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Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

giovedì 21 gennaio 2016

GLI ARTISTI DELLA MEMORIA

Introduzione
E’ innanzitutto necessario precisare che in nessun altro genocidio avvenuto durante il XX° secolo le circostanze hanno attribuito all’arte e all’estetica un ruolo tanto importante nella definizione delle vittime, come durante l’Olocausto .
Durante tale periodo, gli artisti chiusi nei ghetti e nei campi di concentramento produssero arte come strumento di memoria visiva .
Dopo l’Olocausto, fino ad oggi, gli artisti hanno perseverato nel tentativo di affrontare il tema, per testimoniare, confermare o elaborare l’evento, e ciò per via di un rapporto personale con il tipo di trauma rappresentato dall’Olocausto.

La PITTURA
Tuttavia l’arte, in particolare la pittura che contiene un riferimento pedagogico specifico all’Olocausto, raramente si trova nei musei. Si potrebbe dire che i musei provano una particolare avversione per qualsiasi mostra d’arte o singolo artista la cui opera tenti di raffigurare o rappresentare esplicitamente eventi o epoche storiche .
Tanto è vero che i temi che riguardano l’Olocausto sono più visibili in monumenti e opere commemorative pubbliche che nei musei, infatti i curatori delle gallerie trovano poco opportuno presentare opere d’arte legate allo sterminio degli ebrei per il loro basso potenziale di vendita .
Sicuramente la riproduzione totalmente fedele alle vicende di tale fatto storico non è possibile, ma neppure il silenzio è una risposta adeguata . Inoltre l’arte non è in grado di narrare tutta la storia dell’Olocausto, anche se i frammenti della storia trasmessi dalle immagini possono assolvere a un compito ancora più importante ai fini della testimonianza storica e della rappresentazione artistica .
Nel dopoguerra l’arte diventò un modo per rappresentare la persecuzione, per reagire ad essa e per commemorarla: divenne, cioè, una delle eredità dell’Olocausto.
E’ così che sulla questione della distruzione degli ebrei sono state realizzate numerose opere che testimoniano e nello stesso tempo meditano           sulla memoria dell’evento .
Un’eredità artistica ci è stata lasciata sia dalle vittime ebree sia da quelle non ebree, in entrambi i casi comunque è testimoniata la loro condizione di estrema sofferenza .
L’icona dei tanti dipinti che descrivono le condizioni degli ebrei prima del 1939 rimane la

 “CROCIFISSIONE BIANCA” di MARC CHAGALL


 Le immagini di Cristo che egli dipinge sono decisamente ebraiche, come se volesse testimoniare al mondo cristiano quali furono gli oggetti dell’aggressione nazista. Successivamente Chagall dipinse anche una “CROCIFISSIONE GIALLA” e inoltre immagini di ebrei che gridano aiuto, villaggi in fiamme, vittime che fuggono…

 Dopo l’inizio dell’Olocausto la risposta alla sofferenza delle vittime fu proprio la creazione di opere d’arte come conseguenza delle inaudite condizioni della loro prigionia, dell’uso degli artisti da parte dei nazisti ai fini della propaganda, e della conseguente creazione di ricordi visivi da parte degli stessi artisti sulle condizioni dei campi e dei ghetti .Tali opere testimoniano certune condizioni di vita, esperienze e sofferenze quotidiane che neanche le fotografie potrebbero riportare.
Fra gli artisti più prolifici dell’Olocausto vi è Charlotte Salomon, una ragazza di venticinque anni che lasciò più di 1000 guazzi realizzati tra il 1941 e il 1942, quando viveva in clandestinità a Nizza, prima di essere deportata ad Auschwitz
La serie di immagini della Salomon è intitolata “DIARIO IN FIGURE”.



 
Possono essere ricordati altri artisti “dell’Olocausto”, quali:

FELIX NUSSBAUM, che era un importante esponente dell’espressionismo prima della guerra.Gli autoritratti eseguiti tra il 1943 e il 1944, prima della deportazione finale ad Auschwitz, mostrano paura, disprezzo e disperazione . Fra questi “AUTORITRATTO CON CARTA D’IDENTITA’” del 1943 è divenuto un’icona più volte riprodotta come simbolo dell’Olocausto. Nussbaum, deportato con l’ultimo convoglio partito dal Belgio per Auschwitz, ha lasciato uno straordinario repertorio di testimonianze visive riguardo la propria persecuzione.
 


DAVID OLERE, che fu internato ad Auschwitz, dove divenne membro dei Sonderkommando, sopravvisse e dipinse ciò che aveva subito come avrebbe potuto fare se avesse avuto a disposizione una macchina fotografica . Nell’opera di Olere non vi è nulla di sentimentale o di sacralizzante: lo spettatore è posto di fronte alla verità essenziale della memoria visiva. Tanto è vero che le sue opere acquistarono una tale importanza da essere utilizzate nei processi del dopoguerra ai nazisti. Particolarmente affidabili furono ritenute le sue immagini delle colonne di gassazione nel Crematorio II e della vita quotidiana del Sonderkommando.





 LAZAR SEGALL, anch’egli dipinse le proprie impressioni degli eventi che in seguito avrebbero preso il nome di Olocausto, cosi’ come YANKEL ADLER e BEN SHAHN .
Invece immagini di ciò che fu trovato all’interno dei campi di concentramento alla fine della Seconda guerra mondiale, furono realizzate da artisti che facevano parte dell’esercito sovietico.
Nell’immediato dopoguerra anche i sopravvissuti iniziarono a disegnare le proprie esperienze; molti di essi raggiunsero la fama artistica autonomamente e scelsero, occasionalmente o costantemente, di utilizzare il mezzo visivo piuttosto che quello scritto per esprimere la loro memoria dell’Olocausto.
(HANNELORE BARON, MAREK OBERLANDER, JANUSZ STERN, ISAAC CELNIKIER, ALICE CAHANA, WALTER SPITZER...) .
Degno di particolare attenzione è JOSEF SZAJNA, prigioniero politico ad Auschwitz e Buhenwald, che realizzò disegni che sopravvissero alla distruzione e che costituiscono importanti memorie visive del campo. Dopo la fine della guerra, Szajna continuò ad occuparsi di Auschwitz e utilizzò tale parola al posto della parola “Olocausto” per descrivere le sue esperienze da prigioniero polacco. Si potrebbe dire che questo uso del nome “Auschwitz” è il modo in cui l’artista universalizza il significato di questo luogo di genocidio costruito dai tedeschi in suolo polacco, piuttosto che una pura riflessione sulla percezione ebraica attraverso la parola Olocausto . L’opera più importante di Szajna fu “REMINISCENZE”, il cui fulcro era una serie di ritagli che evocavano le fotografie frontali scattate ai prigionieri di Auschwitz I-Oswiecim .
 



E’ importante precisare che questo artista vede l’esperienza di Auschwitz non da polacco, e sicuramente non da una prospettiva ebraica, ma in termini universali: riconosce e comprende la particolare condizione degli ebrei nei campi in quanto vittime .
Dopo la Seconda guerra mondiale ci fu anche chi, come THEODOR ADORNO, proclamò che era impossibile scrivere poesia e quindi creare arte, dopo Auschwitz . In effetti il tema delle deportazioni e dei genocidi apparve raramente, fatta eccezione per la costruzione di monumenti commemorativi pubblici dei luoghi della distruzione.
Tuttavia, dalla fine degli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo, vi sono state migliaia di artisti, di ogni continente, che hanno mostrato sensibilità nei confronti di questo argomento, nello sforzo di cimentarsi con i problemi dell’arte dopo un tale mostruoso periodo di distruzione .
Un filone significativo che si è sviluppato è quello dei “TABU’”, in particolare la questione del fare arte e della rappresentazione dell’Olocausto da parte di quelli che non c’erano .
Tra gli artisti del dopoguerra ricordiamo: HENRY KOERNER, RICO LEBRUN, LEONARD BASKIN, BARNETT NEWMAN, MARK ROTHKO, FRANK STELLA, MAURICIO LASANSKY e LEON GOLUB che fu uno dei tanti artisti che reagirono immediatamente all’Olocausto, tentando appunto di affrontare l’argomento con gli strumenti dell’arte .
Paradossalmente invece l’uso delle fotografie, come parte integrante dell’arte sull’Olocausto, sembra avere ben pochi seguaci in Europa .
Soffermandosi sulla questione del “tabù” ci si può chiedere come mai gli artisti contemporanei creino opere sull’Olocausto . Uno dei motivi è la TESTIMONIANZA o l’AFFERMAZIONE dell’evento attraverso la ripetizione del tema in forma diversa, ossia attraverso la propria arte .
Un’altra ragione può essere definita “elaborazione del passato” nell’unica modalità che gli artisti conoscono: quella visiva. Una terza possibilità è l’idea che l’arte possa offrire intuizioni nuove, che sfuggono agli storici.
Negli anni Settanta l’Olocausto è comunque divenuto un argomento più familiare nella vita americana e nella memoria europea:gli artisti (dagli scrittori agli scultori) iniziarono ad affrontare tale argomento. Anche i non ebrei elaborarono un’ampia gamma di risposte, che tuttavia mancavano forse dell’intensità e dell’impegno dimostrati dagli ebrei nei confronti dell’argomento .
Sicuramente da menzionare sono i dipinti di KITAJ in relazione al campo di concentramento di Auschwitz: fra il1975 e il 1976 tale artista dipinse quella che forse è la sua opera più significativa, una grande tela ad olio intitolata “IF NOT, NOT”



 Il paesaggio dipinto in quest’opera, con edificio d’ingresso di Auschwitz-Birkenau che torreggia sulla parte sinistra del quadro, è l’emblema dello spazio della diaspora, in quanto non è la terra degli ebrei. La struttura del quadro è così composta: in cima troviamo le baracche delle SS ad Auschwitz-Birkenau, in primo piano l’immagine di un camino, a sinistra forme astratte, quasi figurative, che potrebbero rappresentare persone, e infine, a destra, un cielo arancio-infuocato e fumo.

In Europa, i due artisti forse più celebri la cui opera allude all’Olocausto sono CHRISTIAN BOLTANSKI e ANSELM KIEFER .
Anche lo stato di Israele è un immenso deposito della memoria dell’Olocausto: Israele può essere considerata il più vasto museo di sculture e monumenti su tale argomento .
Possiamo infine formulare la domanda ultima sull’arte dell’Olocausto:il suo compito deve essere solo quello di provocare dolore, di rimembrare l’assenza e la perdita? La risposta è che sicuramente non è un’arte che possa dilettare, tuttavia spesso solo l’arte riesce a ottenere il massimo impatto e a suscitare le riflessioni più alte. Allo stesso tempo esistono limiti universalmente accettati, e parecchie trasgressioni artistiche coerenti e mirate, che nello sforzo di ottenere un impatto traumatico, hanno finito per diventare banali non appena si esauriva il loro effetto shock o venivano superate da opere che erano talmente ambigue da autoneutralizzarsi .

N.B:
In questa piccola ricerca verrà rivolta una particolare attenzione ad alcuni pittori, quali:
●KOSCIELNIAK (museo di Auschwitz)
●WLADYSLAW SIWEK (museo di Auschwitz)
●ALDO CARPI
●SALVATORE MESSINA
●VAN RIBACK (tabetica dello STETL e pittura yddish)
●DAVID OLERE

Di tali pittori verrà fatta una piccola introduzione biografica e verranno analizzate alcune loro opere…


FOTOGRAFIA e TEMATICA DELLA POSTMEMORIA

In “STORIA DELLA SHOAH”, Marianne Hirsch afferma innanzitutto che, nonostante l’Olocausto sia uno degli avvenimenti più ricchi di testimonianze visive (quali fotografie), tuttavia l’attuale panorama della rappresentazione accademica e popolare di tale evento e gli eventi organizzati per commemorarlo presentano una visibile ripetizione di poche immagini molto note, utilizzate di continuo come icone ed emblemi per ricordare quei fatti mostruosi .
I nazisti documentarono con estrema efficacia la loro ascesa al potere e le atrocità commesse:
◦ le guardie spesso scattavano fotografie ufficiali ai detenuti al momento dell’incarcerazione e ne documentavano la successiva eliminazione,
◦ i soldati portavano spesso con loro telecamere personali per filmare i ghetti e i campi in cui prestavano servizio,
◦ gli alleati, al momento della liberazione, fotografarono e filmarono l’apertura dei campi e i processi avvenuti nel dopoguerra .
Pochissime di queste fotografie sono state scattate dalle vittime, tra le quali ricordiamo le incredibili foto clandestine scattate da Mendel Grossman insieme a quelle sfuocate e quasi illeggibili di roghi ed esecuzioni scattate dai membri della resistenza di Auschwitz .

Riguardo la fotografia sull’Olocausto gli interrogativi e le problematiche principali sono:
- perché la cultura visiva dell’Olocausto, e quindi la nostra opportunità di comprenderlo d aun punto di vista storico, è stata limitata in maniera così radicale proponendo poche e ripetitive immagini, nonostante le innumerevoli immagini disponibili su quel periodo?
- tali fotografie creano solo dolore e ferite, o lasciano anche spazio alla memoria e alla rielaborazione? Oppure la loro riproposta è solo l’effetto di una ripetizione malinconica?

Marianne Hirsch risponde affermando che la post-memoria costituisce un modello di lettura sia dell’evidente fenomeno della ripetizione sia delle stesse immagini canonizzate . La Hirsch si propone di dimostrare che per coloro che fanno parte della generazione successiva, che sono consapevoli che la loro memoria non è costituita da eventi ma da rappresentazioni, la ripetizione non ha avuto la funzione di renderli assuefatti all’orrore, rendendo cosi’ necessaria una dose sempre più massiccia di immagini raccapriccianti..L’insistita ripetizione crea, al contrario, un legame tra le due generazioni, riproducendo e non evitando quell’effetto traumatico vissuto invece in maniera molto più diretta da parte dei sopravvissuti e dei testimoni diretti come una ripetizione compulsava .
La post-memoria descrive il rapporto dei figli di coloro che sono sopravvissuti a un evento traumatico con le esperienze dei genitori, esperienze di cui hanno memoria solo grazie alle storie e alle immagini con cui sono cresciuti e che possiedono una forza talmente potente da trasformarsi in ricordi veri e propri .
Per quanto riguarda le immagini ripetute dell’Olocausto, esse possono essere viste come figure che aiutano a ricordare o a dimenticare e fanno parte di un tentativo intergenerazionale di ricostruzione e cura . Inoltre una foto assurge al ruolo di prova, le immagini materializzano la memoria .
Questo legame tra fotografia e memoria del corpo o dei sensi potrebbe essere la spiegazione del potere che hanno le fotografie di creare un legame tra gli individui della prima e della seconda generazione, in un indefinibile reciprocità che scavalca il baratro creato dallo sterminio genocidi .
Comunque, bisogna riconoscere che, per quanto pregne d’orrore possano essere le immagini dell’Olocausto, non potranno mai avere la pretesa di rappresentare , di potersi paragonare, al crimine che apparentemente descrivono .
Ricordiamo ora alcune delle immagini iconiche utilizzate per rappresentare e commemorare l’Olocausto .
1- L’entrata di Auschwitz I con il motto “ARBEIT MACHT FREI” e il suo imponente cancello in ferro .
2- Il posto principale di guardia di Auschwitz II-Birkenau, inquadrato appena da lontano insieme a tre binari che arrivano fino all’entrata e con in primo piano scodelle, tegami e altri oggetti personali coperti di neve .
3- Le torrette d’avvistamento del campo collegate da filo spinato e riflettori .
4- I bulldozer che spostano i corpi dentro enormi fosse comuni .
Esistono poi le foto scattate dai liberatori, che raffigurano enormi distese di corpi seppelliti o spostati dai bulldozer. Tali immagini mostrano, forse meglio di quanto possano fare le statistiche, la reale portata della distruzione, quella moltiplicazione delle vittime che trasforma i loro corpi in quelli che i nazisti chiamavano stucke, ossia “pezzi” .
Il vero compito della post-memoria diventa quindi quello di riaprire nuovamente le fosse, scoprire tutti gli strati di oblio, riportare alla luce i crimini nascosti e cercare di capire quello che queste immagini riescono a svelare e, insieme, a celare alla vista .
La fotografia, di conseguenza, nel suo rapporto con la perdita e con la morte, non filtra la memoria individuale e collettiva ma fa rivivere il ciò che fu come un fantasma senza pace, sottolineandone al tempo stesso la condizione di passato immutabile, irreversibile e ormai irrecuperabile . L’incontro con la fotografia è l’incontro tra due presenti, uno dei quali, ormai passato, può essere resuscitato dall’atto del guardare .
Quindi le fotografie dell’Olocausto collegano passato e presente attraverso l’ “esserci stato” dell’immagine fotografica, sono messaggere di un tempo di orrore che non è ancora abbastanza lontano . Esposti come sono alla ripetizione delle stesse immagini, gli spettatori che attingono alla post-memoria sono in grado di riprodurre in loro stessi gli effetti della riproposta del trauma che affligge le vittime di eventi terribili .


FUMETTO

Il fumetto da noi preso in considerazione, e del quale verranno riportate alcune sequenze nelle pagine successive, è “MAUS” di ART SPIEGELMAN .
In questo fumetto sono riproposte quasi tutte le immagini più ricorrenti dell’Olocausto: i due cancelli di Auschwitz, le torrette di guardia, i liberatori, le fosse comuni . Queste immagini, nell’opera di Spiegelman, rappresentano la memoria stessa .
L’autore riproduce in questo fumetto molte fotografie ormai entrate di diritto nel nostro immaginario .
Nonostante ciò, MAUS effettua comunque un’inversione di tendenza: l’opera riproduce infatti anche numerose immagini anche molto meno famose, ricordandoci che esiste un archivio enorme di fotografie, disegni, documenti e mappe non conosciute ai più .




DISEGNI E PITTURA



MIECZYSLAW KOSCIELNIAK
Figura 1 Auschwitz I : prigionieri che vanno a lavorare uscendo dal cancello del campo che porta la scritta : "il lavoro rende liberi"
Figura 3 Prigioniero morente e SS che si allontana .
 
Figura 2 Auschwitz II-Birkenau : baracche in legno .


 WLADYSLAW SIWEK


http://www.liceogioia.it/EspDidattiche/Multimedia/AUSCHWITZ/Percorsi_di_Approfondimento/Milani/Auschwitz_nelle_arti_figurative.htm


http://www.yadvashem.org/yv/en/pressroom/subscribe.asp





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