Nel secondo Ottocento si accentua il
protagonismo femminile nella
letteratura. Per accorgersene, basta scorrere i titoli dei romanzi che prendono
il nome delle loro eroine. Si rovesciano i ruoli tra i personaggi: prima era l'uomo soggetto attivo della
passione amorosa, ora è la donna. La donna assume il compito di rivelare il
lato in ombra, il represso, che la società sacrifica all'ordine e
all'efficienza borghese. In questo senso la donna è figura della crisi
di passaggio dal Romanticismo al Verismo. Non a caso Flaubert dirà: «Madame
Bovary sono io».
Un terreno di verifica dei conflitti interni alla nuova società è il
matrimonio borghese. Di qui la tematica dell'adulterio che ispira la storia
delle eroine emblematiche della letteratura europea, da Madame Bovary dì Flaubert, ad Anna Karénina di Tolstoj.
Esse cercano un'alternativa allo squallore della vita coniugale nella
grande passione romantica, ma sono destinate alla sconfitta: l'amore, non più
idealizzato dagli scrittori, ma messo realisticamente a confronto con la
meschinità dei costumi e con le dure leggi della vita, rivela la sua fragilità
e il suo velleitarismo. Le due eroine non riescono a modificare rapporti di
forza da secoli sfavorevoli alle donne, ma la loro morte non toglie valore
all’attacco all’istituzione familiare e alla morale sessuale dominante,
implicito nella loro tragica testimonianza. Il disagio della vita coniugale e
insieme l’intangibilità del matrimonio alimentano, nella narrativa e nel teatro
borghese come nella letteratura
d'appendice, il tema diffusissimo del triangolo amoroso, che nelle varie
soluzioni, per lo più a lieto fine, concilia impulso alla trasgressione e
riconferma dei ruoli e dei valori tradizionali.
Il Verismo dà un
contributo essenziale al mutamento della raffigurazione della femminilità e
dell'erotismo, accentuando la scissione tra spiritualità romantica e fisicità
del desiderio. L'amore vi è rappresentato come spinta dei sensi,
istinto cieco ed elementare fino alla violenza e all'omicidio. Gli scrittori
concentrano l'attenzione su temi nuovi, come lo studio della patologia amorosa,
o su aspetti fino ad allora rimossi o sublimati, come lo stupro.
I movimenti femministi e le donne nella letteratura dell’800
Nella
seconda metà del XIX secolo la donna comincia a essere inserita nel mondo del
lavoro e la questione femminile si impone sempre più all'attenzione
dell'opinione pubblica. Prolifera una stampa femminile collegata al sorgere di
un gran numero di associazioni, che traducono la rivendicazione
dell'uguaglianza dei sessi in obiettivi concreti di lotta politica.
All'avanguardia
è il movimento delle suffragette inglesi, che proclama il diritto delle donne
al voto.
L'ostacolo contro cui urta il movimento delle donne
non è solo politico e giuridico. Esso investe le strutture culturali e
psicologiche del sistema di potere patriarcale,
mettendo in crisi l'immagine tradizionale della donna sottomessa e inferiore
all'uomo, che fonda le certezze dell'identità maschile.
Il
femminismo ottocentesco non sottopone
a critica la condizione maschile,
ma mira ad elevare la donna al livello dell'uomo. Se in epoca romantica le
prime femministe si erano inserite nei movimenti democratici nazionali (in
Italia Clara Maffei anima a Milano un Circolo di patrioti e Cristina di
Belgioioso partecipa alle insurrezioni del 1848-49), successivamente la lotta
delle donne si concentra sulla parificazione dei diritti. La stampa femminista
combatte ovunque contro la condizione di inferiorità giuridica della donna, per
l'accesso all'istruzione superiore, per la parità salariale, contro
l'asservimento sessuale della donna e il suo stato di dipendenza nel
matrimonio. Alle associazioni di stampo liberale si affiancano quelle
socialiste e anarchiche e la questione femminile si collega alla più ampia
questione sociale, mentre si tenta di creare un collegamento internazionale dei
diversi movimenti femministi. Questo movimento, tuttavia, proponendo un nuovo
modello di donna, distrugge riferimenti rassicuranti e rafforza negli uomini un
senso di angoscia di fronte agli sviluppi della società moderna. Il mondo
maschile appare segnato dalla sensazione di una perdita di potere, tanto nel
mondo degli affari dove entrano in crisi l'individualismo e la libera
concorrenza e si affermano le società anonime per azioni, quanto in quello
familiare e sessuale. Perciò esso risponde aggressivamente.
La cultura positivista ribadisce
"scientificamente" l'inferiorità naturale della donna insieme a quella delle razze non europee. Fuori della lotta per la
vita, che è alla base del progresso, alla donna, debole, priva di virtù
intellettuali e morali, è affidato il ruolo di angelo tutelare della famiglia.
La castità, la fragilità, la passività, l'ubbidienza, il sacrificio sono le
virtù su cui si modella l'immagine della donna offerta al consumo collettivo.
Nasce il mito della bellezza esangue e languente. Alle femministe che
protestano aggressivamente si ribatte proponendo il culto della malattia, la
donna-morente, la donna-cadavere, simbolo di abnegazione e di sacrificio di sé
all'uomo amato.
Se i movimenti femministi mettono in crisi il modello di femminilità imposto
dalla cultura maschile, l'uomo
cerca nelle fantasie di appropriazione della donna di soddisfare il bisogno di potere
frustrato dalla società, poiché vede
nella ribellione della donna un
attacco all'integrità del proprio io. L'immagine della donna si sdoppia:
alla figura verginale si affianca quella demoniaca. La sessualità della donna fa paura: concepita in alternativa
all'istinto materno, essa è avvertita come istinto di sopraffazione sull'altro,
come tendenza regressiva e castrante.
Emerge in primo piano, da Baudelaire in poi, la figura della prostituta
(la Nana di
Manet, 1877, e di Zola, 1880), la donna dalla sessualità aggressiva e fatale (la Lupa di Verga, 1880, la Lulù
dello scrittore tedesco Wedekind, 1904), la donna-vampiro di Strindberg,
rappresentata anche in un dipinto di Edvard Munch (Vampiro, 1895-1902),
senza parlare delle nuove Giuditte e Salomé, sensuali e bramose vergini
cacciatrici di teste. Anche nel d'Annunzio del Trionfo della morte
(1894) la donna-amante, opposta alla donna-madre, diventa la Nemica e il protagonista se
ne libera con la morte.
Lo scienziato positivista Cesare Lombroso teorizza addirittura una
tendenza naturale della donna alla prostituzione e alla criminalità. L'eros
femminile è rappresentato in forme sottilmente perverse. Compaiono gli amori
lesbici. La pericolosità insidiosa dell'erotismo femminile è espressa da un
quadro di Klimt dal titolo significativo. Serpi d'acqua (o Le amiche),
del 1901. La figura della sirena è infatti l'incarnazione della donna nuova e
affascina l'immaginario artistico del tardo Ottocento, da Baudelaire a Dante
Gabriel Rossetti a Gustave Moreau. Nel quadro di Moreau, II poeta e la
sirena (1895), l'animalità docile e
avvolgente della creatura acquatica è associata a uno spirito aggressivo e
predatorio, che riduce l'uomo a uno stato di passività e di morte. Lo spirito
di indipendenza e di iniziativa della donna è percepito come tendenza alla
mascolinità e tanto temuto che la sua conseguenza, la femminilizzazione
dell'uomo, ossessiona l'immaginazione maschile.
Una vera guerra dei sessi si scatena alle soglie del Novecento e
durerà fino alla prima guerra mondiale.
D’Annunzio e la donna fatale
D’Annunzio diffonde in Italia la tipologia femminile
che caratterizza la letteratura e l'arte decadente europea, dalla stilizzazione preraffaellita della donna languida e angelica alla
sensualità raffinata e sottilmente perversa, che ispira l'immagine liberty
della donna fatale.
I prototipi dell'angelo e del
demone, presenti nella cultura antifemminista di fine secolo, compaiono in D'Annunzio
estremizzati da un gusto dell'eccesso, che li rende facilmente fruibili dalla
letteratura di consumo. Si pensi allo scandalo suscitato dalla collana di
sonetti sulle adultere, nell' Intermezzo, in cui d'Annunzio aggiorna un *topos
letterario con scene spinte di sesso, che fecero gridare alla pornografia. I
personaggi femminili dei romanzi dannunziani contribuirono inoltre alla
diffusione dello stereotipo della donna fatale, che trionfa nel romanzo
d'appendice e nel cinema del primo decennio del Novecento.
L'eros, in quanto manifestazione di piacere e di vitalità, ha comunque
un'importanza centrale nella vita dell'esteta e del superuomo dannunziani. Nell'istinto sessuale si estrinseca la tendenza del personaggio maschile all'autoaffermazione e al dominio.
Ciò avviene fin da Terra vergine, in cui l'amore è una forza puramente
animale che sfiora la violenza sadica. Ma alla sensualità gioiosa ed esuberante
del periodo giovanile subentra nella
fase romana un eros più ambiguo,
bisognoso di eccitazioni sottili. La donna assume una natura misteriosa e
inafferrabile sotto le vesti di una raffinata sensualità, mentre la
«corruzione» dell'esteta investe la sfera erotica con il gusto della
profanazione e dell'ambivalenza. La
donna, nel Piacere, si sdoppia in Elena Muti (la seduzione carnale) e Maria Ferres (la purezza e la spiritualità) e le due
immagini si sovrappongono nell'amplesso di Andrea Sperelli, esaltandone
l'eccitazione della conquista. Quello di Andrea Sperelli è già un esempio
dell'eros vissuto come eccesso e crudeltà,che prelude alla lussuria aggressiva
del superuomo.
Lo studioso Mario Praz ha documentato ampiamente il sadismo dannunziano
e la sua derivazione dal gusto decadente. Questo tema è collegato alla figura della donna fatale, della
Nemica, che fa la prima comparsa nel Trionfo della morte. Ippolita
rappresenta per Giorgio Aurispa l'«ossessione carnale», una fonte inesausta di
desiderio, che non arriva mai al possesso definitivo. È la percezione, da parte
del protagonista, dell'alterità della donna a conferire a Ippolita una forza
temibile e ostile, che suscita l'odio di Giorgio il quale avverte
angosciosamente la propria debolezza e la propria subordinazione. Di qui le
fantasie sadiche e omicide fino all'uccisione della donna, trascinata nel
baratro dall'amante suicida.
L'incapacità del protagonista di realizzare
l'ideale del superuomo si rovescia in una specie di vampirismo della donna: la Nemica diventa un alibi.
Anche nelle Vergini delle rocce Claudio Cantelmo è destinato a
confrontarsi con la donna fatale, portatrice di morte. Alla ricerca di una
compagna degna di generare il superuomo egli sceglie infine Violante, una
nobile discendente da un'antica famiglia tarata dalla malattia e alla follia,
che si uccide aspirando profumi. La
donna non è fonte di vita, ma
esprime il fascino che anche sul
superuomo esercitano i fantasmi di distruzione.
Le forze oscure e negative, che frenano l'artista, sono ancora incarnate
in una donna nel Fuoco, la quale con il suo amore geloso e nevrotico
ostacola il grandioso progetto creativo di Stelio Effrena. Foscarina, ispirata
alla grande attrice Eleonora Duse, incarna la bellezza impura e decadente,
l'attrazione dannunziana per la corruzione e il disfacimento. Ritorna anche in
questo romanzo la duplicazione dell'immagine femminile: Donatella Arvale, verso
cui si protende il desiderio di Stelio, rappresenta la giovinezza e la vita,
contro la vecchiaia di Foscarina, impietosamente esplorata. Egli resta tuttavia
prigioniero di quest'ultima in un ambiguo legame che ne distrugge la vitalità,
finché la donna non accetta di negarsi diventando un mero strumento al servizio
dell'arte del superuomo.
Anche in Forse che sì forse che no Paolo Tarsis ama Isabella
Inghirami, donna sensuale, nevrotica e avviata alla follia che impedisce
all'eroe la propria autorealizzazione, tanto da indurlo a cercare la morte. Ma
questi riesce a sottrarsi all'influsso nefasto, realizzando nel volo aereo le
proprie aspirazioni eroiche. La libidine, nel superuomo, è sempre connessa alla
volontà di potenza e trova nella donna un ostacolo e un'alterità insuperabili.
D'Annunzio riprende dal Decadentismo europeo, accentuandolo, il motivo della
superiorità femminile: la donna è forte, aggressiva, ha più volontà, mentre il
maschio vacilla (come Mila nella Figlia di lorio). Né questa immagine
trova un antidoto adeguato nella figura della madre, della donna tutta dolcezza
e bontà, purezza e innocenza presente nel Poema paradisiaco e, in parte, nel Piacere.
La donna in realtà, non assume mai in d'Annunzio una propria autonomia,
ma disegna sulla scena del sesso il
conflitto, tutto interno all'io maschile, tra volontà di affermazione e
senso di impotenza: l'eroe, debole, oggettiva nella donna la sua forza perduta
come una potenza a lui estranea e minacciosa che prende le vesti della Nemica.
La donna-angelo, la donna-volpe, la donna-mosca
La poesia
di Montale si rivolge spesso a un “tu” femminile. Inoltre le Occasioni sono state definite un
“canzoniere d’amore”. Tuttavia l’amore, nelle sue implicazioni sentimentali ed
emotive, è poco presente nell’opera montaliana.
L’amore in
Montale assume un carattere totalizzante e impossibile, coincidendo con la
tensione del poeta verso un’alternativa radicale all’inferno della storia e
alla “prigione” dell’esistenza quotidiana. Le figure femminili presentano, sino
agli ultimi testi della Bufera, attributi alti e rarefatti, in quanto sono
incarnazioni diverse di uno stesso sogno di salvezza. Non si dà la possibilità
di un rapporto reale con la donna; perciò essa non è mai descritta fisicamente,
tranne in alcuni particolari simbolici, lo sguardo, i capelli, il passo. La
donna è infatti soggetta a una sublimazione che l'allontana dalla concreta
fisionomia storica e la trasforma in una creatura inafferrabile, che appare,
scompare e ricompare in barlumi di luce. «La significatività della donna passa
attraverso la sua scomparsa come avviene per le grandi figure femminili della
poesia italiana, Beatrice, Laura, Silvia» (Gioanola). Montale recupera il
modello stilnovistico e dantesco della donna-angelo, portatrice di salvezza, e
la "salute" è possibile solo come fuga dal mondo della storia; perciò
la donna deve rappresentare una dimensione "altra" : quella della
morte (Arletta), della religione e della cultura (Clizia), oppure del mondo
istintivo e biologico degli animali (Volpe e Mosca).
Negli Ossi di seppia la folata di vento
vivificatore, che porta un segnale di salvezza a chi è chiuso «di qua dall'erto
muro», è associata ad Arletta-Annetta, figura di donna giovanissima, conosciuta
dal poeta nei soggiorni a Monterosso, che egli finge precocemente morta.
Arletta compare in Incontro come
improvvisa rivelazione nella memoria del poeta. Questi, sullo sfondo di una
città infernale raggelata in una fissità mortuaria, vive l'incontro miracoloso
con una pianta che si trasforma tra le proprie dita nei capelli della donna. Il
contatto vivificante dura un attimo, ma la donna resta depositaria di una forza
morale, che il poeta invoca perché lo aiuti a scendere «senza viltà». Arletta
torna ancora in un recupero memoriale nella Casa
dei doganieri, con la funzione di rappresentare il "varco" , in
una zona dove è incerto il confine tra i vivi e i morti.
Questo tema
dell'opposizione della donna all'inferno della città e a una storia sempre più
degradata è sviluppato sino alle estreme conseguenze nelle Occasioni e si concentra nel mito di Clizia.
Nel 1933
era comparsa nella vita di Montale Irma Brandeis, una giovane studiosa
americana, di famiglia ebrea e dotata di forti sentimenti morali e religiosi.
La donna prende il nome mitologico di Clizia (l'amante del Sole-Apollo, dio
della cultura) ed è associata al simbolo del girasole. Clizia ha gli attributi
contrastanti del fuoco e del gelo (suggeriti dal significato del suo nome
tedesco, Brand-fuoco, eis-ghiaccio) e incarna i valori
umanistici della cultura minacciati dalla barbarie fascista. Clizia diventa
così la nuova Beatrice e assume connotati soprannaturali: è la donna-angelo che
scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta in «Ti libero la fronte dai
ghiaccioli», dove la fronte rinvia alla decisione e al coraggio e le ali alla
natura sovrumana del valore che la donna rappresenta. Il carattere sacrale e la
chiaroveggenza di Clizia si concentrano nei suoi «occhi di acciaio» in Nuove stanze: ella vi appare come la
sacerdotessa di un rituale capace di tenere in scacco, con la forza della
lucida intelligenza, la follia della guerra che si avvicina. La missione di
Clizia culmina in La primavera hitleriana
(1939-1946), che fa parte della Bufera,
dove la donna, personificazione della salvezza, costituisce un'occasione di
esperienza del divino. L'angelo visitatore si trasforma nella «cristofora» la
donna portatrice del messaggio cristiano. Ebrea e cristiana, costretta a
fuggire e a ritornare in America all’inizio delle persecuzioni razziali (1938),
essa diventa nella Bufera la vittima
sacrificale che assume su di sé il male del mondo. L'allegoria umanistica di
Clizia si converte nell'allegoria religiosa del riscatto per tutti gli uomini,
e non più solo per il poeta o per pochi eletti. Su uno sfondo di gelo e di
morte, nella città percorsa dal «messo infernale» (Hitler), Clizia, abbacinata
dal sole, scende dall'alto verso i «greti arsi del sud» a indicare una speranza
che salvi l'umanità dai «mostri» che stanno per travolgere l' Europa nella
catastrofe. Ma di fronte alla guerra, che tuttavia si scatena, alle delusioni
del dopoguerra e all'avvento della società di massa Clizia si rivela sempre più
inadeguata, mentre il rigore esclusivamente morale del suo messaggio
inaccessibile agli affetti quotidiani, allontana il poeta.
Ora Montale
cerca la salvezza non più nei valori alti e nelle ideologie, ma nel
"basso", nella vitalità degli istinti puramente biologici e sessuali,
nella terra o nel fango in cui si riproduce l'anguilla. Ed ecco la donna-Volpe
(la poetessa Maria Luisa Spaziani), l'antagonista di Clizia, l'anti-Beatrice,
la «donnola», il «carnivoro biondo», il «genio perfido delle fratte»; Volpe è
creatura terrestre portatrice di un eros concreto, ed è dunque ben diversa
dalla precedente figura femminile.
Mosca (la
moglie) è infine l'«insetto miope», ma capace di vedere e di orientarsi
istintivamente con il suo «radar di pipistrello» nell'informe vita quotidiana e
nel «trionfo della spazzatura». Sullo sfondo del tramonto della civiltà
occidentale, Mosca rappresenta in Satura
il valore della pura esistenza fisica e materiale: «di noi due le sole vere
pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue» («Ho sceso, dandoti il braccio,
almeno un milione di scale»).
Da:
Luperini, Cataldi et al., La scrittura e
l’interpretazione, vol. XIV, Palermo 1992 (riassunto della Prof. Germana
Scuccimarra)
Le donne-madri e le donne-fanciulle nel Canzoniere
In una
prosa Saba congiunge il tema della donna a quello del fanciullo: i poeti sono i
fanciulli che cantano le loro madri o madri che cantano i loro fanciulli o una
cosa e l’altra. Saba è una cosa e l’altra: quando canta la donna è un bambino
che ama la madre e quando canta i fanciulli è la madre che ama il
figlio-giovinetto, in cui proietta la gioia di vivere che egli era stato
costretto a reprimere da bambino.
La
questione è ulteriormente complicata dalla presenza in Saba di una doppia
madre, la madre «lieta», la nutrice, e la madre «mesta». Esse lo costringono a
una tensione irrisolta tra istanze opposte, che il poeta cerca di conciliare
nella figura della moglie.
La figura
femminile centrale del Canzoniere, la
moglie Lina, fin dalle prime apparizioni vive infatti nell'ombra della
donna-madre. La sua celebrazione amorosa, in A mia moglie, avviene tramite una serie di malinconiche e serene
femmine animali, collegate tra loro dal motivo della maternità. Non solo, ma la
donna è invocata come «regina» e «signora», è unica, non ha l'uguale in
«nessun'altra donna»; il poeta la idealizza e la innalza fino a farne un essere
a lui superiore. Da una parte il poeta sottolinea la sensualità e l'istintività
naturale della donna, associandola a immagini animali; dall'altra vi percepisce
un'aggressività latente e minacciosa: la cagna «tanta dolcezza ha negli occhi /
e ferocia nel cuore ».
Un altro
tema che accomuna Lina alla madre è quello dei lamenti, le «querele» delle
gallinelle, il «muggito lamentoso» della giovenca e infine la «voce amara» di
Lina in Trieste e una donna ricordano
i lamenti e i rimproveri della madre, sempre còlta in atteggiamento triste e
dolente. Il poeta non può ascoltare il lamento della giovenca senza strappare
l'erba per farla tacere, così come non può veder soffrire la moglie, concependo
il proprio «dono» amoroso come un risarcimento dovuto al dolore.
Ne è una
riprova la poesia «Dico al mio cuore,
intanto che t'aspetto», sempre rivolta a Lina, nel momento di crisi del
rapporto amoroso, che ispira Trieste e
una donna. Il testo rivela il carattere coatto del perdono e dello stesso
amore, che contrasta con l'impulso a odiare la donna, sì che il poeta si sente
insieme «generoso» e «vile». Ma non può resistere alla «voce amara» di Lina che
torna a essere, proprio per questo, la donna ideale, «fatta» per il suo
«cuore».
Saba
proietta nel rapporto con Lina l'eros liberato dalla nutrice e il rapporto con
la madre «austera», cui il bambino, buono e affettuoso, ubbidisce per non
vederla soffrire, perché il suo dolore gli «lede» l'anima.
Tuttavia
Lina, che compare nel Canzoniere come
una figura femminile idealizzata, in Trieste
e una
donna sfugge al
totale controllo del poeta e all'assimilazione alla madre: la donna, nel
conflitto, conquista una sua autonomia e diventa un'antagonista del poeta.
Prende la parola, accusa, mentisce e tradisce. Liberatasi dall'archetipo della
madre, ella costringe Saba a un confronto diretto con una realtà misteriosa e
imprendibile. Lina, la «sorella» con la «bella / faccia, di tanta nobiltà
soffusa» (Per quante notti che insonne ho
giaciuto) racchiude un'infamia. La naturalità femminile evocata in A mia moglie diventa coscienza di un'alterità
minacciosa. L'unico modo che resta al poeta per riaffermare il proprio dominio
è il sogno di morte e di uccisione di Lina. «ho sognato pur io d'averti uccisa
/ per l'ebbrezza di piangere su te» (Carmen).
La donna,
dopo aver abbandonato Saba per un altro uomo, torna da lui. Il poeta, nel
momento in cui riaccetta Lina, ne ricostituisce l'immagine simbolica: anche
attraverso il peccato ella ha conservato «santità» e «purezza» («sento che il
male ti lasciava intatta», Dico al mio
cuore, intanto che t'aspetto). la "diversità" di Lina appare
smussata ed ella sarà d'ora in poi «muta testimone», in un rapporto ambivalente
di odio-amore che durerà tutta la vita. Lina viene così risospinta verso
l'archetipo materno, di cui si era liberata per divenire l'irriducibile
presenza che Saba aveva dovuto riconoscere non senza accenti misogini.
Dopo Trieste e una donna Lina non farà nel Canzoniere che fugaci apparizioni, ma
già l'ultima poesia della raccolta a lei dedicata, La solitudine, attesta il ripiegamento narcisistico del poeta («in
me solo è quel perfetto amore»), che approderà alla coscienza del limite nel
rapporto amoroso con la donna e a un senso di impotenza.
Di fronte
alla donna-madre stanno le «fanciulle»; ma sono «cose leggere e vaganti»,
figure di pura sensualità, gioiosi fantasmi condannati a un ruolo decisamente
subalterno. L'eros si dispiega, sottratto al senso di colpa e dell'onore:
Paolina, Chiaretta e le altre fanciulle sono creature libere dalla madre, hanno
la
leggerezza
dello scherzo e del puro desiderio erotico, perciò appaiono indifferenziate e
interscambiabili. Da una parte sta la donna sacralizzata, dall'altra la
fanciulla come pura trasgressione, su cui l'uomo può esercitare liberamente il
proprio senso di superiorità e di dominio.
Ma anche
questa felicità è provvisoria: L'amorosa
spina, dedicata all'amore per Chiaretta, si conclude con la malinconica
ritrattazione di In riva al mare, con
un senso di vergogna che fa desiderare al poeta, contro ogni tentazione
dell'eros, la morte. Il cuore «in due scisso» di Saba non riuscirà mai a
conquistare l'integrità aspirata.
Da:
Luperini, Cataldi et al., La scrittura e
l’interpretazione, vol. XIV, Palermo 1992
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