SE QUESTO È UN UOMO
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
Primo Levi, Shemà, 1947
Primo Levi
scrisse questi versi e li pose in esergo al suo primo libro, Se questo è un
uomo. Li intitolò Shemà – una parola ebraica che vuol dire «Ascolta»
e che dà il nome a una preghiera rituale che si compie ogni mattina e ogni
sera. Dunque l’imperativo che è il nerbo della poesia – bisogna ricordare ciò
che è stato, l’Olocausto, e bisogna tramandarne la memoria alle generazioni
future e a chi non l’ha vissuto – è associato all’idea di una ritualità:
bisogna ricordare e tramandare, dice Primo Levi, e bisogna farlo ogni giorno e
in ogni momento.
La
vittima che maledice
La prima
parola della poesia è «Voi»: Levi guarda in faccia i suoi interlocutori – i
lettori –, li invoca. È l’apostrofe la figura retorica principe di questi
versi: lo scrittore si rivolge direttamente ai destinatari della poesia, li
chiama in causa. Tutta la poetica di Levi è, in qualche modo, racchiusa in
questa invocazione iniziale: la poesia, infatti, suona a tratti come
un’invettiva e una maledizione lanciata contro chi rimarrà indifferente
all’imperativo della memoria. Non capita di frequente che una vittima, un
sopravvissuto, si rivolga in questo modo ai suoi interlocutori: puntando loro
il dito contro. Ma questo è Primo Levi: un uomo che la storia ha costretto a
portare un peso troppo grande, e che si è dato una missione: quella di impedire
agli altri, a costo di maledirli, di far finta che l’orrore non sia mai
esistito e che non si possa, un giorno, ripetere.
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