teatro era stato il Red Lion, fatto costruire da Brayne
nove anni prima, nel 1567, a Mile End, un villaggio ad est di Londra: nelle sue
forme essenziali (uno spazio aperto recintato, con gallerie intorno e il
palcoscenico sopraelevato) la sua impostazione strutturale influenzò
l'architettura teatrale successiva.
Seguirono il Curtain Theatre (1577), il Rose (1587), lo Swan
(1595), il Globe (del 1599, costruito con il legname del Theatre, dopo la
rescissione del contratto di affitto del terreno), il Fortune (1600), e il Red
Bull (1604).
Questi teatri erano altri tre piani, e costruiti anch'essi
intorno ad uno spazio aperto al centro. In genere la pianta era poligonale per
ottenere un effetto circolare (anche se il Red Bull e il primo Fortune erano a
pianta quadrata). I tre livelli di gallerie, rivolti all'interno, circondavano
lo spazio aperto centrale. Il palcoscenico era essenzialmente una piattaforma
circondata dai tre lati dal pubblico, sollevata dal terreno di un metro e mezzo
circa e coperta da un tetto. Sul fondo erano collocate le porte di ingresso e
uscita degli attori e le sedie per i musicisti. La parte superiore dietro al
palcoscenico poteva
essere utilizzata come balcone, come nella famosa scena di
Romeo e Giulietta, oppure come un luogo da cui un attore poteva arringare la
folla, come in Giulio Cesare. In genere costruiti in legno, i primi teatri
erano soggetti agli incendi. Quando nel giugno del 1613 il Globe andò a fuoco,
fu ricostruito con un tetto di tegole. Nel dicembre del 1621, quando il fuoco
distrusse il Fortune, questo fu interamente ricostruito in mattoni. La capienza
degli anfiteatri si aggirava tra i 1500 e i 3000 spettatori.
Un modello differente fu sviluppato con il Blackfriars
Theatre, ricavato da un ex convento, che cominciò a essere utilizzato con
regolarità nel 1599. Il Blackfriars era più piccolo, confrontato con i
precedenti, ed era interamente coperto. Assomigliava più degli altri ad un
moderno teatro. L'illuminazione interna era ottenuta con candele, che venivano
sostituite durante uno o più intermezzi del dramma. Altri piccoli teatri
coperti seguirono, quali il Whitefriars (1608) e il Cockpit (1617). Questi
teatri erano più raccolti, e contenevano circa 500 spettatori, in un ambiente
raccolto. Venivano detti privati, benché fossero anch'essi aperti al pubblico:
essendo molti di essi situati dentro le mura della città, era questo un
ennesimo stratagemma per sfuggire alle rigide disposizioni della legge. Alla
grande O di legno di cui si parla nel prologo dell' Enrico V progressivamente
si sostituiscono le sale dei palazzi barocchi, relegando gli anfiteatri a sede
di spettacoli estivi, o, come nel caso dello Hope, ai combattimenti tra cani e
orsi.
Con la costruzione del Salisbury Court Theatre nel 1629
vicino al luogo del dismesso Whitefriars, il pubblico londinese aveva sei
teatri tra cui scegliere, tre dei quali ampi e a cielo aperto (il Globe, il
Fortune e il Red Bull), e tre più piccoli, privati (il Blackfriars, il Cockpit
e il Salisbury Court).
Intorno al 1580, quando sia il Theatre che il Curtain erano
pieni, con il bel tempo, la capacità totale dei teatri a Londra era di circa
5000 spettatori.
Quando furono costruiti i nuovi edifici e si formarono nuove
compagnie, il numero di posti disponibili aumentò, fino a superare i 10,000
spettatori dopo il 1610.
Mentre il dramma rinascimentale italiano si evolveva verso
una forma di arte elitaria, il teatro elisabettiano diventava un grande
contenitore che affascinava tutte le classi.
Alle rappresentazioni dei teatri pubblici potevano
incontrarsi principi e contadini, uomini, donne e bambini, anche perché il
biglietto era alla portata di tutti: i posti in piedi, al centro del teatro
costavano un penny; gli spettatori più abbienti potevano sedersi nelle gallerie
pagando due penny (oppure, con una somma superiore, potevano recarsi nei teatri
coperti); la frequentazione del teatro era fortemente radicata nei costumi
dell'epoca. Per questo ogni dramma doveva incontrare gusti diversi: quelli del
soldato che voleva vedere guerre e duelli, quelli della donna che cercava amore
e sentimento, quelli dell'avvocato che si interessava di filosofia morale e di
diritto, e così via. Anche il linguaggio teatrale riflette questa esigenza,
arricchendosi dei registri più vari e acquistando grande flessibilità
espressiva.
Le tariffe minime non mutarono nel tempo: nel 1580, i
cittadini più poveri potevano acquistare l'ingresso al Curtain o al Theatre per
un penny; nel 1640 l'ingresso al Globe o al Red Bull costava esattamente la
stessa somma, mentre l'ingresso per i teatri privati ammontava a cinque o sei
volte tanto.
Gli autori
La popolazione in aumento di Londra, la ricchezza crescente
di alcuni dei suoi cittadini e la crescente domanda di intrattenimento,
frustrata dalla soppressione delle forme medioevali di spettacolo, produsse una
letteratura drammaturgica di notevole varietà, qualità ed estensione. Il
repertorio del teatro inglese si formò in un lasso di tempo brevissimo,
seguendo la necessità di dover offrire sempre nuovi spettacoli (le cui repliche
consecutive erano sempre molto limitate) nei nuovi teatri che venivano via via
edificati. Malgrado la maggior parte dei testi scritti per il palcoscenico
elisabettiano siano andati perduti ne rimangono oltre 600, a testimonianza di
un'epoca culturalmente vivace.
Gli uomini (non vi sono donne, per quanto si sappia, che
scrissero per il teatro in quest'epoca) che inventavano questi drammi erano
anzitutto autodidatti di modeste origini, nonostante alcuni di essi avessero
avuto un'istruzione a Oxford o a Cambridge. Alcuni, come William Shakespeare
furono innanzitutto attori, tuttavia la maggior parte di essi non lo erano e a
partire dal 1600 non è noto il nome di alcun autore che abbia calcato le scene
come attore per arrotondare le proprie entrate.
Quella dell'autore teatrale era una professione
remunerativa, ma soltanto per coloro che riuscivano a produrre due pezzi
teatrali all'anno. Dato che i drammaturghi guadagnavano poco dalla vendita
delle loro opere, per vivere dovevano scrivere moltissimo. La maggior parte dei
drammaturghi professionisti guadagnava una media di 25 sterline all'anno, una
cifra notevole per l'epoca.
Erano in genere pagati per stati di avanzamento nel corso
della stesura e se infine il loro testo era accettato potevano inoltre ricevere
i proventi di un giornata di rappresentazione. Essi tuttavia non godevano di
alcun diritto su ciò che scrivevano. Quando il testo era stato venduto ad una
compagnia, questa lo possedeva e l'autore non aveva alcun controllo sulla
scelta degli attori o sulla rappresentazione, né sulle successive revisioni e
pubblicazioni.
John Lyly, il primo drammaturgo elisabettiano a noi noto di
una certa rilevanza, fu essenzialmente un autore di corte, poco interessato a
sviluppare una drammaturgia adatta ad un pubblico popolare. Le sue opere erano
destinate a compagnie di adolescenti che recitavano in teatri privati, e le sue
trame erano il pretesto per raffinate dissertazioni, scritte in un linguaggio
ricercato. Il suo stile, detto eufuismo, incoraggiò la ricerca di un linguaggio
ricco e colto, reso complesso da figure retoriche e da strutture simmetriche o
ricorrenti. Un esempio di influenza sulla produzione successiva è la commedia
scespiriana Pene d'amore perdute.
Non tutti i drammaturghi corrispondono tuttavia alle moderne
immagini di poeti o intellettuali. Christopher Marlowe fu ucciso nel corso di
una rissa in una taverna, Shakespeare si accompagnava a personaggi dei
bassifondi di Londra e arrotondava le proprie entrate prestando denaro, mentre
Ben Jonson uccise un attore in duello. Molti altri furono probabilmente
soldati. Forse in nessuna altra epoca il dramma è più reale e tocca la sensibilità
di tutti: cospirazioni, assassini politici, condanne a morte e violenza sono
all'ordine del giorno, anche perché il Rinascimento è un'epoca di cambiamenti
traumatici in tutta Europa. Per sfuggire alla censura i temi trattati sono
sempre presentati come lontani o estranei, ma non mancano le fonti di
ispirazione: in Italia, e soprattutto a Firenze, i complotti politici di
palazzo e le guerre intestine hanno insanguinato le città, come si apprende
dalle cronache e dalla novellistica italiana tradotta in inglese. Queste e
altre vicende europee offrono ottimi spunti per rappresentare in modo esotico
le tensioni con le quali convivono i cittadini del Regno. La grandezza
dell'epoca contempla così la sua
stessa crisi, che è anche la crisi e il tramonto definitivo
dell'età di mezzo.
Marlowe compose opere su temi molto controversi, rompendo
molti del tabù dell'epoca. Nei suoi drammi, tramite allegorie ben dissimulate
in vicende apparentemente lontane nel tempo (come è il caso dell'Edoardo II),
si affronta l'omosessualità, le guerre intestine per la conquista del potere,
il regicidio.
Tamerlano il Grande (Tamburlaine the Great, 1587) fu il
dramma che lo consacrò all'attenzione del pubblico inglese, messo in scena
dagli Admiral's Men durante la guerra con la spagna e interpretato con successo
da Edward Alleyn. Il trionfo del re barbaro che annienta regni di raffinata
cultura interpretava i sinistri timori del popolo inglese nei confronti di
Filippo II di Spagna e della sua costruenda Invincibile Armata. Questa modalità
narrativa provocatoria, apparentemente innocente ma facilmente decodificabile
dal pubblico, non fu sanzionata né censurata, e fu il modello a cui si
attennero i drammaturghi successivi nell'affrontare tematiche politiche.
Se le caratterizzazioni di Alleyn già avevano reso
necessaria una scrittura teatrale che si affidasse e offrisse spunti al talento
dell'attore, con Shakespeare si assiste a una più completa fusione tra il testo
e la sua esecuzione. Shakespeare, a differenza di Marlowe, scrisse drammi
corali, vere e proprie macchine teatrali in cui ogni personaggio contribuisce
all'incisività dell'insieme. Non si affidò alla perizia del solo Richard
Burbage (che pure fu in grado di veri e propri virtuosismi, innanzitutto
vocali, alle prese con i
personaggi maggiori) ma a quella di un gruppo affiatato. Si
trattò del perfezionamento di un vero e proprio artigianato teatrale, come già
riconobbe la studiosa britannica Muriel Bradbrook nell'intitolare un suo
studio, appunto, Shakespeare l'artigiano, nel quale la scrittura del copione
procedeva di pari passo con il lavoro di palcoscenico, misurando i ruoli sugli
interpreti, le cui doti migliori dovevano essere valorizzate nella costruzione
dei personaggi.
Questa voglia di rinnovamento e di modernità si diffuse
anche a Londra. Neanche i sinistri resoconti di presunti viaggi nel paese di
Niccolò Machiavelli, come il Viaggiatore Sfortunato di Thomas Nashe, parvero
diminuire l'entusiasmo del grande pubblico: l'amoralità del Il Principe e le
voci delle congiure papali contribuirono invece a tenere vivo l'interesse per
l'Italia. Proprio nella capitale vi era cospicua una comunità di immigrati
italiani (molti dei quali drammaturghi e attori): con essi Shakespeare,
Christopher Marlowe, il secondo più grande drammaturgo, e i contemporanei
dovettero probabilmente intrattenere rapporti di amicizia e di frequente
collaborazione professionale.
Il successo di Seneca
Nell'età di Shakespeare non erano in molti a leggere i
drammi in latino e meno ancora in greco, lingua che solo allora si cominciava a
conoscere. Le opere di Seneca, già oggetto di grande interesse per gli umanisti
italiani si diffusero perciò soprattutto attraverso adattamenti italiani che si
discostano non poco dallo spirito dell'originale. Furono inserite nella
rappresentazione quelle scene di violenza e crudeltà che dall'autore erano
invece affidate al racconto di testimoni. Ma fu proprio la versione
italianizzata, dove il male è presentato nella sua interezza, a piacere ai
drammaturghi elisabettiani e ad incontrare
l'interesse del pubblico.
La tragicommedia e il romanzesco
Ferdinando e Miranda, da La tempesta, E.R. Frampton
(British, 1870-1923).Un dramma molto legato all'effetto di scena e che fa presa
sulle emozioni più violente associa talora a sé le passioni d'amore più
morbose: il quadro antico dipinto con mano tanto leggera è restaurato con tinte
tanto forti da cancellare quasi il tocco del suo artista. Non fu forse un caso
che gli stessi drammaturghi rinascimentali lavorassero contemporaneamente ad
opere di tipo "misto", come le "pastorali" o le
"tragicommedie", fusioni di commedia e tragedia, insieme di tragico,
di comico e di romanzesco.
La contaminazione dei generi in voga nel rinascimento fu
accolta anche dagli elisabettiani, le cui tragedie e commedie mantengono però
un maggiore distacco ironico e realistico. La tempesta ha molto della
tragicommedia, ma l'ironia e la comicità dei personaggi, la profondità
dell'esplorazione filosofica le conferiscono più respiro. Lo stesso può dirsi
di molte altre grandi commedie scespiriane ed elisabettiane, in cui il comico
si mescola fatalmente al tragico, come d'altra parte avviene nel cinema
moderno. Le battute del buffone di Re Lear e la follia dello stesso re caduto
in disgrazia per il tradimento delle figlie a cui tutto aveva affettuosamente
donato danno il necessario sollievo comico al pubblico facendo
contemporaneamente risaltare come per l'effetto del chiaroscuro
la tragedia personale di Lear e quella nazionale
dell'Inghilterra dilaniata dalla guerra civile.
Innovazioni rispetto al teatro continentale
L'era elisabettiana tuttavia non si limitò ad adattare i
modelli: rinnovò felicemente il metro col blank verse, o pentametro giambico,
che ricalca abbastanza fedelmente quello latino senechiano, liberando il
dialogo drammatico dall'artificiosità della rima, mentre restò la regolarità
dei cinque piedi del verso. Il blank verse fu introdotto dal Conte di Surrey
quando nel 1540 pubblicò una traduzione dell' Eneide usando proprio questa
forma metrica, ma si dovette aspettare il Gorboduc di Sackville e Norton (1561)
perché esso entrasse nel dramma (e farà poi furore nell'epopea biblica di John
Milton, il Paradiso
perduto, 1667). L'idea di usare un metro simile era venuta
al Surrey proprio dalla traduzione in versi sciolti dell'Eneide del Caro. Il
teatro elisabettiano introdusse anche tutta una serie di tecniche teatrali
d'avanguardia che vennero utilizzate secoli più tardi dal cinema e dalla
televisione. Il palcoscenico inglese della fine del Cinquecento (soprattutto in
Shakespeare) si serve di un frequente e rapido susseguirsi di scene che fanno
passare presto da un luogo all'altro saltando ore, giorni, mesi con un'agilità
quasi pari a quella del cinema moderno. Il blank verse gioca una parte non
indifferente conferendo alla
poesia la spontaneità della conversazione e la spigliatezza
della recitazione.
La Poetica (Aristotele) di Aristotele, che definì le unità
di tempo e di azione (l'unità di luogo è un'aggiunta degli umanisti) nel
dramma, riuscì ad imporsi meglio nel Continente: solo alcuni classicisti di
stampo accademico come Ben Jonson ne seguirono alla lettera i precetti, ma
questi personaggi non hanno la vita di quelli di Shakespeare, rimanendo
(soprattutto nel caso di Jonson) dei "tipi" o delle
"maschere". Fu proprio grazie alla rinuncia delle regole che il
teatro elisabettiano poté sviluppare quelle forme nuove nelle quali
Shakespeare, Beaumont, Fletcher, Marlowe e molti altri trovarono campo fertile
per loro genio.
Modernità e realismo dei personaggi
La rilettura elisabettiana dei classici portò dunque una
ventata di innovazione a storie ormai millenarie, esaltando anzi le qualità
universali dei grandi personaggi storici o leggendari.
Oltre allo stile e alle tecniche, anche le tematiche sociali
sono affrontate in modo moderno, in tutta la loro complessità psicologica
infrangendo consolidati tabù sociali (sesso, morte, cannibalismo, follia). Si
pensi all'amore "proibito" tra Romeo e Giulietta, due ragazzi di
quattordici anni che decidono in pochi giorni di sposarsi e fuggire di casa; si
pensi alla rappresentazione del suicidio degli amanti. Nel Re Lear l'abbandono
del vecchio re da parte delle figlie è il tema dominante. Qualità queste che,
lungi dal "peggiorare" i personaggi, li rendono più simili a noi,
dimostrando come questa epoca ci tocchi
ancora profondamente.
Il teatro nel teatro
Che il teatro elisabettiano sia un "teatro aperto"
non solo nel suo significato più letterale sembra dimostrato anche dal senso di
autoironia degli attori e dei drammaturghi elisabettiani. L'attore ama parlare
al pubblico "tra le righe", magari per prendere in giro il
personaggio stesso che sta recitando, anticipando il distacco ironico del
teatro di Bertolt Brecht. Per questo genere di attore il drammaturgo
elisabettiano inventa il teatro nel
teatro. Lo abbiamo visto nella maschera de La tempesta, ma
l'esempio più emblematico è forse quello dell'Amleto, in cui il giovane erede
al trono di Danimarca ingaggia una troupe di attori itineranti per fare
rappresentare di fronte agli occhi di Claudio, sospettato di avere ucciso suo
padre, un dramma che ne ricostruisce il presunto assassinio. Al finale a
sorpresa Claudio si alza sconvolto e terrorizzato, lasciando la corte. Da qui
il giovane Amleto si convincerà della colpevolezza del patrigno, architettando
la sua uccisione.
Potremmo trovare tanti altri esempi di questo tipo tra gli
elisabettiani, in seguito ripresi con successo con il "cinema nel
cinema", ma anche col "teatro nel cinema".
Che il teatro elisabettiano e Shakespeare in particolare
fossero in anticipo sui tempi pare dimostrato, affermò Anthony Burgess, dal
successo delle trasposizioni cinematografiche e delle drammatizzazioni
televisive, quasi quei drammi fossero stati scritti proprio per noi. È noto il
successo del Romeo e Giulietta di Zeffirelli (1968). Paradossalmente, tale
adattabilità al cinema sembra essere dovuta proprio all'eredità medievale
lasciata dai misteri, dai miracoli e dalle moralità, rappresentazioni di
carattere popolare che si svolgevano prima sul sagrato delle chiese e poi nelle
grandi piazze o nelle fiere. Lì la mancanza di fondali e costumi teatrali
riponeva il successo della rappresentazione nelle
mani dell'attore. La necessità di improvvisazione (spesso
aiutata da un pizzico di umorismo) insieme alla mancanza di architetture
teatrali sofisticate più che mettere l'attore in crisi lo liberarono dalle
eccessive costrizioni della messa in scena mentre alla mancanza di effetti
speciali supplì l'invenzione poetica ricreando nelle sue ricche descrizioni, un
po' come avviene per la radio rispetto alla televisione ciò che
"mancava", arricchendo oltre misura il linguaggio drammatico.
Vita degli attori
Per costruire un personaggio vero, umanamente vicino alla
gente, non era in uso l'abitudine, che diverrà via via prassi nel teatro
romantico e nel teatro borghese, di una precisa fedeltà al periodo storico dal
punto di vista scenografico e costumistico. Impiegare delle attrici era inoltre
proibito dalla legge, e lo fu per tutto il Seicento, anche dopo la dittatura
puritana. I personaggi femminili erano dunque rappresentati da adolescenti
maschi, ma questo non diminuì il successo delle rappresentazioni, provato dai
testimoni dell'epoca e dalle continue proteste contro le compagnie teatrali da
parte degli amministratori puritani della City.
Solo la protezione accordata alle troupe dai prìncipi e dai
reali - se l'attore vestiva la loro livrea non poteva essere infatti arrestato
- poté salvare Shakespeare e i suoi compagni dalle condanne di empietà lanciate
dalle municipalità puritane. I nomi di molte compagnie teatrali derivano
proprio da questa forma di patrocinio: The Admiral's Men e The King's Men erano
appunto "gli uomini dell'ammiraglio" e "gli uomini del
sovrano". Una compagnia che non avesse avuto un potente sponsor alle
spalle poteva andare incontro a serie difficoltà e vedersi cancellati gli
spettacoli da un giorno all'altro.
A questi problemi si aggiungevano, per gli attori, i salari
molto bassi.
Influenze
Mentre il teatro elisabettiano conservò la sua semplicità
strutturale, quello continentale, sull'esempio italiano, diventava dipendente
dagli effetti speciali (si pensi alle macchine da scena e perfino agli automi
inventati da Leonardo).
Da qui al teatro "illusionistico" moderno il passo
fu breve. Vero è che a partire dal Novecento numerose sono state le avanguardie
che hanno introdotto soluzioni nuove (come il Futurismo, il Dadaismo, il
Surrealismo e il Bauhaus), ma raramente il grande pubblico si è sentito
coinvolto da queste iniziative e si può dire che resti ancora molta strada da
percorrere per portare nel teatro la popolarità del cinema e della televisione.
Teatro moderno: la Commedia dell'arte
La commedia dell'arte è nata in Italia nel XVI secolo e
rimasta popolare sino al XVIII secolo. Non si trattava di un genere di
rappresentazione teatrale, bensì di una diversa modalità di produzione degli
spettacoli. Le rappresentazioni non erano basate su testi scritti ma dei
canovacci detti anche scenari, i primi tempi erano tenute all'aria aperta con
una scenografia fatta di pochi oggetti.
Le compagnie erano composte di dieci persone: otto uomini e
due donne.
All'estero era conosciuta come "Commedia
italiana".
La definizione di "arte", che significava
"mestiere", veniva identificata anche con altri nomi: commedia
all'improvviso, commedia a braccio o commedia degli Zanni.
La prima volta che s'incontra la definizione di commedia
dell'arte è nel 1750 nella commedia Il teatro comico di Carlo Goldoni. L'autore
veneziano parla di quegli attori che recitano "le commedie dell'arte"
usando delle maschere e improvvisano le loro parti, riferendosi al
coinvolgimento di attori professionisti (per la prima volta nel Teatro Occidentale
abbiamo compagnie di attori professionisti, non più dunque dilettanti), ed usa
la parola "arte" nell'accezione di professione, mestiere, ovvero
l'insieme di quanti esercitano tale professione. Commedia dell'arte dunque come
"commedia della professione" o "dei professionisti". In
effetti in italiano il termine "arte" aveva due significati: quello
di opera dell'ingegno ma anche quello di mestiere, lavoro, professione (le
Corporazioni delle arti e mestieri).
Il trapasso dalla commedia rinascimentale, umanistica ed
erudita recitata da attori dilettanti a quella dell'arte avviene tra la fine
del XVI e l'inizio del XVII secolo grazie ad una serie di contingenze fortunate
che si susseguono intorno a quegli anni.
La prima è la nascita dei teatri privati, specialmente a
Venezia dove le famiglie nobili iniziano una politica di diffusione,
all'interno della città, di nuovi spazi spettacolari dedicati alla recitazione
di commedie e melodrammi a pagamento.
Per la prima volta le famiglie Tron e Michiel fecero
costruire due "Stanze" per le commedie nella zona di San Cassiano, da
cui i teatri presero il nome, che si trovava oltre Rialto, e per la prima volta
(sicuramente dopo il 1581, com'è testimoniato da Francesco Sansovino, figlio
dell'architetto Jacopo Sansovino), i due teatri aprono anche al pubblico
popolare, da sempre escluso dagli spettacoli eruditi, prodotti per i principi e
le loro corti.
Sulla scia dei teatri di San Cassiano anche altre nobili
famiglie veneziane si cimentarono nella costituzione di questa nuova industria,
cosa che d'altra parte non stupisce visto la predisposizione mercantile ed
imprenditoriale della città lagunare.
Anche i Vendramin e soprattutto la famiglia Grimani (che
all'inizio del Settecento aveva monopolizzato l'intera, o quasi, industria
degli spazi teatrali veneziani) fecero costruire altri teatri per le
rappresentazioni dei comici dell'arte come il Teatro dei SS. Giovanni e Paolo
nel sestiere periferico di Cannaregio, ma anche del San Moisè e del teatro San
Luca costruiti sul Canal Grande, sintomo dell'importanza che i teatri a
pagamento avevano acquistato all'inizio del Seicento non soltanto a Venezia.
La nascita dei teatri dette nuovo impulso all'arte
dell'attore che da giocoliere di strada, saltatore di corda o buffone di corte
che fosse cominciò a esibirsi in trame più complesse; per questo alcuni attori
di strada cominciarono a strutturarsi in compagnie girovaghe: le
"Fraternal Compagnie" dell'inizio si trasformarono in vere e proprie
compagnie che partecipavano ai proventi di questa nuova industria.
La recitazione assunse una nuova struttura e i testi da
recitare si limitavano ad un canovaccio, dove veniva data una narrazione di
massima indicativa di ciò che sarebbe successo sul palco. Su questo tratto
dell'improvvisazione gli storici del teatro si sono spesso divisi: non per
tutti l'improvvisazione era il tratto distintivo delle commedie degli Zanni, ma
su questo era stata creata una mitologia dell'attore "puro" e
completamente padrone dei suoi mezzi, tanto da non aver nessun bisogno di parti
recitate.
Forse il mito dell'improvvisazione proviene invece dalla
scarsità di materiale e testi giunti fino a noi e dalla grande proliferazione
di testimonianze iconografiche, che alle volte non sono che la testimonianza
della diffusione di un'idea del comico dell'arte, piuttosto che una
testimonianza dei testi recitati.
Ad esempio, tutti i riferimenti nei quadri di Watteau niente
hanno a che fare con i veri e propri comici della commedia italiana in Francia,
sono piuttosto un colto inserimento delle maschere all'interno delle scenette
arcadico-galanti dei soggetti dei suoi dipinti. La stessa cosa si deve dire dei
Balli di Sfessania di Jacques Callot, che rappresentano piuttosto le maschere
del carnevale napoletano e i suoi Zanni e Capitani niente hanno a che vedere
con dei veri e propri attori dell'arte.
Una delle prime testimonianze iconografiche riferibili
sicuramente alla commedia dell'arte è la raccolta delle incisioni Fossard.
Divisa in due parti separate, una raffigura i lazzi dei contrasti comici tra
Magnifico e Zanni, l'altra è composta invece da incisioni riferite ad una
rappresentazione teatrale con la comparsa di attori come Pantalone, Arlecchino,
Zanni, il Capitano, Franceschina e gli Innamorati.
Probabilmente si trattava di foglietti pubblicitari di una
compagnia comica per attirare spettatori, le didascalie sono in francese e
questo fa pensare ad una compagnia che alla fine del '500 ha lavorato in
Francia, forse quella di Zan Ganassa chiamata a Parigi nel 1571 dal re Carlo IX
o quella dei Gelosi che nello stesso anno erano in Francia per il battesimo di
Charles-Henry de Clermont.
Ancora all'estero, nel castello di Landshut, in Bassa
Baviera, un intero scalone è stato affrescato dal pittore italiano Alessandro
Scalzi con scene della commedia dell'arte: sempre intorno agli anni '70 del
Cinquecento, abbiamo infatti carteggi molto remoti di richiesta di compagnie
comiche indirizzate dall'Imperatore Massimiliano II al Duca di Mantova,
Guglielmo Gonzaga.
Più di recente, sempre in area germanica, il
pittore-scenografo Ludovico Antonio Burnacini ha riprodotto in acquerelli le
disgrazie di Pulcinella e i travestimenti di Arlecchino per i teatri di Vienna;
lo stesso soggetto dei travestimenti di Arlecchino è stato dipinto su tela, nel
numero di diverse decine di soggetti, dal pittore fiorentino Giovanni Domenico
Ferretti.
Ci sono poi numerose incisioni nei testi che riportano
canovacci di commedie, come quelle arlecchinesche del Teatro di Evaristo
Gherardi, ritratti di comici ed altro ancora oltre una vasta messe di
raffigurazioni non ancora catalogate.
Dalla strada provengono invece le forme embrionali dei
soggetti comici, i cosiddetti duetti fra Magnifico e Zanni. Questi soggetti
erano mutuati dalla grande produzione popolare iniziato anche a livello
"culto" dalla grande scuola siciliana come nel caso dei
Contrasti di Cielo d'Alcamo del XIII secolo. I contrasti
comici facevano parte della tradizione giullaresca ed erano diffusi sia nelle
piazze e nelle fiere che nei palazzi nobili e le corti sin dal '400.
Il passaggio dalla piazza al teatro avviene non senza
l'influenza di certe commedie erudite del primo Cinquecento. È sbagliato dire
che la commedia dell'arte proviene per filiazione dalle commedie in dialetto
veneto e alla villanesca di Ruzante o dalla Mandragola di Niccolò Machiavelli,
anche se i modelli plautini dei servi o del Miles Gloriusus hanno influenzato
non poco la struttura sia della commedia rinascimentale che di quella
dell'arte.
Le commedie di Sforza Oddi (L'Erofilimachia ovvero il duello
d'amore, et d'amicitia, Li morti vivi, e La prigione d'amore) risentono in
maniera palese dei personaggi dell'arte e questa è forse la linea di confine
tra l'erudito e il professionista che comunque non smise di esistere con
l'avvento della commedia dell'arte; molti furono gli autori che continuarono
nella tradizione della commedia cortigiana come Jacopo Cicognini e Giacinto Andrea
Cicognini nel Seicento e Giovan Battista Fagiuoli tra la fine del secolo e l'inizio
del '700.
Ancora nobili dilettanti furono gli autori e gli attori
della Commedia ridicolosa, la versione cortigiana della commedia dell'arte che
sostituì, in parte, quest'ultima dopo la partenza dei maggiori attori italiani
verso nuovi lidi come Parigi, Vienna, la penisola iberica e la Moscovia
mettendo in scena le maschere della commedia improvvisa.
In Italia, questo tipo di spettacolo sostituì tout court la
commedia erudita del quattro-cinquecento, ma non soltanto questa: anche molte
tragedie e pastorali, infatti, furono invase dalla presenza delle maschere.
Arlecchino e gli altri Zanni si trasformavano, in queste
occasioni, in servi del tiranno o pastori arcadici, portando sempre e comunque
il loro spirito irriverente di buffoni di corte o quello dei poveri diavoli
come già avevano fatto i giocolieri nelle sacre rappresentazioni medievali.
Goldoni riporta spesso nelle sue memorie alcuni lazzi, che
nel Settecento ormai si erano consolidati, di zanni che agivano anche in
tragedie sanguinarie come l'esempio di Belisario, dove Arlecchino, servo del
generale bizantino caduto in disgrazia e accecato per gelosia dall'Imperatore
Giustiniano, faceva camminare a colpi di bastone il suo padrone ormai cieco.
Oppure nella tragedia Il Rinaldo, tratto molto liberamente
dai personaggi del poema di Ludovico Ariosto, Arlecchino servo del paladino
protagonista, difende il castello di Montalbano con una padella con cui
respinge l'assalto dei nemici.
Goldoni, di fronte a questi inserimenti comici, inorridisce
e li riporta nelle sue memorie soltanto per dimostrare la decadenza del teatro
italiano all'inizio della sua carriera (intorno al 1730) e sostenendo la
necessità di una riforma che sostituisca la vecchia struttura del teatro
mascherato con un nuovo teatro più vicino al naturale e con personaggi senza
maschere.
Nonostante l'impegno teorico di Goldoni, la commedia
dell'arte è ancora ben viva nel cuore degli spettatori suoi contemporanei tanto
in Italia, dov'era nata, che nelle principali corti europee dov'era diffusa con
nome di commedia italiana e rappresentava, insieme al melodramma, la fortuna
dell'arte dello spettacolo italiano.
Nel 1750 Goldoni scrisse e fece rappresentare Il teatro
comico, la sua commedia-manifesto, che metteva a confronto le due tipologie di
teatro, quello dell'arte e la sua commedia “riformata”, cercando di far
accettare sia alle compagnie che agli spettatori la novità di una commedia
naturalistica che reggesse il passo con le novità del resto d'Europa come
Shakespeare, che nel '700 cominciò ad essere esportato anche fuori dall'Inghilterra
grazie alla bravura di uno dei suoi più eccellenti interpreti di tutti i tempi:
David Garrick, o le ultime commedie di Molière che, pur figlie spurie della
commedia italiana, cominciavano un cammino d'identità propria che si sviluppò
sino a Beaumarchais e alla commedia “rivoluzionaria” di Diderot. Ciò non toglie
che ambedue gli autori, sia Molière che Shakespeare, abbiano sentito forte
l'influsso dei commedianti italiani.
Molière, in particolare, è stato allievo di Tiberio Fiorilli
in arte Scaramuccia, poi diventato Scaramouche, quindi con una filiazione
diretta che si sente in commedie come: Don Giovanni e nel Il borghese
gentiluomo (soltanto per fare gli esempi più famosi) e alcuni personaggi
shakespeariani come: Stefano e Trinculo de La tempesta sono due zanni “all'italiana”
dei quali usano gli stessi lazzi e battute e forse persino Falstaff rievoca la
figura del Capitano vanaglorioso della commedia dell'arte.
Non si sa se Shakespeare vide mai una commedia dell'arte ma
ne subì comunque il fascino, dato che il suo amico-avversario Ben Jonson, altro
grande autore del teatro elisabettiano, mise in scena Il Volpone la migliore
versione inglese del teatro dell'arte all'italiana.
La commedia dell'arte in Francia
La prima notizia che abbiamo di una compagnia comica
italiana organizzata che ha avuto rapporti con la Francia è del 1571, quando i
Gelosi furono chiamati in Francia per i festeggiamenti del battesimo di
Charles-Henry de Clermont.
Contemporaneamente, nell'ottobre dello stesso anno la
Compagnia di Zan Ganassa si trovava alla corte di Carlo IX.
Nel 1572 la Compagnia del Duca di Mantova di Zan Ganassa è
ancora a Parigi. Nel maggio del 1576 i Gelosi vanno in Francia su richiesta del
nuovo re: Enrico III.
Il sovrano che tuttavia sdoganò la commedia dell'arte in
Francia fu Enrico IV di Navarra, e la sua sposa Maria de' Medici.
Già nel dicembre del 1599 Enrico richiede al Duca di Mantova
la Compagnia degli Accesi e l'Arlecchino Tristano Martinelli.
Dopo le nozze con la regina Maria, celebrate anche da Rubens
in una serie di sue famose tele, gli attori italiani cominciarono ad avere una
frequentazione assidua della corte parigina, sia come singoli che come
compagnie.
Nel 1603 i comici italiani prendono residenza al teatro
dell'Hôtel de Bourgogne, gestito fino a quel momento dalla Confraternita della
Passione a cui i comici pagavano l'affitto. Sempre nel 1603 Isabella Andreini
era invece presso la corte a Fontainebleau. Ma fino al 1614, quando la
compagnia di Giovan Battista Andreini e Tristano Martinelli prende in affitto
per due mesi la sala dell'Hôtel de Bougogne, sempre più spesso adibito a teatro
della Commedia Italiana al posto del piccolo teatro del Palais-Royal non si può
ancora parlare di una vera e propria commedia dell'arte francese.
Nel corso del XVII e XVIII secolo l'emigrazione dei comici
in Francia divenne un fatto endemico. Dal teatro degli Italiani nacquero anche
dei grandi attori che illumineranno l'arte del recitare in Francia alla fine
del XVIII secolo. Fra gli esempi più importanti vi sono Madame de Clairon e Le
Kain, e da questo deduciamo l'importanza che la commedia dell'arte ha avuto sul
teatro francese. Che la commedia italiana fosse stata una specie di scuola
teatrale è testimoniata dalla carriera di Molière, che apprese l'arte del
recitare dallo Scaramouche Tiberio Fiorilli: fra le commedie del francese
alcune conservano la struttura e i personaggi (gli zanni del Don Giovanni e del
Borghese gentiluomo). Nacquero a Parigi ed esclusivamente per il pubblico
francese Pierrot, Scaramouche e Polichinelle. Ma fra tutti Arlecchino fin dagli
inizi fu il personaggio preferito dai francesi; alcuni arlecchini come
Biancolelli, Gherardi, Bertinazzi e Visentini lavorarono esclusivamente in
Francia e inventarono nuove trame e canovacci per la Comedie Italienne,
completamente sconosciuti in Italia.
Nacque così un repertorio adattato alla lingua francese e
molti comici italiani si francesizzarono: nacquero delle famiglie di comici
dell'arte francesizzate come i Riccoboni, i Biancolelli , gli Sticotti e i
Veronese. Nel 1697, durante la messinscena della commedia La fausse prude,
ispirata alla figura di Madame de Maintenon amante di Luigi XIV, il Mezzettino
Angelo Costantini fece pesanti allusioni e le buffonerie dello Zanni non furono
gradite dal sovrano che chiuse il Théâtre de la comédie italienne e cacciò i
comici italiani. Questi furono costretti ad emigrare in provincia e nei teatri
della Foire che si tenevano ai confini della capitale. Finalmente, nel 1716,
poiché il popolo, al contrario
della corte, amava e continuò a seguire le commedie degli
Italiani, il Teatro Italiano fu ripristinato anche a Parigi.
Questa volta fu Luigi Riccoboni, in arte Lelio, a guidare la
truppa dei nuovo teatro parigino. Riccoboni era una figura di
attore-intellettuale lontana dall'obsoleta figura dell'attore italiano buffone
di corte, infatti fu tra coloro che all'inizio del secolo voleva riformare il
teatro italiano per portarlo al livello della Francia, dell'Inghilterra e della
Spagna, quasi un Goldoni ante-litteram. Riccoboni era amico di Scipione Maffei
e mise in scena la sua tragedia Merope. Riccoboni fu sensibile anche ad un
recupero della commedia rinascimentale, rimise in scena la Lena di Ludovico
Ariosto riscuotendo però scarso successo di pubblico. In Francia, Riccoboni fu
costretto dal pubblico, abituato agli arlecchini, a ritornare ai vecchi
canovacci ed anche in questo il suo destino pare un'anticipazione di quello di
Carlo Goldoni dopo il 1762.
Neanche la Rivoluzione Francese scalfì il successo della
Commedia dell'Arte infatti anche dopo il 1789 non subì cambiamenti particolari,
i comici continuarono a recitare le loro commedie che influirono ancora sul
teatro francese per anni. Ma nel periodo del Terrore i giacobini proibirono i
mascheramenti carnevaleschi per paura di attentati e spionaggio
controrivoluzionario ed anche le maschere della commedia dell'arte sparirono,
anche se lo spirito rimase nei quadri di Watteau e nell'opera di Marivaux e Beaumarchais.
Il canovaccio
I testi che ci sono giunti in forma di canovacci sono
numerosi e coprono l'arco di due secoli, da quelli di Flaminio Scala del Teatro
delle favole rappresentative, pubblicato nel 1611 ma di qualche decennio
precedente visto che la messinscena de La Pazzia d'Isabella (presente anche in
Flaminio Scala) della Compagnia dei comici Gelosi è testimoniata dalle cronache
dei festeggiamenti del matrimonio tra Ferdinando II de' Medici e Cristina di
Lorena del 1589.
L'ultima opera teatrale scritta e pubblicata sotto forma di
canovaccio fu L'Amore delle tre melarance di Carlo Gozzi del 1761. Il Gozzi fu
acerrimo nemico della riforma di Goldoni e sostenitore della Commedia dell'Arte
secentesca (scrisse, fra le altre la commedia Turandot che tanta fortuna avrà
nel melodramma del secolo successivo), ma lasciò L'Amore delle tre melarance
stampato sotto forma di canovaccio, un evidente omaggio agi attori-drammaturghi
dell'Età dell'oro della Commedia dell'Arte che lo avevano preceduto.
Spazi teatrali e recitazione
Le scenografie erano molto semplici, con una piazza al
centro del palcoscenico e due quinte praticabili sullo stile di quelle delle
prime commedie del '500: alla metà del secolo vennero costruiti dei veri e
propri spazi teatrali dedicati a questo genere teatrale.
Sorsero dunque, nelle principali città italiane, i Teatri
degli Zanni dei quali sono rimasti alcuni esempi non più funzionanti come il
Teatrino della Baldracca a Firenze, il Teatro di Porta Tosa a Milano e l'ancora
funzionante San Carlino a Napoli.
A Parigi, che ospitò i comici dell'arte fin dal primo '600,
le compagnie si esibivano all'Hotel de Bourgogne e in seguito nei Teatri della
Foire.
Moderna commedia
La commedia dell'arte è un fenomeno a sé stante nella storia
del teatro, un evento irripetibile e chi tenta di trovare delle linee di
continuità fra l'arte dell'attore del '500-'700 e quello moderno non ha una
giusta prospettiva storica.
Anche se sono stati fatti, nel corso dei secoli, esempi di
recitazione improvvisata o a braccio che potrebbero ricordare i lazzi dello
Zanni seicentesco, nessuno degli esempi che sono stati fatti ha a che vedere
con la reale recitazione dell'attore professionista del sei-settecento. Eppure
sono stati fatti esempi illustri come: Petrolini, Charlie Chaplin, Totò ed
Eduardo De Filippo. Altra questione è la ri-messa in scena delle commedie: non
avendo un vero e proprio repertorio di riferimento, coloro che tentano di
mettere oggi in
scena commedie dell'arte devono affidarsi a delle
ricostruzioni filologicamente insufficienti dei canovacci che ci sono rimasti,
oppure come certi registi del Novecento mettere in scena commedie di Carlo
Goldoni o Molière, ma ambedue i commediografi poco avevano a che spartire con i
veri testi della commedia dell'arte.
La fortuna della commedia dell'arte riprende nell'ambito
delle avanguardie teatrali del Novecento come mito di riferimento di una
"Età dell'Oro" dell'attore.
A partire dai registi russi Mejerhold e Vachtanhgov passando
attraverso il francese Jacques Copeau e l'austriaco Max Reinhardt si arriva
alla grande intuizione di Giorgio Strehler che nel 1947 ne fece una bandiera
della rinascita della cultura italiana dopo la guerra con il celebre
allestimento di Arlecchino Servitore di due Padroni.
Altro grande riscopritore della comedia dell'arte fu Giovanni
Poli, regista fondatore della compagnia e scuola di teatro a l'Avogaria di
Venezia, recuperò e riscrisse patiture teatrali del '500, mettendo in scena tra
i tanti spettacoli, soprattutto la celebre "Commedia degli Zanni"
rappresentata poi in tutto il mondo dalla stessa compagnia e per la quale Poli
ottenne il prestigioso Premio per la migliore regia al Festival del Thèatre des
Nations a Parigi nel 1960.
Negli anni Sessanta Dario Fo, grazie al sodalizio con Franca
Rame, figlia di una famiglia di commedianti itineranti che possedevano ancora
vecchi canovacci, ebbe la fortuna di poter studiare tali documenti,
testimonianze di un'antica cultura ormai estinta, di verificare la loro
efficienza e di adattarli alle nuove esigenze, creando una serie di commedie e
di monologhi tra cui Mistero buffo.
Negli anni Ottanta, a seguito del grande successo della
reinvenzione del carnevale di Venezia da parte di Maurizio Scaparro la commedia
dell'arte italiana ritrovò successo in tutto il mondo con la Famiglia Carrara (dieci
generazioni di teatro) e il Tag di Venezia diretto da Carlo Boso. Grazie alla
parallela attività di formatore, diverse compagnie di commedia dell'arte si
formano in base agli insegnamenti di Carlo Boso. Tra queste vale forse la pena
di ricordare, in Italia, l'Associazione Luoghi dell'Arte di Roma, la Compagnia
Pantakin da Venezia e il TeatroVivo di Cotignola.
La commedia dell'arte ha in qualche modo dato vita alla
moderna commedia cinematografica Slapstick.
Ma è in strada che il mestiere di "Dar Commedia",
ritrova la sua originaria forza "prototeatrale", assumendo caratteri
assolutamente innovativi, attraverso quel processo di unificazione di circo
clownesco e teatro, che va sotto il nome di "Arte di Strada".
Le maschere
L'artigianato della maschera da commedia riprende vita nel
'900 a ridosso dell'esperienza strehleriana. Amleto Sartori, scultore,
re-inventa la tecnica di costruzione della maschera in cuoio su stampo di
legno. La maschera, che insieme al costume caratterizza fortemente lo stile di
recitazione, viene spesso ad essere sinonimo stesso di personaggio. Le
'maschere' più celebri della commedia dell'arte sono:
Arlecchino
Brighella
Colombina
Balanzone
Pulcinella
Pantalone
Giangurgolo
Il Capitano è il militare spaccone e buffonesco, simile al
"Miles Gloriosus" plautino fra i Capitani più celebri ci sono Capitan
Spaventa, Capitan Matamoros, Capitan Rodomonte e Capitan Cardone.
Zanni è la più
antica maschera del servo, da cui si sono originati nel tempo molti altri
personaggi. Nel Seicento il suo ruolo si sdoppiò nel "primo Zanni",
furbo e maneggione, e il "secondo Zanni", spesso più sciocco e
pasticcione, caratterizzato dai lazzi e dalle acrobazie, uno degli Zanni più
celebri fu Alberto Naselli detto Zan Ganassa capocomico della prima compagnia
del Duca di Mantova.
Arlecchino, la
maschera più nota in assoluto, è il servo imbroglione, perennemente affamato,
per lui Carlo Goldoni scrisse Il servitore di due padroni.
Balanzone,
conosciuto anche come il Dottore, è un personaggio serioso e presuntuoso.
Beltrame, è una
maschera di origine milanese nata nel Cinquecento.
Brighella, spesso
nei panni di "primo Zanni", è il servo furbo, in contrapposizione con
il "secondo Zanni", Arlecchino.
Cassandro è una
maschera di "vecchio", come Pantalone, e ha caratteristiche simili a
quest'ultimo.
Colombina è la
servetta. Fa spesso coppia con Arlecchino, e le sue doti sono la malizia e una
certa furbizia e senso pratico.
Coviello, Cetrullo
Cetrulli, Ciavala, Gazzo o Gardocchia, ha avuto ruoli diversi, dal servo
sciocco al padre di famiglia.
Francatrippa,
secondo Zanni simile ad Arlecchino.
Frittellino, primo
Zanni di origine ferrarese.
Galbusera, maschera
monzese di fine Ottocento.
Gioppino,
raffigurato con tre gozzi, maschera di Bergamo.
Gianduja, maschera
popolare torinese di origini astigiane.
Giangurgolo,
maschera calabrese ha una maschera con un naso enorme, cosa che in parte lo
accomuna agli Zanni.
Meneghino è la
maschera 'simbolo' della città di Milano, la sua fama è dovuta in gran parte
alle commedie di Carlo Maria Maggi.
Mezzettino, Zanni
furbo e imbroglione.
Pantalone, o il
Magnifico, è una famosissima maschera veneziana. Anziano mercante, entra spesso
in competizione con i giovani nel tentativo di conquistare qualche giovane
donna.
Peppe Nappa,
maschera tipica Siciliana. Mangione e scaltro riesce sempre a tirarsi fuori da
ogni impiccio.
Pierrot, o
Pedrolino, nasce come Zanni modificandosi poi nel famoso personaggio romantico
grazie al mimo Jean-Gaspard Debureau.
Pulcinella, in
versione francese Polichinelle e in quella inglese Punch, è la notissima
maschera napoletana. Servo spesso malinconico, mescola le caratteristiche del
servo sciocco con una buona dose di saggezza popolare.
Rosaura, figlia
adorata di Pantalone, abita a Venezia in un palazzo bellissimo. La ragazza è
molto chiacchierona, abbastanza irascibile, gelosa, vanitosa ed innamorata di
Florindo. Il suo amore, però, é contrastato dal padre che vede in Florindo solo
un nobile cavaliere senza denari. Spesso Rosaura, con la complicità di
Colombina, invia di nascosto, all'amato, le sue lettere d'amore.
Scaramuccia
(Scaramouche) è una maschera italiana, ma che riscosse un grande successo in
Francia, ed entra nel novero dei Capitani.
Scapino, maschera
resa popolare da Molière, compare quasi sempre con uno strumento musicale.
Stenterello,
maschera fiorentina che ebbe molta fortuna in Toscana tra la fine del '700 e
tutto il secolo successivo.
Tartaglia, mezzo
cieco e balbuziente, entra tra il numero dei "vecchi" spesso nel
ruolo del notaio.
Truffaldino, secondo
Zanni settecentesco.
Gli attori e le Compagnie
Il primo esempio di una compagnia di comici professionisti
fu quella che nel 1545 stese un contratto davanti ad un notaio di Padova, la
cosiddetta Compagnia di Ser Maphio; questa era una fraternal compagnia formata
da:
Maffeo del Re [Ser
Maphio], detto Zanin
Vincenzo da Venezia
Francesco de la Lira
Geronimo da San Luca
Giandomenico Rizzo o
detto Rizzo
Giovanni da Treviso
Tofano de Bastian
Francesco Moschini.
Come si vede nessuna donna faceva parte della compagnia
poiché salirono alla ribalta soltanto con le grandi compagnie della fine del
XVI secolo. Di questa compagnia non ci è dato di sapere molto altro ma rimane
la prima testimonianza conosciuta di attori che si riuniscono dandosi un
regolamento e un riconoscimento anche legale.
In seguito anche i maggiorenti delle città e i nobili
cominciarono a chiamare queste compagnie per sollazzare le corti. Con l'andare
del tempo, esse divennero gruppi di professionisti alle dipendenze dei vari
principi e duchi italiani. In particolare la corte dei Gonzaga assoldò, fin
dalla metà del '500, la Compagnia comica di Zan Ganassa che divenne quella
ufficiale della corte di Mantova.
La compagnia più famosa, fra quelle antiche, fu la Compagnia
dei Gelosi. Già strutturata alla fine del Cinquecento tanto da diventare il
modello della compagnia dei 50 canovacci dell'arte di Flaminio Scala.
Questa era formata da due vecchi: Pantalone e Graziano
(antico nome del Dottore bolognese), due coppie d'innamorati, due zanni:
Pedrolino (primo zanni) e Arlecchino (secondo zanni); infine c'erano le
cosiddette parti mobili cioè che non sempre erano indispensabili alla trama
come: il Capitan Spavento, la Servetta (che poi assumerà il nome di Colombina)
e la ruffiana.
Nei Gelosi si distinsero il capocomico Francesco Andreini in
arte Capitan Spaventa dalla Valle Inferna, sua moglie Isabella, Ludovico de'
Bianchi come il Dottore, l'innamorata Vittoria Piissimi e il Pantalone Giulio
Pasquati. Certo gli attori comici come tutti i professionisti cambiavano spesso
compagnia a seconda del salario o del principe che li rappresentava. Un'altra
compagnia molto famosa della fine del '500 fu quella di Diana Ponti dove lavorò
anche Alberto Naselli in arte Zan Ganassa che fu chiamata Compagnia dei
Desiosi.
La Compagnia degli Accesi, una delle prime compagnie al
servizio del Duca di Mantova, annoverava tra i suoi componenti Piermaria
Cecchini in arte Frittellino, primo zanni, uno degli attori più prolifici della
commedia dell'arte. Anche la moglie Orsola Cecchini, innamorata con il nome di
Flaminia era negli Accesi, insieme a Francesco Gabrielli (Scappino), Giacomo
Braga (Pantalone), Girolamo Garavini (Capitan Rinoceronte), Jacopo Antonio
Fidenzi (Cinzio) e per un certo periodo anche l'Arlecchino Tristano Martinelli
lavorò in questa compagnia.
Nel 1612 i Medici, attraverso Don Giovanni de' Medici
(1567-1621) figlio naturale del Granduca Cosimo I e Leonora degli Albizi,
ebbero al loro servizio una compagnia dell'Arte, la Compagnia dei Confidenti,
che tra gli altri annoverava:
Flaminio Scala
(Flavio)
Domenico Bruni
(Fulvio)
Nicolò Barbieri
(Beltrame)
Salomè Antonazzoni
(Valeria)
Marc'Antonio
Romagnesi (Pantalone)
Ottavio Onorati
(Mezzettino)
Ancora al servizio del Duca di Mantova era la Compagnia dei
Fedeli dove spiccava il nome di Giovan Battista Andreini figlio di Francesco e
Isabella dei comici Gelosi. Ed anche:
Virginia Ramponi
(Florinda)
Girolamo Caraffa
(Gonnella)
Federico Ricci
(Pantalone)
Silvio Fiorillo
(Capitan Matamoros-Pulcinella)
Giovan Battista
Fiorillo (Trappolino-Scaramuccia)
Virginia Rotari
(Lidia)
Infine va citata fra le prime compagnie dell'arte la
Compagnia degli Uniti con:
Giovanni Pellesini
(Pedrolino)
Valentino Cortisei (Capitan Cardone)
Giovan Paolo Fabri
(Flaminio)
Battista da Treviso
(Franceschina)
Girolamo Salimbeni
(Piombino)
Tristano Martinelli
(Arlecchino).
Altri attori divennero famosi in seguito da quelli italiani
come Pietro Cotta e Luigi Riccoboni ai comici passati in Francia fra i quali
spiccarono:
Dominique
Biancolelli (Arlecchino)
Pierre François
Biancolelli (Trivelino e poi Arlecchino)
Carlo Cantù, in arte
Buffetto
Jacoma Antonia
Camilla Veronese (Camilla)
Anne-Marie Veronese
(Corallina)
Evaristo Gherardi
(Arlecchino)
Tiberio Fiorilli in
arte Scaramouche
Angelo Costantini
(Mezzettino)
Tommaso Visentini
(Arlecchino)
Michelangelo
Fracanzani (Polichinelle)
Carlin Bertinazzi
(Arlecchino)
Carlo Veronese
(Pantalone)
Giuseppe Geratoni
(Pierrot)
Domenico Locatelli
(Trivelin)
Fabio Sticotti
(Pantalone)
Per altri attori di seconda generazione è difficile poterli
inserire nella drammaturgia italiana tanto si francesizzarono.
Fra i comici dell'arte che lavorarono con il giovane Carlo
Goldoni nella compagnia Medebach si devono citare almeno:
Cesare Darbes
(Pantalone)
Antonio Sacco
(Truffaldino)
Attanasio Zannoni
(Brighella)
il capocomico
Girolamo Medebach e la servetta
Zanetta Casanova
madre del più celebre Giacomo.
Teatro moderno: Comédie larmoyante
La comédie larmoyante (commedia lacrimosa o, più raramente,
commedia lagrimosa), fu un genere teatrale nato in Francia nel XVIII secolo e
che ebbe grande fortuna sia in terra natìa che in Italia.
Il nuovo genere sorse in un periodo nel quale il teatro e la
drammaturgia erano fortemente divise in due direzioni: da una parte la
tragedia, che narrava storie e vicissitudini di personaggi di alto rango alle
prese con drammi umani; dall'altra la commedia, che portava in scena
protagonisti dei ceti bassi alle prese con le beghe del quotidiano e visti
sotto un'ottica ridicola e ridanciana.
Se la prima era considerata espressione del teatro
"alto", la seconda rappresentava l'intrattenimento ludico e
scherzoso.
Dopo la rivoluzione francese, tuttavia, la borghesia acquisì
sempre maggiore peso nella vita sociale e, di conseguenza e di riflesso, anche
nella produzione artistica di quegli autori che si accorsero della mancanza
dell'espressione dei modi di vita e dei pensieri del nuovo ceto sociale. Sorse
così, ad opera soprattutto di Pierre-Claude Nivelle de La Chaussée, il nuovo
genere accostabile alla tragicommedia per la commistione di comico e tragico
che vi avveniva all'interno.
L'intento della comédie larmoyante era di indurre il pianto
tramite la proposizione di scene patetiche al termine delle quali i personaggi,
sui quali incombeva inizialmente una imminente tragedia, arrivavano al lieto
fine trasmettendo allo spettatore una sorta di insegnamento morale dedotto dal
comportamento delle dramatis personae.
In Italia, i maggiori drammaturghi del genere lacrimevole
furono, fra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del XIX, Pietro Chiari,
Camillo Federici, Giovanni De Gamerra, Giovanni Greppi, Francesco Antonio
Avelloni e Alberto Nota.
Anticipò il dramma borghese e, dunque, un maggior realismo
in scena.
Teatro moderno: Dramma borghese
Il dramma borghese è un componimento teatrale che
rappresenta personaggi della piccola e media borghesia o dei ceti cittadini
agiati ma non appartenenti alla nobiltà e ne descrive la vita quotidiana, le
disavventure, le aspirazioni. Si è sviluppato in Europa tra il XVIII e il XIX
secolo.
La drammatizzazione della vita del ceto borghese permise la
descrizione di interni familiari, di tragedie domestiche, di vicissitudini di
personaggi non più "grandiosi" o "eroici" come in passato,
ma più vicini al nuovo ceto rampante: i sentimenti nobili non erano più
appannaggio di regine o imperatori ma divenivano elementi caratteristici del
nuovo stile.
È proprio con il teatro borghese che nasce il
"dramma" propriamente detto: il termine, oltre ad indicare qualsiasi
componimento teatrale in generale, si differenzia dai precedenti generi
teatrali come, ad esempio, la tragedia o la commedia per la messa in scena di
vicissitudini private. La borghesia veniva finalmente rappresentata in
palcoscenico.
L'antesignano nel genere è considerato il dramma anonimo
Arden of Faversham, da alcuni attribuito a William Shakespeare, che sposta
l'elemento tragico all'ambientazione domestica. Anche The Merchant of London di
George Lillo, rappresentato nel 1731 a Londra, ambienta l'azione scenica nella
sfera privata del borghese. Uno dei precursori del genere è anche l'italiano
Carlo Goldoni, che mise in scena vizi e virtù della borghesia e dei nobili
come, ad esempio, ne La locandiera del 1753.
Il nuovo soggetto della drammaturgia non fu, però, sempre
felice della rappresentazione che di esso offrivano i drammaturghi: non di rado
i borghesi disertavano le sale teatrali vedendosi derisi e sminuiti nei
comportamenti.
Uno degli esponenti di spicco dal punto di vista teorico e
della realizzazione pratica fu Gotthold Ephraim Lessing, che si fece promotore,
con la sua opera, della rappresentazione in scena della coscienza borghese.
Il Dramma borghese fu un'evoluzione del teatro del tardo
'700, diffusosi dalla Francia a tutto il resto d'Europa. In particolare con
l'avvento di drammaturghi non più legati alle antiche forme della Comèdie
Français, erede a sua volta dell'unione tra le compagnie francesi e la Commedia
dell'arte all'italiana ormai dopo il 1789 non più legata al suo corrispondente
italiano che era quasi scomparso dopo la riforma goldoniana.
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