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giovedì 21 maggio 2020

ECO E NARCISO


ECO E NARCISO, OVIDIO, LE METAMORFOSI



Il mito di Narciso ed Eco è stato variamente trattato, sia dagli autori greci sia da quelli latini, dopo aver modificato l'antica versione di Conone, data nelle sue Narrazioni. Quest'ultimo aveva raccontato la storia di un giovane, che, specchiandosi presso una fonte, si era innamorato del proprio riflesso, rifiutando le proposte amorose di un certo Aminio. Aminio si suicidò, in seguito, con una spada donatagli dallo stesso Narciso, non senza aver invocato il dio Eros perché lo vendicasse. In seguito Narciso stesso, preso dalla disperazione, si uccise e dal suo sangue sbocciò un fiore che prese il suo stesso nome. Questa versione iniziale è stata successivamente modificata da Pausania, Luciano, Clemente Alessandrino, Plotino, Filostrato, Callistrato, che hanno apportato al mito delle aggiunte, come nel caso di Pausania che ha trattato dell'amore incestuoso di Narciso per una sorella. 
Ma è stato Ovidio a dare del mito di Narciso la versione che sarebbe poi stata adottata dalla cultura europea, introducendo per la prima volta la figura di Eco, nel terzo libro delle Metamorfosi. 
Il mito di Eco e Narciso è uno dei più suggestivi e psicologicamente complessi delle Metamorfosi ovidiane. 
La storia ruota intorno le figure di Eco, ninfa che protende inutilmente verso l’amato, e Narciso, che altrettanto vanamente si ripiega su se stesso; Ovidio descriverà la graduale cristallizzazione dei due personaggi in un’emblematica relazione vana e illusoria.
La storia della pittura, della psicologia (Sigmund Freud coniando il termine “narcisismo”) ci mostrano il punto culminante, Narciso che contempla la propria immagine: questo momento immobile riassumerebbe il passato e anticiperebbe la futura morte per consunzione. Tale relazione istantanea nasconde l’ontologia di Narciso, lo svolgimento narrativo del mito, la sua durata e soprattutto la sua scansione logica, che Ovidio descrive in maniera completa ed estremamente suggestiva.
Nel racconto ovidiano, Narciso inizialmente è colui che “non si riflette”: egli suscita amore, senza mai provarlo o ricambiarlo. Narciso è dunque uno specchio: chi si innamora di lui, si innamora in qualche modo di sé, del proprio riflesso, nonostante creda di innamorarsi di un altro. A questo equivoco non sfugge nessuno, tantomeno la ninfa Eco, colei che si riflette nelle voci degli altri. Il suo destino di replica e replicazione agisce in maniera simile e diametralmente opposta a quella del meraviglioso fanciullo che agisce come specchio ed è uno specchio: tutti gli amori per Narciso sono impossibili, ma qualcuno di essi lo è in modo particolare.
Ciò che comprendiamo è che quindi, all’inizio, Narciso non è un “narcisista”: non è innamorato di se stesso, è piuttosto indifferente all’amore, o meglio, all’alterità stessa. E’ una superficie riflettente, incapace di trattenere qualunque immagine; affine ad esso è Eco, la quale accoglie le voci nell’istante stesso in cui le lascia svanire. E’ la loro speculazione a creare l’abisso di impossibilità relazionale, l’amore mancato, e quindi la caratteristica peculiare del protagonista. L’autoreferenza di Eco, incapace di concentrarsi su se stessa perché semplice ripetizione delle ultime parole del proprio interlocutore e l’autoreferenzialità di Narciso, incapace di guardare al di là di sé stesso, sono due facce della stessa medaglia.
Eco ricade in un sentimento d’attrazione incontrollabile nei confronti del bellissimo fanciullo (“non diversamente da quando lo zolfo infiammabile, spalmato sulla sommità delle fiaccole, capta il fuoco che gli è stato accostato”), ma è incapace di farglielo intendere, vista la sua condanna a ripetere le medesime parole pronunciate dal suo interlocutore, e contemporaneamente Narciso comincia a sfruttare inconsapevolmente la sua peculiarità: chi lo vede si innamora del proprio riflesso, e quindi lui di se stesso. L’effetto, prima spiegato, che il fanciullo ha su chiunque incontri la sua immagine si riversa sulla sua persona tramite l’emblematico specchio della superficie dell’acqua: da qui nasce l’immagine e la caratterizzazione di Narciso, l’uomo che ama il suo riflesso. La tenera bellezza di Narciso fu per Eco l’inizio del suo declino: respinta, così radicalmente e violentemente, la ninfa si ritirò nei boschi coprendosi il volto di foglie per la vergogna e da allora visse in antri sperduti, consumandosi per il dolore fino a che la sua voce divenne aria e le sue ossa mutarono in pietra.
Contemporaneamente ha principio il logoramento di Narciso. Egli, vedendo l’immagine di se stesso sulla superficie dell’acqua “inrita fallaci quotiens dedit oscula fonti”, manda tanti baci invano all’acqua ingannatrice, e tenta di agire come vorrebbe che la seconda persona agisse, cioè gioca sull’idea del riflesso provando ad abbracciarsi, e ottenendo prima piacere da questi tentativi, ma poi consapevolezza e quindi logoramento. Il riflesso è l’immagine fuggevole di se stesso, che Narciso è costretto ad amare ardentemente, fino all’amara scoperta di sé nell’epilogo della vicenda, che si conclude con la realizzazione della triste profezia. Egli tenta di afferrare un fantasma, un riflesso che non è se stesso, consumandosi nel desiderio inconsolabile della passione. “Brucio d’amore per me stesso, suscitando e subendo la fiamma d’amore”; è questa la frase più emblematica nonché il resoconto dell’esperienza di Narciso, sempre più dolorosa, tormentata, sino alla sua scenografica morte: una serie di atti dolorosi nei confronti del proprio corpo, portano Narciso ad allontanarsi dal suo riflesso e a chiudere gli occhi definitivamente. Ma il Fato lo segue: nell’Ade è costretto ad osservare il suo riflesso nell’acqua dello Stige. 



Nell'episodio, che si estende per un centinaio di versi vi sono due termini, imago e vox, che risultano fondamentali per comprendere il contrasto tra i due personaggi: Narciso che si innamora della propria immagine riflessa, ed Eco che si dissolve in suono, a causa di una punizione infertagli da Giunone. Il primo termine ricorre, in tutta la sua declinazione, diverse volte nel passo considerato, quasi sempre in relazione alla figura di Eco. Soltanto la prima comparsa del termine va riferita a Tiresia(v. 347 “Vana diu visa est vox auguris”), quando egli proclama un vaticinio sul futuro del giovane, che non appena conoscerà sé stesso, conoscerà anche la morte. La sua voce viene definita vana, poiché la predizione si avvererà nonostante gli avvertimenti. La seconda attestazione va riferita ad Eco, quando l'autore ai vv. 357-59 dice:
Corpus adhuc Echo, non vox erat et tamen usum
garrula non alium, quam nunc habet, oris habebat,
reddere de multis ut verba novissima possit

Qui Eco viene presentata dall'autore, priva di voce ma ancora dotata del corpo: ella era stata punita dalla dea Giunone, poiché aveva protetto alcune ninfe giacenti con il marito Giove in sua assenza. La punizione prevedeva che la fanciulla potesse solo ripetere le ultime parole che avesse sentito, ma che non potesse parlare con alcun essere umano, proprio come dice Ovidio al v. 367 ( ingeminat voces auditaque verba reportat). Espressione di questo gioco di suoni e rimandi vocali è sicuramente l'inizio del dialogo tra Narciso ed Eco, in cui compare nuovamente il termine vox, in ablativo, al v. 380:

Hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnes,
voce “veni”! Magna clamat: vocat illa vocantem.

Narciso, infatti, si illude del fatto che Eco gli stia realmente rispondendo, dato che quello che ascolta è solo l'eco della propria voce, rimandata dalla fanciulla. Ovidio, infatti, non fa altro che frammentare il racconto, lungo i vv. 380-92, in una serie di brevi battute in equivoco tra di loro. Ad esempio se Narciso dice Ecquis adest?, Eco risponde soltanto Adest, in quanto è impossibilitata a dire altro. In particolare, nel v. 380 il poeta non fa altro che iniziare a trasmettere l'effetto ecoico, che risulta già operativo nelle battute dei personaggi. Si tratta di un prestigioso virtuosismo linguistico, creato da Ovidio, per esprimere il dialogo-monologo di Eco e Narciso, come se ci si trovasse in una sorta di labirinto sonoro.
Infine il termine vox ricorre altre due volte ai vv. 396-7, quando Ovidio descrive la consunzione della ninfa Eco, in seguito al rifiuto da parte di Narciso. Per una lunga sequenza, che va dal v. 396 al v. 401 si nota la scomparsa della corporeità della fanciulla, che viene ridotta soltanto ad un suono. Inizialmente la pelle si assottiglia, per lasciare spazio alle nude ossa ( vv.396-7 Vox tantum atque ossa supersunt: vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.), e al suono successivamente. Tale metamorfosi serve a a preparare l'imminente rientro della fanciulla, nella metamorfosi finale di Narciso. Il termine vox ricorre infatti per le ultime due volte, nella parte finale dell'episodio. Riporto il passo dal v. 492 al v. 499:
Quae tamen ut vidit, quamvis irata memorque,
indoluit, quotiensque puer miserabilis “eheu”
dixerat, haec resonis iterabat vocibus “eheu”
cumque suos manibus percusserat ille lacertos,
haec quoque reddebat sonitum plangoris eundem.
Ultima vox solitam fuit haec spectantis in undam,
“heu frustra dilecte puer!” totidemque remisit
verba loquens, dictoque vale “vale”! Inquit et Echo

Nell'ultima parte dell'episodio Eco riappare sulla scena, per assistere alla morte di Narciso, ripetendo il lamento di dolore del giovane che verrà compianto dalle sorelle Naiadi. Il rapporto tra Eco e il carattere ripetitivo del lamento funebre è evidente nella ripetizione dell'interiezione eheu, che compare solo qui nel poema, con un effetto patetico e parlato.
Per quanto riguarda invece il termine imago, in tutta la sua declinazione, esso ricorre tre volte all'interno dell'episodio e trova uno stretto collegamento con il termine vox, già analizzato, in quanto fa diretto riferimento a Narciso e alla sua illusione nello specchiarsi. Il termine ricorre una prima volta al v. 383, non per nulla, collegato al termine vox quando si dice di Narciso:  “Perstat alternae deceptus imagine vocis”, in quanto viene illuso dal riflesso della voce di Eco, che in seguito al rifiuto del giovane si nasconderà tra le selve, covando dentro sé il dolore per il rifiuto. Nuovamente il termine ritorna al v. 414, riferito a Narciso e costruito con il termine forma, che richiama allo stesso modo l'aspetto di Narciso, la sua bellezza riflessa alla fonte:

Dumque bibit, visae correptus imagine formae
spem sine corpore amat

Egli viene infatti rapito dalla propria bellezza, mentre si abbevera, provando un forte attrazione verso un corpo, il proprio, che in realtà non esiste ma è solo illusione. Ci troviamo nel momento in cui Narciso, stremato dalle fatiche della caccia, si getta prostrato sull'erba e si avvicina ad una fonte per abbeverarsi, fino al fatidico incontro con la propria immagine.
L'ultimo passo, molto conosciuto, in cui ricorre il termine imago è quello del v. 461 in cui Narciso, all'interno di un'elegia erotica a sé stesso, dice: “Iste ego sum: sensi nec me mea fallit imago”. Tale passo è di importanza fondamentale, poiché Narciso, prima di uccidersi, capisce realmente l'illusorietà della propria immagine, che lo ha ingannato e si rende conto di essere realmente quello che è sempre stato. L'espressione iste ego sum può essere considerata una sorta di risposta al si se non noverit pronunciato da Tiresia al v. 398, quando svelò il vaticinio sulla morte di Narciso. Il giovane sarebbe andato incontro ad un destino crudele solo quando avesse scoperto realmente il proprio io, specchiandosi alla fonte. In questo modo Ovidio, gioca anche sul rovesciamento del senso dell'oracolo delfico, in quanto la salvezza di Narciso starebbe nel non conoscersi. Dopo aver  visto il proprio riflesso, automaticamente le previsioni di Tiresia si avverano: l'episodio raccontato da Ovidio, si conclude, infatti, con l'immagine del giovane che si colpisce il petto con dei pugni, fino ad abbandonarsi sull'erba per morire, creando sul proprio corpo un contrasto cromatico tra il biancore candido della pelle e il rossore causato dai pugni. In seguito, anche dopo la morte, non smette di osservare il proprio riflesso nelle acque dello Stige, mentre le sorelle Driadi e Naiadi lo piangono, preparando il rogo, le torce e il feretro; ma quando si avvicinano per prendere il corpo, trovano al suo posto solo un fiore, rosso e bianco, che richiama, nel suo cromatismo, i colori del giovane in punto di morte. E' chiaro che la versione del mito di Narciso, data da Ovidio è sicuramente la più completa e ricca di dettagli, soprattutto perchè in essa si colgono i motivi fondamentali della storia, ravvisabili anche nel collegamento tra i termini vox e imago. Dall'analisi dei passi in cui questi termini appaiono si può notare come i motivi fondamentali del mito di Narciso sono quello dell'illusione( di vedere allo specchio un'altra persona) e quello dell'amore di sé. Inoltre il personaggio ovidiano è anche vittima di una duplice illusione, acustica e ottica: Eco e la sua immagine riflessa, rappresentano due forme di quest'illusione, che si esplica attraverso la voce e l'immagine. Il volto, come il suono dell'eco, sono certamente reali, ma sono anche dotati di una realtà autonoma, oggettiva e determinata dal soggetto che la crea.


 Natale Peluso
Adriana Trinchese










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