SOTTO UNA PICCOLA STELLA
[…]
Chiedo
scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo
scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità,
non prestarmi troppa attenzione.
Serietà,
sii magnanima con me.
Sopporta,
mistero dell’esistenza, se strappo fili dal tuo strascico.
Non
accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo
scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo
scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So
che finché vivo niente mi giustifica,
perché
io stessa mi sono d’ostacolo.
Non
avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi
fatico per farle sembrare leggere.
Wisława
Szymborska, 1972
(trad.
di Pietro Marchesani)
L’uomo è incompleto
All’inizio ci
sono dei buoi che trascinano un aratro: è perché gli uomini non hanno la forza
e la resistenza sufficienti per farlo da sé. Alla fine (ma è la fine?) c’è un
computer: è perché il cervello umano non è in grado di elaborare in un istante
milioni di dati. Secondo alcune correnti di pensiero, tra cui il post-umano, la
tecnologia è nata nel momento in cui l’uomo ha capito di appartenere a una
specie incompleta, biologicamente insufficiente. Per fare altri esempi banali:
l’uomo non sa respirare sott’acqua e nemmeno volare. Per supplire a queste
mancanze biologiche sono nati altri manufatti tecnologici: con gli aerei e i
sottomarini, ora possiamo permetterci di fare ciò alla nostra specie è
biologicamente negato. È perché ci si sente incompleti che si è spinti a fare
ricerca, a inventare, a immaginare: la tecnologia, dunque, nasce per colmare un
vuoto.
La tecnologia è più veloce della lingua
E tuttavia le
invenzioni umane si susseguono così velocemente che lasciano a loro volta dei vuoti
nella lingua. Uno inventa il tavolo, e sa che c’è un piano di legno quadrato o
rettangolare sorretto da quattro bastoni per cui la lingua non trova un nome:
siano dunque le gambe del tavolo; un altro guida un gruppo di persone:
se ne mette a capo, ed è alla loro testa che si muove per il
mondo; un altro ancora vive attaccato al collo della bottiglia. Quando
la lingua non possiede la parola precisa per designare qualcosa, prende in
prestito un termine già esistente modificandone (in realtà ampliandone) il
significato. È la catacresi, una figura retorica molto particolare: figlia
della metafora, se ne distacca perché vuole normalizzare la lingua, arricchirla
di senso ma lasciando da parte la volontà di sbalordire: forse si può dire che
la catacresi è fatta di metafore ormai entrate nel linguaggio corrente e di cui
nessuno si accorge più. Nessuno infatti penserebbe, oggi, che nel letto
di un fiume ci siano i cuscini.
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