Citazione

L'insegnamento non può fermarsi alle ore di lezioni in classe.

Compito del docente è quello di accompagnare gli allievi nella formazione della persona e ciò può essere possibile solo in un tempo dilatato, per un'educazione permanente (C.C.E., 2001).

Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

giovedì 21 gennaio 2016

SHEMA (ASCOLTA) - PERCORSO DIDATTICO SULLA SHOAH -



Destinatari: studenti di Scuola Secondaria di Secondo Grado
Tempi: 2/3 ore circa.
Testi utilizzati:
  • Primo Levi: Shema
  • Anna Segre: Per Ida .Non credo alla salvezza dei carnefici
  • Paul Celan: Salmo
  • Pavel Friedman: La farfalla
  • Wislawa Szymborska: Ogni caso
  • Dan Pagis: Scritto a matita in un vagone piombato
  • Martin Niemoller: Prima sono venuti per gli Ebrei
Introduzione

Questa unità didattica è una risorsa interdisciplinare per l'insegnamento della Shoah: consiste nell'utilizzo di alcuni testi poetici, da immagini e testimonianze filmate. L'approccio interdisciplinare tra poesia , pittura e immagine apre percorsi alternativi consentendo ai lettori di applicare differenti capacità nel misurarsi col materiale proposto.

Obiettivi

  • Approfondire lo studio della Shoah attraverso la poesia
  • Affrontare l'universalità degli insegnamenti che si possono trarre dalla Shoah
  • Sollecitare gli studenti ad esprimersi con l'arte
Motivazioni

L'idea di usare la poesia per studiare la Shoah deriva dalla convinzione che un contributo personale, quale è un testo poetico, possa essere talvolta più efficace di un contenuto storico nell' attivare l'interesse iniziale negli studenti; le poesie hanno un punto di vista interno, al loro centro sta la dimensione umana e questo può generare un’attenzione più immediata di quella prodotta dall'impersonalità del racconto storico. 

Metodologia

I testi proposti possono essere affrontati a grande gruppo sotto la guida dell'insegnante, ma anche affidati agli studenti che li leggono e analizzano in piccolo gruppo e poi li illustrano al grande gruppo, fornendo le loro riflessioni e sollecitando commenti.
L'attività, seguita ad un inquadramento storico della Shoah, può servire a facilitare la partecipazione diretta degli studenti, evitando una fruizione passiva delle lezioni di Storia.
I suggerimenti per l'analisi che vengono forniti in questa unità possono essere solo lo spunto per altre intuizioni e interpretazioni da parte dei ragazzi.
La scelta dei testi di questa unità copre un lungo lasso di tempo che va da prima a durante e dopo la Shoah, ma non forma un quadro completo del fenomeno storico; i testi sono piuttosto come tessere di un complesso mosaico che raffigurano parti diverse dell'insieme; non sono collegati né interdipendenti tra loro anche se, studiandoli in modo approfondito, si possono cogliere relazioni tra alcuni di essi. 


SHEMA 

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi. 

Primo Levi, "Se questo è un uomo", Torino, Einaudi, 2005

 Suggerimenti per l'insegnante


 Il testo si divide in 3 parti: la descrizione della Shoah è incuneata tra l'immagine della vita confortevole e normale del dopoguerra e il severo monito degli ultimi versi. 
  1. L'ultimo verso cita la parte centrale di una preghiera della liturgia ebraica (versi 3.6) ed il titolo della poesia, Shema, è anche la prima parola della preghiera e significa ”ascolta”; la parafrasi che Levi fa dei 4 versi della preghiera fa da sfondo al potente monito alle future generazioni perché educhino i loro figli alla lezione che ci può insegnare la Shoah.
  2. La durezza della minaccia racchiusa nei tre versi finali scritti durante il primo anno dopo la liberazione da Auschwitz suggerisce le emozioni che sono in gioco , forse è l'espressione del bisogno di trasformare le terribili esperienze in qualcosa di positivo per le future generazioni.
La poesia si trova all’inizio del celebre romanzo di Primo Levi “Se questo è un uomo” (che narra la terribile esperienza dell’autore, internato nel campo di sterminio di Auschwitz) e ne costituisce, in un certo qual modo, l’introduzione e la chiave di lettura.
Il testo si compone di 23 versi liberi che presentano una fortissima efficacia espressiva.
Nella prima parte della poesia (vv. 1-4) l’autore si rivolge agli uomini che non hanno subito l’esperienza tragica della guerra e dell’olocausto; agli uomini che “vivono sicuri nelle loro case e possono godere del cibo e degli amici” cioè di tutti quei bisogni primari che ognuno di noi reputa essenziali e scontati.
Segue (vv. 5-15) una sintetica, ma cruda presentazione della condizione degli internati nei campi di sterminio, uomini o donne. Il poeta invita il lettore a meditare sulla terribile condizione disumana alla quale furono costretti coloro che il nazismo riteneva esseri destinati all’annientamento: uomini sfruttati fino all’esaurimento fisico e psicologico, obbligati ad umiliarsi e a perdere la loro dignità, sottoposti a ordini assurdi, e all’incertezza di una morte determinata da un sì o da un no. Parallelamente donne ridotte ad animali, senza capelli, senza nome, senza più neppure la caratterizzazione di femminilità e di maternità.
La terza parte della poesia (vv. 16-20) è un ordine che Levi dà a tutti gli uomini, quello di ricordare queste cose, di parlarne con i propri figli, di scriverle nel proprio cuore per non dimenticarle. Le parole ricalcano, quasi interamente, il precetto del Decalogo secondo la versione di Deuteronomio 6, 6-7 “Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi  nel cuore, li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua …” il che li rende più solenni e conferisce loro una valenza religiosa.
L’ultima parte del componimento (vv. 21-23) è una vera e propria imprecazione nei confronti di coloro che non avranno seguito l’ammonimento; Levi invoca per costoro una sorta di maledizione, augurandosi che la loro casa sia distrutta, che la malattia li colpisca, e che i loro figli li rinneghino. Il tutto assume, data la solennità del contesto, una valenza quasi religiosa e sembra rifarsi alle maledizioni bibliche (ad esempio le piaghe dell’Egitto).
Sicuramente l’importanza di quanto accadde e la gravità di quei fatti, decisamente atroci e certamente irripetibili, impone all’uomo di ogni epoca una riflessione attenta ed una meditazione profonda sul rischio che corre l’Umanità, laddove vengano smarrite le più elementari regole del rispetto della dignità della persona.
Dal punto di vista stilistico, il testo è ricco di figure retoriche, che hanno lo scopo di dare maggiore espressività ai concetti esposti. Possiamo notare:

  • l’anafora (ripetizione di termini ad inizio verso): “Voi che … Voi che; Che … Che … Che ; Senza … Senza
  • la similitudine “Come una rana d’inverno
  • la metafora “Scolpitele nel vostro cuore
Il pregio di questa poesia, che va comunque integrata con la lettura del romanzo, è quello di riuscire a dire in pochi versi, e a farcelo capire, la gravità di un dramma che è stato sicuramente il peggiore che la Storia abbia subito.
 


Primo Michele Levi nacque a Torino nel 1919 da una famiglia di origini ebraiche. Dopo un’infanzia difficile a causa di numerose incomprensioni con il padre, Levi frequentò sia le superiori che l’università a Torino, iscrivendosi  al corso di laurea in Chimica. Fu proprio durante i suoi anni universitari che in Italia entrarono in vigore le leggi razziali del 1938, che introducevano gravi discriminazioni ai danni dei cittadini italiani che il regime fascista considerava “di razza ebraica”, leggi che provocarono non pochi disagi alla sua vita universitaria. Nonostante ciò, riuscì a laurearsi con pieni voti nel 1941, ma a causa delle discriminazioni sempre più aspre fu difficile per lui trovare un impiego nel settore, così nel 1942 si trasferì a Milano, dove iniziò a lavorare presso una fabbrica svizzera di medicinali e contemporaneamente iniziò la sua carriera letteraria e soprattutto politica, iscrivendosi al Partito d’Azione clandestino, di natura antifascista, e successivamente unendosi al nucleo partigiano operante in Val d’Aosta (la cui esperienza è sempre stata raccontata con molta reticenza).
Per questa sua appartenenza, venne arrestato nel dicembre del ’43 dalla milizia fascista e trasferito dapprima nel campo di Fossoli e poi nel febbraio del 1944 fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, dove rimase fino al 27 gennaio del 1945. Fu uno dei 20 sopravvissuti dei 650 ebrei deportati con lui.
L’esperienza nel campo di concentramento lo sconvolse sia fisicamente che psichicamente e lo portò a voler mettere nero su bianco l’incubo vissuto da lui e da milioni di altre persone, attraverso memorabili testi come “Se questo è un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati”. Una scrittura terapeutica che però non bastò a fargli dimenticare gli orrori della guerra.
L’11 aprile 1982, Primo Levi morì cadendo dalla tromba delle scale della sua casa di Torino: molti sospettarono che si trattasse di suicidio anche se l’ipotesi non è mai stata confermata.

Le opere

La bibliografia di Primo Levi è molto lunga e copre l’intero periodo della sua carriera da scrittore, senza considerare le numerose opere uscite dopo la sua morte. Una fra tutte è sicuramente “Se questo è un uomo” (De Silva, 1947), romanzo-testimonianza di Levi sul suo periodo vissuto nel campo di concentramento.  Dello stesso filone troviamo “La tregua” (Einaudi, 1963), vincitore del libro Campiello, dove l’autore racconta il suo lungo e non facile viaggio di ritorno dal lager verso l’Italia.
Con lo pseudonimo di Damiano Malabaila viene pubblicato nel 1966 “Storie naturali” (Einaudi), una serie di racconti scientifici e fantascientifici, temi che verranno trattati anche in altre opere, come “Vizio di forma” (Einaudi, 1971) e “Il sistema periodico” (Einaudi, 1975), questa volta però con il suo vero nome.  Quest’ultimo è una raccolta di 21 racconti, ognuno  con il nome di un elemento della tavola periodica, ed è incentrato sulla vita professionale di Levi chimico.
La chiave a stella” (Einaudi, 1978) appartiene al filone della letteratura industriale, in voga in quegli anni e narra le imprese di Libertino Faussone, operaio; il libro gli conferì il Premio Strega nel 1979. Nel 1982 pubblica “Se non ora, quando?” (Einaudi), romanzo che narra le drammatiche vicende dei partigiani ebrei polacchi e russi nella Seconda Guerra Mondiale. Il filone di guerra in vena talvolta autobiografica lo ritroveremo ancora ne “L’ultimo Natale di guerra” (Einaudi, 2000), raccolta di memorie sulla guerra e sul lager, nella raccolta di poesie “Ad ora incerta” (Einaudi, 1984) e ne “I sommersi e i salvati” (Einaudi, 1986), analisi approfondita sull’universo concentrazionario che Levi fa partendo dalla sua esperienza di prigioniero nel campo fino ad arrivare al confronto con situazioni simili, come i gulag sovietici.



 Se questo è un uomo


Il testo non nasce come documento di denuncia, bensì come testimonianza e monito per e generazioni future e per tutti nel non dimenticare un avvenimento così sconvolgente.  Lo stesso Levi dichiarò che il libro era nato fin dai giorni di lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi ed è scritto per soddisfare questo bisogno. L'opera, durante la sua genesi, fu comunque oggetto di rielaborazione. Al primo impulso da parte di Levi, quello di testimoniare l'accaduto, seguì un secondo, mirato ad elaborare l'esperienza vissuta, il che avvenne grazie ai tentativi di spiegare in qualche modo l'incredibile verità dei lager nazisti.


La lettera inedita

 

È di qualche tempo fa la pubblicazione sul quotidiano La Stampa di una lettera inedita di Primo Levi a una bambina allora di 11 anni, Monica Perosino. 
La bimba, dopo aver seguito la lezione su Primo Levi ed aver letto la poesia "Se questo è un uomo" che fa da introduzione al libro, scrisse una lettera a Levi, chiedendogli "Perché nessuno ha fermato l'orrore?, i Tedeschi erano cattivi?". Lettera alla quale Levi rispose così:
"Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi".




PER IDA. NON CREDO ALLA SALVEZZA DEI CARNEFICI 

Non credo nella salvezza dei carnefici
bensì nella logica del campo.
Non ho trovato negli anni
motivazioni che mi placassero
né quello che ho perso
qualcuno può restituirmelo.
La rabbia è inane
il dolore mescolato
al caos della distruzione.
Smistare montagne di vestiti
oggetti cibo valige occhiali scarpe
per due anni
ti dà l'esatta entità dello sterminio.
Meglio per voi
che non capirete mai,
poiché quello che racconto
non è che l'ombra di quello che è stato.
Meglio per voi.
Non credo non credo non credo,
tanto meno alla salvezza di chi si è salvato.
Il mio tempo è fermo.
Mangio, però
E mi concentro sui trenta passaggi
per glassare le castagne. 

Anna Segre


Ida Marcheria 


Prima dell'arresto

Siamo nate a Trieste, in una famiglia ebrea come tante altre, ebree o cristiane, in un appartamento in piazza della Borsa, vicina a piazza Grande, quella che oggi si chiama piazza dell'Unità. Mio padre, che si chiamava Ernesto, era commerciante di prodotti kasher, prodotti di vario tipo come carne, azzime, e tanti altri. Vendeva e commerciava in un bel negozio, frequentato dai membri della nostra Comunità, ma anche da tanti triestini non ebrei. Mia madre, Anna Nacson, era invece una casalinga e come la maggior parte delle donne allora - ma anche oggi tocca sempre a loro - si occupava di noi figli. Il maggiore di noi si chiama Giacomo ed era nato nel 1926. C'era poi Raffaele, che era del 1927. Poi io e Stella, da tutti chiamata Stellina anche per distinguerla dalla nonna che aveva lo stesso nome. Noi eravamo le bambine, le piccole di casa.
da sinistra, Hanna Schwartz, Ida e Stellina Marcheria, Trieste, ottobre 1943, pochi giorni prima dell'arresto.


La nostra fu un’infanzia piuttosto felice, non avevamo grossi problemi e potevamo vivere tranquillamente. Il nostro era il tempo dello studio, dei giochi e i nostri genitori, con molta attenzione e tatto, lasciavano che ci raggiungesse solo ciò che non poteva arrecarci turbamenti. Anche in questo eravamo bambini come tutti gli altri.
Trieste, una gran bella città, era, come si direbbe oggi, multiculturale, multietnica: c'erano ebrei, anche originari della Grecia - molti come il nonno provenivano da Corfù - austriaci, ungheresi, sloveni, italiani ovviamente, insomma Trieste era una gradevole Babele di lingue, dialetti, di gusti, di profumi, di sapori. Una città di confine e di conseguenza di ricchezze culturali composite e magnifiche. Purtroppo, anche in un tessuto sociale così ricco e articolato, non mancavano i veleni per gli scontri, a volte molto violenti, fomentati, per lo più, dai fascisti nei confronti degli slavi. Ma noi, piccoli di casa, anche da queste violenze, eravamo protetti.


 
 Ida nel 1943



Le leggi razziali

Improvvisamente, tutto cambiò. Nel 1938, in novembre, il fascismo emanò le leggi razziali. Allora avevo nove anni... Giorno per giorno ci trovavamo senza più punti di riferimento, non avevamo più alcun luogo ove sentirci protetti e al sicuro. Fu un processo molto lungo e parecchio umiliante. Qualcuno sostiene, oggi, che fu poca cosa. Non è assolutamente vero! Fu mortificante e doloroso. I genitori persero il posto di lavoro, scontrandosi
con la dura realtà di dover portare avanti, tra enormi difficoltà, la famiglia. Nutrirla, vestirla, accudirla in tutte le elementari necessità. Non c'era più niente di decoroso nella vita quotidiana. Professionisti di valore, stimati da tutta la città, si videro cacciare dalle scuole, si impedì loro di svolgere una attività, spesso per tutti, ebrei e non, importante e necessaria. I bambini furono cacciati dalle scuole pubbliche, costretti a dividersi dai loro compagni, tra vergogna, rabbia e pianti. Difficoltà continue, proibizioni sempre più numerose, sempre più avvilenti. Tanti si videro costretti a lasciare la città, a lasciare l'Italia. Perdemmo così molti amici, tra i più cari. Ai commercianti, oltre al ritiro della licenza, vennero più volte sfasciate le vetrine dei loro negozi. Si proibì, anche con la violenza, che i non ebrei li frequentassero. Fu anche per questo che mio padre perse molti suoi clienti. No. Non direi proprio, non si può con onestà affermare che le leggi razziali furono ben poca cosa.




L'arresto

Era mattina presto, ci eravamo appena alzati quando sentimmo prima suonare con insistenza e poi bussare con violenza alla porta. Quando mio padre, come tutti noi sorpreso, ha aperto, questi uomini sono entrati subito in casa, nel nostro appartamento senza neanche chiedere il permesso, senza proferire parola. Si sentivano padroni, pieni di autorità, signori della nostra quotidianità. Colpirono le nostre vite, le sconvolsero per sempre.

Uno di loro aveva un foglio in mano, sembrava essere una lista di nomi. Erano infatti i nostri nomi. Ebbi l'impressione che ci conoscessero già tutti, che sapessero tutto della mia famiglia. Sapevano quanti eravamo, perché nella lista compariva il nome di mio padre, quello di mia madre, comparivano quelli dei nostri fratelli e il mio con quello di Stellina. ....



Stellina nel 1943
La fretta, la paura, l'incertezza, la tremenda tensione che si era impadronita di noi, tutto ci mise in uno stato di indicibile tensione.

Non potevamo certo sapere che ciò che stavamo, in quel momento, vivendo era ben poca cosa rispetto a quanto ci sarebbe accaduto nei giorni a venire. Era veramente impossibile il solo immaginarlo. Anche lontanamente.
... Un tedesco mi avvicinò e io, senza pensarci più di tanto, mi sfilai i braccialetti, di poco valore se non affettivo, cose da ragazzina insomma, e glieli porsi. Lui continuò a guardarmi, alzando la voce, sbraitando mi disse qualcosa che io non potevo capire. Non conoscevo il tedesco, la sua lingua mi suonava strana, assurda, cattiva e in ogni modo incomprensibile. Improvvisamente, con una aggressività che non riuscirò mai a dimenticare, allungò le sue mani, pesantemente sul mio viso, sulle mie orecchie. Cercava di strapparmi qualcosa, con rabbia e con violenza. Spaventata, totalmente sconvolta, cercai di fare un passo indietro. Solo in quel momento mi vennero in mente gli orecchini che indossavo. Cercava di strapparmeli, con quelle sue mani grosse e ruvide. Provai come una scossa. Capii che erano quelli che lui rabbiosamente voleva. Con le mani tremanti, me li sfilai e glieli allungai. Da allora, io non porto più orecchini.
Guardai la mamma per trovare qualche conforto, ma lei non si era accorta di quello che mi era capitato. Incontrai, invece, gli occhi della signora Cesana. Mi si avvicinò e, stringendomi a sé, mi disse: "Non aver paura, presto torneremo a casa e io ti preparerò una bella torta alla cioccolata, tutta per te".
Pur in quel momento, così drammatico, si era ricordata della mia passione per la
cioccolata!
Terminata la razzia dei nostri beni, dopo averci depredato di tutto, i tedeschi c'informarono che il mattino successivo dovevamo farci trovare pronti per il trasferimento. Senza rivelarci di che trasferimento si trattasse e per quale luogo. Imparammo dopo che questa era la loro
norma.
Auschwitz-Birkenau, selezione alla Judenrampe




Aushwitz, la Judendrampe

La Judenrampe! Il caos, il terrore, l'anticamera dell'inferno. Credo che non ci saranno mai parole sufficienti e tali da poterci fare capire, e da parte mia da rendere benché minimamente comprensibile, ciò che accadeva su quel binario. Si potrà mai capire cosa e con quale violenza scuotesse l'animo dei deportati al loro arrivo sulla Rampa degli Ebrei? No, non bastano tutte le parole che conosciamo, tutte le parole del mondo. Scese, anzi meglio, saltate dal carro bestiame, ci trovammo in un girone allucinante di suoni, di grida, di urla. In una lingua dura, feroce, incomprensibile. I tedeschi, le SS urlavano ordini che nessuno capiva, su tutti grandinavano botte e bastonate, i cani, tanti cani abbaiavano, latravano eccitati e infuriati.
Digrignando i denti, cercando di aggredire noi poveretti in preda al panico. Un po' le SS li trattenevano, un po' li aizzavano. Tutti, e noi tra loro, cercavamo con occhi smarriti di trovare i nostri cari, il padre, la madre, i fratelli.
Sempre tra urli e bastonate ci fecero lasciare sulla rampa i nostri fagotti, le nostre valigie. Guai cercare di tenere con sé qualcosa, anche la più piccola cosa. A botte e spintoni, senza alcun riguardo per niente e per nessuno, ci fecero disporre in due file. Ci prepararono per la selezione. In una colonna gli uomini, nell'altra le donne con i bambini. Stellina e io eravamo con la mamma. Lentamente le due file avanzavano verso un ufficiale tedesco, una SS glaciale nella sua indifferenza che, a volte quasi con aria annoiata, indicava con un frustino a ciascuno se andare alla sua destra o alla sua sinistra. Il suo sguardo non pareva nemmeno vederci. Era Mengele, il medico selezionatore, l'angelo della morte.


Birkenau, donne e ragazzi già destinati alle camere a gas
La selezione

Mentre la selezione era in corso ci si avvicinò un uomo, neanche poi così male in arnese, vestito con uno strano abito a righe grigie e blu. Ci guardò solo per un attimo, facendo scivolare lo sguardo frettolosamente, poi guardando altrove; fingendo attenzione per altro da noi, con molta circospezione, parlando italiano mi chiese quanti anni avessi. "Quattordici" risposi. "No, tu ne hai sedici". Pensai fosse matto. D'altro canto tutto ciò che vedevo intorno a me non poteva che farmi credere di essere arrivata nel mondo dei matti, nel mondo della follia. Ma come, ho quattordici anni e questo strano essere pretende di sapere meglio di me la mia età! Se ho quattordici anni perché mai devo dire sedici? Ma che ne sa, se nemmeno mi conosce. Poi fece la stessa domanda a Stellina. "Tredici anni da pochi giorni" disse mia sorella. "No, tu ne hai quindici, capito! Ne hai quindici". Allontanandosi ancor più circospetto, come se temesse che le SS avessero potuto vederlo nel rivolgerci la parola, ci ripeté ancora una volta: "Tu ne hai sedici e tu quindici. Ricordatevelo! ". Ma prima di rivolgersi ad altri prigionieri e con ben poco garbo ci spintonò verso la nostra fila. Toccò a noi arrivare davanti alle SS. Senza una parola, con un gesto secco venimmo indirizzate nella fila meno numerosa.

 
Birkenau, donna con bambini



Nostra madre aveva capito

Nostra madre andò nell'altra. Ma questo non ci interessò, non era quello che in quel momento per noi era importante. Da una parte o dall'altra per noi nulla significava. Avevamo già perso di vista mio padre e i nostri fratelli Giacomo e Raffaele, anche se erano nella nostra colonna. Cercavamo la mamma. Ci guardammo intorno per individuarla. I nostri occhi, seppur stanchi e sbarrati dal terrore, la cercarono nella fila che s'ingrossava sempre più di donne e bambini. Non la trovammo. Poi la vedemmo su di un camion. Volevamo andare con lei, ma non ci fu possibile. Qualcuno ci disse che l'avremmo ritrovata nel campo. Gli anziani, i meno forti ci avrebbero preceduto. Che tragica bugia! Mamma non piangeva. Lei aveva capito. "Bambine mie" ci disse "cercate di stare sempre insieme". Poi i camion, non pochi e tutti strapieni di donne e bambini ammassati come bestie, si avviarono. Verso dove nessuno di noi sapeva e poteva immaginare. Vedemmo mamma allontanarsi, senza una lacrima. Non l'abbiamo più vista.



Kanada Kommando

Quando arrivammo [al Kanada Kommando], quello che ebbi modo di vedere mi lasciò di stucco. Le baracche erano piene fino al soffitto di vestiti, di valigie, di coperte, di scarpe... di tutto! Da non poter immaginare, incredibile. Era tutta la nostra roba, i beni di tutti i deportati, quelli ancora vivi ma soprattutto di quelli ridotti in fumo. Delle nostre madri, dei fratelli, dei figli. Il frutto di una inimmaginabile, criminale rapina.
Io sono nata lì, al Kanada ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile. Le SS, i nazisti ci avevano rubato tutto e noi non potevamo nemmeno toccare. Tutto era verboten, proibito, tutto era esclusiva proprietà del Reich. Noi pure, noi per primi. Ci insegnarono il lavoro, ci insegnarono rudemente a scegliere tra quanto continuamente, senza sosta ci arrivava, in grande quantità, ogni giorno, e a dividere il meglio dal peggio. Gli stracci, i Lumpen, da una parte, le cose migliori e utilizzabili da inviare ai buoni cittadini del Reich da un’altra. A noi una copertaccia nera e un paio di ruvidi, scomodi zoccoli, a loro calde coperte, piumini, comode scarpe di pelle, orologi, tappeti... Oro, gioielli, brillanti, beni preziosi, medicine – così necessarie nel campo – soldi dovevano essere consegnati agli ufficiali delle SS che ci controllavano minuto per minuto, dalla mattina alla sera. Se un ufficiale vedeva che una di noi tentava di “organizzare”, di rubare un gioiello, estraeva la rivoltella e, a bruciapelo, uccideva la ladra. Alla fine del turno, prima di tornare in baracca, venivamo perquisite. In fila, tutte nude, con la divisa in mano. Le SS, senza alcun riguardo, erano pronte a esplorare persino il nostro corpo anche nelle parti più intime.

Ogni giorno toccava a noi selezionare, accoppiare, fare grossi pacchi che, una volta riportati sulla rampa ferroviaria, prendevano strade per noi allora sconosciute. Poi abbiamo saputo che erano quelle non solo per la Germania ma anche per la Svizzera, per il Brasile, per l'Argentina. Anche l'oro dei denti dei nostri morti è finito lì. Noi non potevamo prendere nulla, ma gli ufficiali delle SS si servivano in abbondanza. Per se stessi e per le loro mogli. Quando arrivava un trasporto "ricco", non dai ghetti ma come quelli degli ebrei ungheresi, dovevi vedere come si precipitavano. Come falchi. Anche le ragazze del Kanada rubavano, sfidando la morte, per sé e per le loro compagne del campo.
 
Birkenau, donne addette alla selezione degli oggetti provenienti dai vari trasporti. Sullo sfondo, in alto, è possibile vedere le cime dei camini


La camera a gas

Anch'io finii davanti all'entrata della camera a gas. Con altre compagne avevo gettato del pane a persone di un trasporto appena arrivato. In attesa del loro ignoto appuntamento con l'inferno delle SS. Le kapò ci avevano scoperte e alcune di noi, forse quelle che già da prima venivano tenute sotto un più attento controllo, furono subito portate con la forza nel cortile del crematorio. Mentre eravamo sul piazzale in attesa che la camera a gas si rendesse disponibile, arrivò con la sua motocicletta una hauserka, una delle guardiane SS, le più cattive e perverse. Erano sempre rabbiose, violente, giravano per il campo in motocicletta e sempre accompagnate da un cane persino più rabbioso di loro. Mi guardò, pensò forse che mi avevano mandato al crematorio perché non più idonea al lavoro. Ma evidentemente il mio aspetto non era tale da giustificare questa decisione. Mi urlò, quindi: "Augenfressen, zu arbeiten", tu stai bene, vai a lavorare. "Zu arbeiten". Non me lo feci ripetere un'altra volta e tornai, e di corsa, al lavoro. Forse non furono nemmeno le sue parole a salvarmi, anche se furono determinanti in quel momento. Mi salvò ancor prima il fatto che la camera a gas era troppo affollata, che era già impegnata nella sua quotidiana opera di sterminio. In ogni modo se l'hauserka fosse passata mezz'ora più tardi, anch'io sarei diventata fumo.


 
Birkenau 1943, deportati in attesa di entrare nella camera a gas


Il ritorno

Ero rientrata a Trieste con un paio di scarpette da ciclista che mi aveva regalato un soldato italiano. Ero tornata dall’inferno di Auschwitz nuda e cruda, tenendo per mano mia sorella. Ed era come se nulla fosse accaduto. Trovammo che casa nostra era stata occupata da un fascista con la sua famiglia. Era stata data a lui, per chissà quali alti meriti, così come l’avevamo lasciata. Con ancora le posate sul tavolo, con le nostre provviste, con il pranzo già preparato sui fornelli, con la biancheria pulita pronta a sostituire quella da lavare. Con i nostri giochi di ragazzi e con i nostri libri.
La vita di una persona è fatta anche di tanti oggetti, piccoli o grandi, spesso di nessun valore o apparentemente insignificanti per gli altri. Ma per quella persona e solo per lei hanno valore inestimabile. Sono legati a un ricordo, a una amicizia: una penna, una spazzola, un nastrino, una fotografia. Io non sono riuscita a recuperare neanche un oggetto, una piccola cosa della mia vita passata. Come volevano i nazisti, nel loro lucido piano criminale. Niente oggetti, niente ricordi, niente vita. Il fascista che aveva occupato la nostra casa non aveva alcuna intenzione di ridarcela. Fummo perciò costrette a chiedere ospitalità, almeno un letto dove dormire, a qualche conoscente.

 



Ritorno a Birkenau

Poi abbiamo cercato di ricostruirci una vita. Abbiamo frugato nelle case dei nostri parenti, che erano sopravvissuti alla Shoah, per cercare qualcosa della nostra famiglia. Anche solo una fotografia che potesse alimentare i nostri ricordi di un tempo felice. Che potesse ridarci il volto dei nostri famigliari scomparsi nel cielo polacco... Abbiamo elemosinato i nostri ricordi.
Poi mi sono sposata, povera, senza un soldo. Anche Stellina si è sposata. Poi i ricordi, le notti d'angoscia, l'incubo continuo di nome Birkenau l'hanno sopraffatta. Ci ha lasciati. Io ho avuto un figlio e il regalo di due nipoti. Anche Giacomo si è sposato e ha avuto quattro figli e quattro nipoti. ... Mio marito aveva un laboratorio di cioccolata, una cioccolateria - che ancora oggi gestisco con mio figlio.


Oggi mi chiedono più volte se ho mai pensato di tornare ad Auschwitz, di tornare a camminare, da persona libera, tra le baracche di Birkenau. Non sarei mai voluta tornarci. Poi alcuni superstiti, e tra questi Shlomo Venezia, che abita a Roma e con il quale mi incontro continuamente, e il sindaco della mia città mi hanno convinto a fare con loro un viaggio-studio al quale avrebbero partecipato numerosi studenti e professori.
Sono tornata ma, devo dire la verità, soprattutto per ricordare i miei, per portare alcuni sassi sulla Judenrampe! Perché sentissero che io sono sempre, in ogni momento della mia vita, il giorno come la notte, nel dolore e nella felicità, con loro.
Perché ogni notte io torno a Birkenau.
C'è anche chi afferma che è giunto il momento di perdonare.
Io non posso perdonare. Non perdonerò mai.




Il libro

Il racconto di Ida Marcheria e le immagini di archivio sono tratte dal libro Non perdonerò mai di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi, ed. Nuova dimensione e riprodotte per gentile concessione dell'editore.







Salmo
 
Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango,
nessuno rianima la nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato, Nessuno.
Per amore tuo vogliamo
fiorire.
Incontro a
te.
Un Nulla
fummo, siamo, resteremo
noi, in fiore:
la rosa di Nulla, di
Nessuno.
Con
il pistillo chiaro-anima,
lo stame deserto-cielo,
la corolla rossa
per la parola porpora, che cantammo
al di sopra, oh al di sopra
della spina. 

Paul Celan

Paul Celan nasce a Czernowitz, in Bucovina, nel 1920; nel 1942 vede i genitori deportati ad Auschwitz, lui sopravvive alla Shoah ma non supera mai il trauma e si suicida nel 1970. Il suo lavoro, acclamato nel mondo, è potente, originale, spesso ambiguo e profondamente tragico. 
Suggerimenti per l'insegnante

1.   Questo testo è stato pubblicato negli ultimi anni di vita dell'autore, quando la sua poesia era diventata sempre più scarna e di ardua comprensione; nondimeno il tema dei rapporti tra Dio e l'Umanità è intuibile.
2.   Il titolo della poesia che si riferisce ad una preghiera crea ulteriore tensione con la negazione di Dio del testo e può dare luogo ad una discussione.
3.    Negli ultimi versi la negatività scaturisce dalla descrizione della rosa non con la sua bellezza ma con la sua arma , “la spina”.
 







LA FARFALLA

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!
l’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere di castagno
nel cortile.
Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

 Pavel Friedman

Pavel Friedman era un giovane poeta che viveva nel ghetto di Theriesenstadt; di lui si sa poco ma si presume avesse circa 17 anni quando scrisse questo testo; fu deportato ad Auschwitz dove morì il 29 Settembre del 1944. 

Suggerimenti per l'insegnante

1.  Il testo è stato scritto nel Ghetto di Theresienstadt, il 4 Giugno 1942. la poesia fu trovata in un nascondiglio pieno di lavori infantili, che erano stati nascosti allo sguardo dei carnefici Tedeschi per essere ritrovati dopo la guerra.
2.  Il testo alterna ottimismo e pessimismo: gli studenti possono elencare i dati positivi e quelli negativi del testo, scritto da un giovane della loro stessa età.
3.  L'attenzione del giovane poeta sulla farfalla può essere simbolica, collocata nel contesto della vita nel Ghetto.
 







OGNI CASO

Poteva accadere.
Doveva accadere.
E’ accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E’accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore. 

 Wilslawa Szymborska

Wisława Szymborska nasce in Polonia nel 1923 e vive a Cracovia. Tra il 1945 e il 48 studia letteratura Polacca e Sociologia nell'Università Jagellona; debutta nel 1945 con la poesia “Szukam Slowa”(Sto cercando una parola) sul quotidiano Dziennik Polski. E' stata editor, giornalista e traduttrice, è stata insignita del premio Nobel per la Letteratura nel 1996. E' morta il 1 Febbraio 2012.
Questa poesia è uscita nella raccolta “Vista con granello di sabbia”, Adelphi 2009.

Suggerimenti per l'insegnante

1. Wislawa Szymborska è stata uno dei poeti più importanti della Polonia dopo la II Gerra Mondiale; lei che aveva 16 anni allo scoppio della guerra ha reso internazionale il dolore delle vittime del Nazismo. Gli ultimi due versi del testo esprimono questa empatia.
2. Il testo vuole anche esprimere come il destino delle vittime fosse legato al caso durante la Shoah; il secondo verso: “a destra, a sinistra” potrebbe riferirsi alla casualità della Selektion, il processo messo in atto sulla rampa ferroviaria ad Auschwitz e Majdanek
3.  Gli ultimi versi, ed in particolare il verso “un buco nella rete” sottolinea il piccolo numero dei sopravvissuti, tra cui colui a cui è dedicata la poesia.

SCRITTO A MATITA IN UN VAGONE PIOMBATO

Qui, in questo convoglio,
io Eva
con mio figlio Abele
Se vedrete mio figlio maggiore
Caino, figlio di Adamo,
ditegli che io 

 Dan Pagis

Dan Pagis era uno scrittore Ebreo nato in Bucovina nel 1930; ha trascorso isuoi anni giovanili in un campo di concentramento in Ucraina, da cui riuscì a fuggire. Trasferitosi in Israele insegnò Letteratura Ebraica Medievale all'Università Ebraica di Gerusalemme. E' diventato una delle voci più importanti nella poesia Israeliana contemporanea; i riferimenti alla Shoah sono spesso obliqui e filtrati attraverso l'uso di immagini bibliche. E' morto nel 1986.

Suggerimenti per l'insegnante

1.  In un testo brevissimo di soli 6 versi Pagis riesce a convogliare il dolore ed il terrore della Shoah: nella prima famiglia universale la madre chiede di mandare un messaggio all'altro figlio, e tale messaggio rimane inespresso.
2. Dai brevi versi emergono molti temi: la prima uccisione nella storia dell'Umanità, il bisogno di lasciare testimonianza, il ruolo delle madri e la Shoah.
3.  Pagis accenna soltanto all'uccisione del fratello da parte di Caino e il titolo è l'unico luogo nel quale si allude alla Shoah.; questo tocco lieve serve a potenziare la forza dei temi nascosti nel breve testo.
 







Prima vennero


Prima vennero per gli Ebrei,
e io non dissi nulla
perché non ero Ebreo.
Poi vennero per i Comunisti
io non dissi nulla
perché non ero Comunista.
Poi vennero per i Sindacalisti,
e io non dissi nulla
perché non ero Sindacalista.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno
che potesse dire qualcosa. 

  Martin Niemöller

 Martin Niemöller era un religioso e teologo Tedesco, nato in Germania nel 1892. All'inizio sostenne le politiche di Hitler poi si oppose ad esse. Fu arrestato e rinchiuso a Sachsenhausen e poi a Dachau da dove fu liberato dalle truppe alleate nel 1945. Ha continuato la sua carriere religiosa in Germania ed è diventato un noto pacifista. 


Suggerimenti per l'insegnante

1.  Questo testo, come “ Ogni caso” della Szymborska, rappresenta i bystanders nel contesto umano della Shoah; Niemoller esprime tristezza per il silenzio tenuto di fronte all'aggressione nazista verso gli esclusi.
2.  Il messaggio del testo è che i carnefici hanno potuto agire indisturbati senza fronteggiare alcuna opposizione arrestando gli oppositori politici e religiosi del regime.
3. Dal punto di vista storico i gruppi non sono stati perseguitati nell'ordine presentato dal testo, la forza dell'attacco contro gli Ebrei aveva un peso maggiore per alcuni religiosi e questo si riflette nella sequenza presentata da Niemoller.



































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