Citazione

L'insegnamento non può fermarsi alle ore di lezioni in classe.

Compito del docente è quello di accompagnare gli allievi nella formazione della persona e ciò può essere possibile solo in un tempo dilatato, per un'educazione permanente (C.C.E., 2001).

Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

sabato 8 novembre 2014

IL DOLCE STIL NOVO




Il “dolce stil novo”, detto anche stilnovismo, è un importante movimento poetico italiano che si è sviluppato nella seconda metà del Duecento. 
L'origine dell'espressione è da rintracciare nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Canto XXIV del Purgatorio): in essa infatti il rimatore guittoniano Bonagiunta Orbicciani da Lucca definisce la canzone dantesca Donne ch'avete intelletto d'amore con l'espressione 'dolce stil novo', distinguendola dalla produzione precedente (come quella del “notaro” Giacomo da Lentini), per il modo di penetrare interiormente luminoso e semplice, libero dal nodo dell'eccessivo formalismo stilistico (Guittone d' Arezzo). 
Riportiamo il passaggio dantesco:
« "...Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch'avete intelletto d'amore."
E io a lui: "I'mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando."
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone[3] e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!..." »
(Purg. XXIV, vv. 49-57)

Corrente che segna l'inizio del secolo, il dolce stil novo influenzerà parte della poesia italiana fino a Petrarca: diviene guida, infatti, di una profonda ricerca verso un'espressione raffinata e nobile dei propri pensieri, staccando la lingua italiana dal volgare, portando la tradizione letteraria verso l'ideale di un gesto ricercato e aulico. Nascono le rime nuove, una poesia che non ha più al centro soltanto la sofferenza dell'amante, ma anche le celebrazioni delle doti spirituali dell'amata. A confronto con le tendenze precedenti, come la scuola guittoniana o più in generale la lirica toscana, la poetica stilnovista acquista un carattere qualitativo e intellettuale più elevato: il regolare uso di metafore e simbolismi, così come i duplici significati delle parole.

LA SCUOLA TOSCANA






Con la morte di Federico II (1250) e del figlio Manfredi si assiste al tramonto della potenza sveva e anche l'esaurirsi della poesia siciliana. Dopo la Battaglia di Benevento (1266 tra Carlo d’Angiò e Manfredi di Sicilia) l'attività culturale si sposta dalla Sicilia alla Toscana, dove nasce una lirica d'amore, la lirica toscana, non dissimile da quella dei poeti della corte siciliana ma adattata al nuovo volgare e innestata nel clima dinamico e conflittuale delle città comunali. 
Sul piano tematico dell'amore cortese, quindi, si affiancano nuovi contenuti politici e morali più adatti alla classe media emergente. 
Vengono così ripresi in Toscana i temi della scuola siciliana e le ricercatezze di stile e di metrica propria dei Provenzali con l'arricchimento dato dalle nuove passioni dell'età comunale. 
La poesia dei poeti toscani viene così ad arricchirsi sia dal punto di vista tematico che linguistico anche se viene a mancare "quel livello di aristocrazia formale a cui i siciliani riescono generalmente a mantenersi".

IO M'AGGIO POSTO IN CORE ...di JACOPO DA LENTINI






Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.

Parafrasi

Io ho fatto proponimento, promessa, di servire Dio,
affinché io possa andare in Paradiso.
A quel santo luogo di cui ho sentito parlare,
dove dura ininterrottamente divertimento, gioco e riso.

Non vorrei andarvi senza la mia donna,
quella dalla chioma bionda ed il volto luminoso, la carnagione chiara
poiché senza di lei non potrei aver gioia,
essendo diviso dalla mia donna.

Ma non lo dico (non sto dicendo tutto questo)
allo scopo di voler peccare con lei,
bensì soltanto perché vorrei vedere il suo comportarsi bene, la sua dignitosa condotta,

e il suo bel viso e il dolce sguardo;
considererei ciò una grande consolazione,
vedere la mia donna nella gloria del paradiso.

Commento

Jacopo da Lentini, detto il notaro da Dante, fu appunto notaio e funzionario della corte palermitana dell’imperatore Federico II di Svevia, definito con l’appellativo di stupor mundi, stupore del mondo, perché uomo di grande cultura.

E proprio Federico, non a caso, si fece promotore di una poesia di corte. Egli stesso scriveva componimenti in rima, ed invitò a questa pratica anche i suoi stessi funzionari, amministratori, cancellieri, tra i quali spicca Jacopo da Lentini, considerato caposcuola di questa prima forma di letteratura italiana, che vide il suo apice tra il tra il 1230 e il 1250.

In questo ventennio, i rappresentanti della poesia siciliana, cantarono in versi l'Amore cortese, riprendendo i temi tipici dalla poesia provenzale. C’è la figura della DONNA, con i suoi caratteri canonici:

- bionda di capelli e chiara di pelle
- lontana e inaccessibile
- raffinata nell’educazione e nel costume
- intelligente.

E c’è poi L’AMANTE – il suo vassallo. Ha con la donna un rapporto di dedizione cavalleresca. Mantiene gelosamente custodito nel suo cuore questo amore come un sentimento prezioso che affina il suo animo.

In questo componimento di Lentini, ovvero il classico sonetto fatto di 14 versi divisi in quartine e terzine, di cui lo stesso Lentini è considerato l’inventore, il sentimento d’amore s’intreccia con il sentimento religioso.

Croce, vi ha visto un forte contrasto. A suo parere, in questa poesia, si esprime il contrasto tra attrazione fisica e virtù morale, tra terra e paradiso. Se riflettiamo tuttavia sul fatto che i poeti come Lentini cantavano un amore impossibile per una donna, oggetto di desiderio irraggiungibile, potremmo affermare che tutti i riferimenti al paradiso, alla gloria celeste, sono utilizzati unicamente come metafora per esaltare la bellezza e le virtù della donna.

Del resto, quando Lentini rappresenta il paradiso, lo fa paragonandolo alla corte terrena, perché lo definisce come il luogo dove in eterno c’è gioco, divertimento, riso, che sono i tratti caratteristici della corte feudale. Ed i richiami alla realtà terrena sono numerosi: dalla fisicità femminile della donna protagonista del sonetto: i suoi capelli biondi, il suo viso chiaro, lo sguardo dolce; alla preoccupazione del poeta che, nel precisare che non vuol commettere alcun peccato con la propria donna, e che quindi il suo desiderio umano non vuol prevalere sulla devozione a Dio, finisce per lasciare intendere esattamente l’opposto.

In sostanza, c’è in questo sonetto una materializzazione del paradiso in funzione della donna, un paradiso terreno che eleva la donna e la rende ancora più irraggiungibile.

Un curiosità linguistica: la lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono scritti, è il Siciliano Illustre, ovvero un siciliano nobilitato dalle lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale. Ma i componimenti dei poeti siciliani, sono arrivati fino a noi perché trascritti da copisti toscani che li raccolsero e li studiarono a fondo, e che, più o meno volontariamente, cercarono di adattare il volgare siciliano a quello toscano. Ne sono testimonianza molti termini latini che sono stati toscanizzati, come ghiora anziché gloria, e il fatto che compaiano nei testi molte rime imperfette, e questo perché il siciliano ha cinque vocali, mentre il toscano ne ha sette, e nel tentativo di adattamento di un volgare all’altro, alcune rime variarono.

LA SCUOLA SICILIANA






In Italia, la Scuola Siciliana si sviluppò tra il 1230 ed il 1250 presso la corte itinerante di Federico II di Svevia (dinastia degli Hohenstaufen), imperatore del Sacro Romano Impero (1211), re di Sicilia (1198) e re di Gerusalemme (1225). Egli stabilì la sua corte in Sicilia, luogo d’incontro e fusione di molte culture per la sua centralità nel Mediterraneo, dove creò una scuola di poeti ed intellettuali che ruotavano intorno alla sua figura, ed erano parte integrante della sua corte.

La lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono espressi è il “Siciliano Illustre”, è una lingua nobilitata dal continuo raffronto con le lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale (lingua d'oc, diversa dal francese che si chiama invece lingua d'oil).

I poeti Siciliani contribuirono in modo significativo al patrimonio letterario italiano. Federico II, uomo di grande cultura anche linguistica, intendeva avvalersi di ogni possibile mezzo per stabilire la sua supremazia sull'Italia, e in Europa. A questo fine attuò una politica strumentale, anche nel campo culturale. Con la Scuola Siciliana egli volle creare una nuova poesia che fosse laica, e si potesse così contrapporre al predominio culturale che la Chiesa aveva nel periodo, non municipale, da opporsi alla produzione poetica comunale (l'imperatore era in lotta con i comuni) e aristocratica, che ruotasse, cioè, intorno alla sua figura.

I poeti di questa corrente letteraria appartenevano all'alta borghesia, ed erano tutti funzionari di corte, o burocrati, che lavoravano presso la corte di Federico. Importante rilevare che tutti erano impegnati in attività e funzioni di organizzazione, di cancelleria, di amministrazione. La produzione poetica era riservata alla libertà dello spirito e non costituiva un lavoro o una funzione. In questo senso, la Scuola Siciliana fu un tentativo di realizzare una cultura universale e spirituale, nel rispetto delle religioni, ma senza condizionamenti né, tanto meno, subordinazione. Non a caso uno dei castelli più importanti della casa di Svevia (Castello di Weibling) ha il nome da cui deriva l'etimologia del termine "ghibellino"[2].

Questo gruppo di poeti scrivevano in volgare meridionale. Tra i maggiori esponenti della scuola siciliana furono: Giacomo da Lentini, considerato anche il caposcuola, Odo delle Colonne, Guido delle Colonne, Pier della Vigna.

Alla scuola poetica siciliana ed al suo caposcuola si deve l'invenzione di una nuova metrica, denominata il sonetto. 
Il sonetto è un breve componimento poetico, tipico soprattutto della letteratura italiana, il cui nome deriva dal provenzale sonet (suono, melodia) che si riferiva in genere a una canzone con l'accompagnamento della musica. 
Nella sua forma tipica, è composto da quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine ("fronte") a rima alternata o incrociata e in due terzine ("sirma") a rima varia. 
I componimenti dei poeti della Scuola si datano nel ventennio compreso tra il 1230 ed il 1250, con un chiaro influsso sulla produzione culturale delle città ghibelline dell'Italia centrale (come per esempio Bologna, città dove visse Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo, influenzato dalla scuola Siciliana).