Nietzsche è forse il miglior interprete della fine di un
mondo e del bisogno di rinnovamento di tutta un'epoca: profeta insieme della
decadenza e della rinascita, dà origine alle interpretazioni più discordi, che
si tradurranno nelle influenze più diverse. Volta a volta materialista o
antipositivista, esistenzialista o profeta del nazismo, il filosofo condivide
tutte le ambiguità delle avanguardie intellettuali e artistiche borghesi del
primo novecento e non a caso diverrà oggetto, in Italia, dell'interpretazione
estetizzante di Gabriele D'Annunzio esercitando un indiscutibile fascino sui
futuristi.
Nietzsche divenne così il filosofo della crisi, il fondatore
d'un modo di pensare nuovo. Quanto alla sua idea del superuomo, inteso come il
giusto trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta.
Nietzsche non fu l'estensore d'un vangelo della violenza, ma
intese porre le condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo
radicalmente rinnovate. Nietzsche è uno scrittore asistematico e estremamente
originale, la cui produzione si staglia solitaria nel panorama della storia
della filosofia moderna e contemporanea. Le opere della maturità, in
particolare, sono scritte con uno stile aforistico e poetico: lirismo, tono
profetico e filosofia si mescolano in maniera inestricabile, rendendo spesso
difficile e riduttiva l'interpretazione. Rimane costante nell’opera di
Nietzsche un’ambiguità di fondo, un’ambiguità socio-politica che ha dato adito
a contrastanti strumentalizzazioni politiche. Il filosofo, infatti, non
specifica mai espressamente chi debba essere il soggetto della volontà di
potenza: il superuomo. Molti critici hanno identificato il superuomo in una
umanità vivente in modo libero e creativo, ma, molti altri lo hanno limitato ad
un’élite che esercita la sua volontà di potenza non solo nei riguardi della
caoticità del mondo, ma anche verso il prossimo. A ciò bisogna aggiungere il
problema degli scritti postumi: la ricostruzione sistematica operata dalla
sorella Elisabeth e da uno dei discepoli di Nietzsche, oltre a essere
ideologicamente discutibile e largamente responsabile delle interpretazioni
naziste del pensiero dei filosofo, va contro il suo rifiuto netto di ogni
sistema filosofico e contro il fascino vivissimo per la forma del frammento e
dell'aforisma. L'edizione critica di tutti gli scritti di Nietzsche, a cura di
due italiani, G. Colli e M. Montinari, ha restituito, però, l'integrità dei
frammenti secondo un ordine cronologico e ha dimostrato come "La volontà
di potenza" pubblicata nel 1906 è un'opera profondamente manipolata e
addomesticata.
Gabriele D’Annunzio, nella sua fase superomistica, è
profondamente influenzato dal pensiero di Nietzsche, tuttavia, molto spesso,
banalizza e forza entro un proprio sistema di concezioni le idee del filosofo.
Dà molto rilievo al rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari,
all’esaltazione dello spirito "dionisiaco", al vitalismo pieno e
libero dai limiti imposti dalla morale tradizionale, al rifiuto dell’etica
della pietà, dell’altruismo, all’esaltazione dello spirito della lotta e
dell’affermazione di sé. Rispetto al pensiero originale di Nietzsche queste
idee assumono una più accentuata coloritura aristocratica, reazionaria e
persino imperialistica. Le opere superomistiche di D’Annunzio sono tutte una
denuncia dei limiti della realtà borghese del nuovo stato unitario, del trionfo
dei princìpi democratici ed egualitari, del parlamentarismo e dello spirito
affaristico e speculativo che contamina il senso della bellezza e il gusto
dell’azione eroica. D’Annunzio arriva quindi a vagheggiare l’affermazione di
una nuova aristocrazia che si elevi al di sopra della massa comune attraverso
il culto del bello e la vita attiva ed eroica. Per D’Annunzio devono esister
alcune élite che hanno il diritto di affermare se stesse, in sprezzo delle
comuni leggi del bene e del male. Queste élite al di sopra della massa devono
spingere per una nuova politica dello Stato italiano, una politica di dominio
sul mondo, verso nuovi destini imperiali, come quelli dell’antica Roma. La
figura dannunziana del superuomo è, comunque, uno sviluppo di quella precedente
dell’esteta, la ingloba e le conferisce una funzione diversa, nuova. Il culto
della bellezza è essenziale per l’elevazione della stirpe, ma l’estetismo non è
più solo rifiuto sdegnoso della società, si trasforma nello strumento di una
volontà di dominio sulla realtà. D’Annunzio non si limita più a vagheggiare la
bellezza in una dimensione ideale, ma si impegna per imporre, attraverso il
culto della bellezza, il dominio di un’élite violenta e raffinata sulla realtà
borghese meschina e vile. D’Annunzio applica, in un modo tutto personale, le
idee di Nietzsche alla situazione politica italiana. Ne parla per la prima
volta in un articolo, La bestia elettiva, del ’92, e presenta il filosofo di
Zarathustra come il modello del "rivoluzionario aristocratico", come
il maestro di un "uomo libero, più forte delle cose, convinto che la
personalità superi in valore tutti gli attributi accessori","forza
che si governa, libertà che si afferma". Il suo è un fraintendimento, una
volgarizzazione fastosa ma povera di vigore speculativo. Ciò che il D’Annunzio
scopre in Nietzsche è una mitologia dell’istinto, un repertorio di gesti e di
convinzioni che permettono al dandy di trasformarsi in superuomo e fanno presa
immediatamente in un mondo di democrazia fragile e contrastata, soprattutto
quando al cronista del "Mattino" e della "Tribuna" si
sostituisce lo scrittore insidioso del Trionfo della Morte ("Noi tendiamo
l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca, e preperiamo
nell’arte con sicura fede l’avvento dell’Uebermensch, del Superuomo") o
quello, fra lirico e decadente, delle Vergini delle rocce, il nuovo romanzo del
’95, presentato dapprima sul "Convito" ("Il mondo è la
rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i
quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno
sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è
un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da
coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare…"). Come dirà
poi Gramsci, la piccola borghesia e i piccolo intellettuali sono
particolarmente influezati da tali immagini romanzesche che sono il loro
"oppio", il loro "paradiso artificiale". Non è ancora
un’ideologia, ma è un’oratoria dell’attivismo verbale in cui fermenta la
scontentezza dell’Italia borghese, il cruccio dell’avventura africana, il fastidio
della mediocrità democratica e della burocrazia parlamentare, dall’esplosione
dei Fasci siciliani al rovescio di Adua.
Come sempre, il D’Annunzio avverte d’istinto questi stati
d’animo confusi e li amplifica nei bassorilievi della sua eloquenza floreale,
li traspone nello specchio del proprio personaggio e dei suoi gesti stravaganti
o stupefacenti. Il primo romanzo in cui si inizia a delineare la figura del
superuomo è il Trionfo della morte, dove non viene ancora proposta
compiutamente la nuova figura mitica, ma c’è la ricerca ansiosa e frustrata di
nuove soluzioni. Il romanzo ha una debole struttura narrativa ed è articolato
in sei parti ("libri"). E' incentrato sul rapporto contradditorio ed
ambiguo di Giorgio Aurispa con l'amante Ippolita Sanzio, ma su questo tema di fondo
si innestano e si sovrappongono altri motivi e argomenti: il ritorno del
protagonista alla sua casa natale in Abruzzo è il pretesto per ampie
descrizioni (nella seconda, terza e quarta parte) del paesaggio e del lavoro
delle genti d'Abruzzo. Giorgio cerca di trovare l'equlibrio tra superomismo e
misticismo, e aspira a realizzare una vita nuova (è il titolo del quarto
libro). Per questo vive il rapporto con l'amante come limitazione, come
ostacolo: per il suo fascino irresistibile, Ippolita Sanzio è sentita come la
"nemica", primigenia forza della natura che rende schiavo il maschio.
Solo con la morte Giorgio si libererà da tale condizione: per questo si uccide
con Ippolita, che stringe a sè, precipitandosi da uno scoglio. Giorgio Aurispa,
il protagonista, l’eroe, è ancora un esteta simile ad Andrea Sperelli;
Ippolita, la donna fatale consuma le sue forze e gli impedisce di attingere a
pieno all’ideale superumano a cui aspira, portandolo alla morte. Sulla figura
del superuomo si incentra anche Le Vergini delle Rocce. Qui però La complessità
metafisica e ideologica del superuomo subisce una sostanziale semplificazione
nella direzione di un superomismo a impronta esclusivamente estetica che
s'intride di valenze politiche reazionarie. E' qui riscontrabile l'esito di una
lunga ricerca sul versante stilistico e formale, che nel momento stesso in cui
agganciava le posizioni più innovative del Simbolismo europeo, si reimmetteva
nel solco della tradizione trecentesca e rinascimentale, l'onnipresenza di
Leonardo da Vinci nelle Vergini ne è il segno tangibile. Il nucleo drammatico
del romanzo, fondato sull'aspirazione di Claudio Cantelmo a generare un figlio
in cui si distillassero le mirifiche qualità di una illustre progenie e che
sarebbe dovuto diventare il futuro re di Roma, appare del tutto gratuito e
incapace di sostenere una dinamica narrativa di lungo respiro. In questo senso
il romanzo esprime i limiti dell'interpretazione che D'Annunzio diede di
Nietzsche. Dopo un decennio di interruzione, in cui scrive per il teatro e
sviluppa le Laudi, D’Annunzio ritorna alla forma del romanzo scrivendo Forse
che sì forse che no. Qui presenta un nuovo strumento di affermazione
superomistica inedito e in linea con i tempi: l’aereo. Il protagonista Paolo
Tarsis realizza la sua volontà eroica tramite le sue imprese di volo. Egli è
senza dubbio la reincarnazione dei vari superuomini presenti ne IlTtrionfo
della Morte o nelle Vergini delle rocce, ma a differenza di questi, non
appartiene ad una nobile casata ma è un borghese estraneo agli influssi
decadenti e dedito all'azione; affiancata a questo superuomo troviamo Isabella
Inghirami, la prima figura femminile capace di contendere il primato
all'egotismo del superuomo di turno. Tra i due personaggi c'è un rapporto di
amore-passione che talvolta arriva fino alle degenerazioni dell'incesto e del
masochismo. Questo romanzo rappresenta la piena adesione del D'Annunzio alla
contemporaneità: è possibile infatti ritrovare personaggi che si muovono tra
aeroplani, automobili, telefoni. Vi si ritrova un amore, quindi, per la
macchina e la velocità. In Italia, nel frattempo, sotto la pressione di molti e
potenti interessi l’onda dell’interventismo stava montando, e il D’Annunzio
poteva essere l’uomo dell’ora, l’araldo dello sdegno nazionale. I discorsi, o
meglio le orazioni, che lo scrittore tenne a Genova tra il 4 e il 7 maggio e
poi a Roma dal 12 al 20, mostrarono che il calcolo era giusto, giacchè
l’oratoria dannunziana conferiva uno stile alla passione politica di una
gioventù borghese insoddisfatta, abbagliata dal grande fuoco rinnovatore della
guerra nazionale. Mentre l’Italia scendeva in guerra trascinata dal
radiosomaggismo, stava sorgendo anche una nuova oratoria, che non aveva bisogno
dei fatti ma dell’immaginazione, e che attraverso la mistica di un capo
carismatico comunicava a ciascuno la forza di una coerenza fittizia, la
certezza di un rito collettivo. Nell’eloquenza dell’esteta, che si proclamava
ora non più "un grido e un allarme" ma "un semplice compagno tra
compagni", prendeva forma lo stile moderno della propaganda, del discorso
politico di massa non più rivolto ad un’élite ma ad una comunità di compagni di
cui si condivide il destino nella magia degli slogan e delle parole d’ordine.
Il primo ad esserne preso era lo stesso D’Annunzio, a cui questo contatto
verbale con la folla rinnovava, ma ad un grado più alto, quel piacere di una
pronunzia della parola tutta corporea, " nella bocca sonante del
dicitore", che aveva invocato anni prima il poeta della Canzone di Garibaldi.
Anche la parola, insomma, si faceva gesto, ebbrezza d’azione, istante assoluto
da consumare in sé stesso, nella forza sensuale di una presenza aggressiva come
in uno spettacolo di delirio o di entusiasmo rituali. Nonostante il suo
"viso grinzoso di vecchietto richiamato" la guerra fece del
D’Annunzio un eroe di nuovo giovane, per quanto non si possa negare, d’accordo
con gli storici d’oggi, che egli rimase sempre un "avventuriero
privilegiato", estraneo agli orrori putridi e comuni della trincea, ma
pronto, a sfidare la morte con la logica singolare del giocatore d’azzardo:
come risulta chiarissimo dai suoi taccuini di combattente, sia che confessi che
" la vita non ha più pregio poichè non può rischiarla nel più temerario
dei giochi" sia che si sorprenda a notare come " tante immagini di
voluttà accompagnino uno stato eroico" o lodi "l’amore del
destino" in una "carne che domani può essere un pallido sacco d’acqua
amara". Alla fine della guerra il tenente colonnello D’Annunzio lasciava
il fronte in un "misto di gioia e di scontento", col sospetto per
giunta che la vittoria potesse venire tradita e la vecchia politica riprendesse
il suo corso come se l’evento della guerra non fosse stato il crepuscolo del
mondo borghese e l’iniziio di una rivoluzione. Lo assillava soprattutto la
questione della Dalmazia e dell’Adriatico, per la quale iniziò subito una nuova
campagna di stampa contro le trattative diplomatiche in corso, assumendo ancora
il ruolo di agitatore delle coscienze, di interprete della febbre nazionalistica
nello scontro delle generazioni: nessuno meglio di lui, che era l’eroe della
guerra poteva parlare alla massa dei reduci insoddisfatti, dei giovani che
avevano combattuto e ora dovevano rassegnarsi al grigiore della vita comune
declassati in un contesto sociale incerto e precario. Mentre c’era già chi
salutava in lui "il solo Duce del popolo italiano e intrepido",
seguivano gli articoli della Pentecoste d’Italia, de Il comando passa al
popolo, dell’Erma bifronte, e infine di Disobbedisco, di nuovo in aperto
contrasto con il governo presieduto da Nitti. La situazione di Fiume, comunque,
volgeva ormai al peggio a causa dei deliberati della Conferenza di Parigi, fra
il tumulto crescenter dei nazionalisti e dell’ex socialista Benito Mussolini,
il direttore del "Popolo d’Italia". Il 12 settembre 1919 il poeta
della guerra entrava a Fiume alla testa dei granatieri di Ronchi, che lo
avevano voluto loro comandante, e di alcuni reparti dell’esercito regolare
subito solidali, per affrettarne l’annessione all’Italia e per dare inizio,
così, a un’avventura politica che durò quindici mesi e aprì la via, come
riconoscono tutti gli storici, ad altre e più tragiche esperienze nel declino
progressivo delle vecchie fedi democratiche. Il maggio radioso e l’avventura
fiumana costituirono dei gravi precedenti di sminuimento del sistema
democratico sulla cui falsa riga si arrivò in Italia e in Germania
all’instaurazione di regimi totalitari, illiberali, reazionari e
imperialistici. E ad incarnare perfettamente il superuomo é Ulisse: egli, anche
se durato solo un attimo, cambia comunque la vita del poeta: egli non è come i
suoi compagni, che pure gli sono cari, ma si sente spinto a confidare solo in
se stesso e destinato a realizzare imprese eccezionali, come quell’Ulisse di
cui ha meritato il simbolico sguardo. Ulisse diventa quindi non solo il simbolo
del "superuomo" per D’Annunzio, ma anche l’esempio e l’incitamento di
tutti gli uomini che, come il poeta, non si accontentano di una vita tranquilla
ma vogliono affermare la loro volontà di potenza realizzando la dimensione
eroica di se stessi. Dietro alle parole c'è però il vuoto più completo di
pensiero, ma soprattutto di sentimento. E' riscontrabile nel poeta il desiderio
di imporsi, di agire e ciò sconfina in megalomania già riscontrabile nel poeta
adolescente che negli anni maturi risente della nuova filosofia tedesca
(superomismo). D'Annunzio, avendo rifiutato di porsi una problematica del
vivere, si proiettò in una vita attiva e combattiva. Il suo vitalismo si rivelò
in due sensi:
1. Come insofferenza di una vita comune e normale.
2. Come vagheggiamento della "bella morte eroica".
Egli perciò insiste sui temi della grandezza, dell'orgoglio,
dell'eroismo estetizzante. Determinò la svolta più importante del decadentismo,
quella superomistica, a cui aderì dopo la (errata) interpretazione di
Nietzsche. In D'Annunzio il superuomo trova la sua perfetta identificazione con
l'artista. In lui non è tanto la vita a tenere dietro l'arte, ma l'arte a
seguire le eccentricità della vita e questo costò al poeta un'accusa di
superficialità. Il Superuomo per D’Annunzio, così come viene presentato nelle
due opere Trionfo della Morte e Le Vergini delle Rocce, è un individuo proteso
all’affermazione di sé, al di fuori di ogni remora di ordine morale e sociale.
D’Annunzio applica concretamente alla realtà la teoria
dell’idea pura di Superuomo e facendo ciò, ci permette di individuare alcune
caratteristiche peculiari del "suo" Superuomo. I protagonisti delle
opere sopracitate mostrano, infatti, il culto dell’energia dominatrice che si
manifesta come forza, violenza, tesa all’affermazione della propria
individualità. La loro è una concezione aristocratica del mondo che presuppone
un conseguente disprezzo della massa, della plebe e del regime parlamentare che
si basa su di essa. Giorgio Aurispa e Claudio Cantelmo ricercano la propria
tradizione storica nella civiltà pagana, greco-romana e in quella
rinascimentale. La sensualità caratterizza il Superuomo che ha alla base una
sorta di furore sadico, di volontà di distruzione, di eccitazione violenta. Nel
Superuomo d’annunziano si delinea una sproporzione tra gli obiettivi e le forze
per raggiungerli, tra il desiderio e la realtà.
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