“Silenzio,
le donne dovevano stare zitte”.
Ad avvalere il detto sofocleo c’è una
dea, una divinità romana, una creatura infera, onorata il 21 febbraio: Tacita
Muta.
Era una ninfa, una naiade, figlia del fiume Almone; il suo nome
originario era Lara, Lala o Larunda, che aveva le radici del verbo greco
“laleo” (parlo).
Quindi, una volta parlava, ma piuttosto a sproposito!
Un
giorno ebbe l’imprudenza di rivelare il suo segreto alla sorella Giuturna, in
altre parole l’amore che Giove nutriva per quest’ultima e gli invani tentativi
di seduzione del Dio.
Giove, infuriato per questa indiscrezione, la punì
strappandole la lingua. Dopo averla ridotta al silenzio, ingiunse a Mercurio di
accompagnarla fino al regno dei morti. Durante il viaggio, questi la violentò,
sicchè la ninfa concepì e partorì due gemelli, i Lari, le divinità che
vegliavano sui confini e proteggevano la città.
Lara, secondo questo mito, venne
venerata sia come dea del silenzio che come madre dei Lari.
Ogni anno si
celebrava in suo onore la festa del silenzio con un rito che consisteva nel
sistemare con tre dita tre grani d’incenso in un buco di topo, sotto la porta.
Inoltre si legavano dei fili incantati ad un fuso, tenendo in bocca sette fave.
Tra l’altro si cospargeva di pepe una testa di menola (un piccolo pesce, un
animale muto per eccellenza), lo si metteva ad arrostire e, dopo averla
irrorata di vino, si beveva quello che era rimasto.
Tale rito propiziatorio, secondo gli
antichi romani, allontanava le maldicenze. Probabilmente veniva anche adorata
presso il tempio di Vesta, dove la pendice del Palatino trapassava nel Velabro
al termine della Via Nova.
Se si considera Tacita Muta come donna esemplare che
rispetti il silenzio, se ne apprezzano le caratteristiche sia nel mondo romano
che nel mondo biblico.
Come enuncia anche la lettera di S. Paolo a Timoteo, la
donna doveva imparare il silenzio con tutta sottomissione.
Non si doveva
concedere a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo… perché
prima è stato formato Adamo e poi Eva.
Il ruolo della donna nella Roma Antica
era ben definito: moglie e madre.
Il suo universo era quello, chiuso e privato,
della casa. “Lanifica, pia, pudica, frugi, casta, domiseda”: queste le doti di
una donna in un’iscrizione romana. Aggiungendone altre due, silenziosa e
prolifica, si otteneva la perfetta matrona, che tra l’altro era sottomessa al
marito o al padre, e in assenza di questi ad un tutore.
In una famiglia
patriarcale come quella romana il dovere principale della donna era procreare,
per il bene dello Stato.
Molti mariti, nel loro testamento, lasciavano una dote
alla moglie solo ad una condizione: una volta rimasta vedova doveva risposarsi
e fare altri figli.
Una donna prolifica era un bene pubblico, cosicché poteva
succedere che “se un marito romano aveva
un numero sufficiente di figli, un altro che non ne aveva poteva convincerlo a
lasciargli sua moglie consegnandola a tutti gli effetti, o solo per una
stagione”(citazione di Plutarco).
E poteva anche succedere che il marito
“cedeva” sua moglie anche se era incinta.
La donna doveva essere fedele ad ogni
suo eventuale marito.
Esempio assoluto è la matrona Porzia, moglie di Bruto, la
quale alla morte del marito si uccise ingoiando carboni ardenti.
La legge,
infatti, consentiva agli uomini di uccidere le proprie mogli in caso di
tradimento. In questo campo citiamo Lucrezia.
Un giorno, Tarquinio Sesto andò
da lei per supplicarla di diventare la sua amante, ma Lucrezia lo respinse.
Allora egli la ricattò dicendole che se non avesse ceduto, l’avrebbe uccisa e
poi avrebbe depositato il suo corpo accanto a quello di uno schiavo, nudo,
facendo si che tutti pensassero che era stata uccisa “in vergognoso adulterio”. Data la situazione, Lucrezia cedette, non
per paura della morte ma per disonore, e alla fine si suicidò. Dopo questo
episodio, il re Tarquinio il Superbo fu esiliato dagli aristocratici e a Roma
fu proclamata la Repubblica
nel 509 a.C.
Dopo aver parlato della condizione
della donna romana, una donna maltrattata e considerata un oggetto, è
indispensabile ricordare che all’inizio dei tempi c’era la donna, il genere
femminile.
Infatti, i primi miti venerati dall’umanità erano dedicati alla
realtà femminile.
Facendo un salto indietro nel tempo, incontreremo già in era
preistorica delle statuette di pietra, le Veneri, raffiguranti donne gravide e
prosperose. I fianchi larghi e i seni grossi erano simbolo di fecondità ed era
un buon augurio per la continuazione della specie, o semplicemente della tribù.
Tuttavia oggi noi siamo totalmente
abituati all’idea di un Dio di genere maschile da dimenticare che all’origine
dell’umanità c’è il femminile.
Anche per gli Etruschi il principio
creatore è la Madre Terra,
la quale assume nomi diversi. Uni è la dea creatrice per eccellenza (la Giunone dei Romani); la
dea vergine Menerva (Minerva per i Romani) è patrona del sapere e delle arti;
la dea dell’amore, la Venere
dei Romani, è Turan, colei che comanda i cuori. Aprendo una piccola parentesi
vorremmo far notare che dal termine “Turan”
deriva “tiranno”, colui che comanda.
C’è poi una grande famiglia di spiriti
femminili alati: sono le Lase, creature semidivine, che sono immateriali, ma
partecipano attivamente alle vicende terrene.
Thana è la dea della luce lunare.
Una
leggenda narra che una fanciulla, pura e indifesa, assalita da un bruto, abbia
invocato l’aiuto della luce lunare, i cui raggi abbiano spaventato e messo in
fuga il malintenzionato. La luna ha poi permesso a Thana di diventare Dea della
Luna e regina di tutti gli incantesimi.
Al termine “Thana” è legato anche il latino Diana e Thanaquil.
Quest’ultima,
erede di una famiglia aristocratica, è la moglie di Tarquinio Prisco, primo re
di Roma di origine etrusca; esperta in prodigi e divinazioni, annuncia al marito
che diventerà re, dopo aver osservato un’aquila portar via e poi riportare il
suo copricapo.
Infine altra divinità femminile è
Urcla, la dea dell’acqua; essa ha più di un nome, tra cui Voltumna.
A conclusione, è importante rilevare
che, dopo le numerose lotte delle donne per affermare i propri diritti e
perseguire l’uguaglianza prima e la parità tra uomini e donne poi, oggi
possiamo dichiarare che viviamo in un Paese più egalitario in cui la Costituzione sancisce
particolari diritti rilevanti alla condizione sociale della donna.
Per esempio,
l’Art.3 afferma che tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali;
l’Art.21, invece, sostiene che tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione.
Considerando tutto ciò, le donne
devono dire grazie a se stesse e noi dobbiamo prendere atto del grande
contributo che hanno dato alla storia, per convenzione, dell’uomo.
Squillacioti Francesco
Razzano Nicola
Addeo Antonio
Boccardo Luigi
Nunziata Nicola
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