Nella civiltà occidentale del Medioevo
"la donna" non aveva uno specifico posto. L'uomo, come prima creatura
più simile a Dio, possedeva una autorità "naturale" sulla moglie, la
figlia, la sorella ed anche la madre. La Bibbia dice: "Dio fece l'uomo a
sua immagine e somiglianza", la donna in fondo era nata soltanto dalla
costola di Adamo e quindi doveva essere "naturalmente" meno perfetta
e meno importante di lui! Il campo d'azione di ogni donna era la casa, il suo
dovere la procreazione. Generare buoni eredi era il compito affidatole; il
cuore della casa in quei tempi era la grande camera nuziale, dove le donne
passavano gran parte della giornata, lavorando d'ago o al telaio, dove
concepivano e partorivano figli e dove infine morivano. La fragilità e debolezza
della donna "necessitavano" di sorveglianza e di protezione, prima da
parte del padre e dei fratelli e poi del marito e della sua famiglia. Le donne però nella vita pratica non restano
subordinate completamente agli uomini, infatti lavorano nei campi o nelle
botteghe artigiane con i mariti, filano, tessono, cuciono e ricamano,
contribuendo così al benessere familiare.
Nei ceti più agiati, guidano la casa, comandano uno stuolo di servi ed
attendono all'educazione dei figli. Come scrive Francesco da Barberino: la
figlia di un cavaliere, di un giudice o di un medico dovrà filare o cucire
"sì che poi che sarà con suo marito in casa, possa malinconia con ciò
passare, oziosa non stare e anco in ciò alcuno servigio fare". Molte famiglie povere mandavano a servizio le
proprie figliole, per procurare loro un po' di dote e il corredo, ed anche le
vedove, quando non riuscivano ad ottenere dagli eredi del marito quanto
spettava loro, erano costrette a guadagnarsi da vivere filando o come
domestiche in casa d'altri, tutte comunque venivano sospettate di cattiva
condotta morale, di costumi sfrenati, data la nota "debolezza" della
natura femminile! Nella mentalità comune
di quell'epoca, le donne sono ritenute tutte subdole, ingannatrici, licenziose
e inaffidabili: "Tutti i grandi disonori, vergogne, peccati e spese
s'acquistano per femmine" riporta infatti un testo antico. La ribellione o l'insubordinazione della
donna portava disordine e era soggetta alla sanzione della comunità ed anche
delle leggi civili e religiose. Abbiamo
fin qui visto che la società medievale vedeva nella donna un personaggio
gregario, cui negare ogni autonomia. La "condizione femminile" aveva
riconoscimento solo nell'ambito del matrimonio o tra le mura di un
convento. In questo quadro poco idilliaco
per le donne, quale considerazione del genere femminino aveva un grande poeta
di quel tempo, Dante?
INFERNO
Nei trentatré canti dell'Inferno, “tra
le genti dolorose c’hanno perduto il ben dell’intelletto” (Inf. III, vv.17-18)
gli incontri con figure femminili sono veramente pochi, spesse volte invece il
poeta cita personaggi che non sono presenti, ma solo ricordati nelle parole
delle anime trapassate o come modelli esemplari. Dentro l'immane voragine che
si sprofonda nel mezzo dell’emisfero settentrionale, Dante immagina di trovare
una miriade di anime dannate, tra cui molti personaggi ben conosciuti del suo
tempo. I primi spiriti femminili si
trovano nel Limbo (IV Canto), luogo che accoglie non propriamente i dannati, ma
solo coloro che non avendo conosciuto la vera fede sono stati esclusi dalla
beatitudine eterna. Proprio nel Limbo
Dante incontra Beatrice ( la fanciulla fiorentina amata dal poeta fin
dall’infanzia e ispiratrice di tutte le sue poesie), che è scesa su invito di
S. Lucia a sua volta inviata dalla Madonna, per incoraggiarlo ad intraprendere
questo viaggio di redenzione.
“I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno
del loco ove tornar desio;
Amor
mi mosse, che mi fa parlare.
Quando
sarò dinanzi al segnor mio,
di
te mi loderò sovente a lui”.
(Inf.
II, vv.70-74)
Tra i giusti, che non conobbero Dio e
non ricevettero il battesimo, ma che furono in vita esempi di virtù, ecco otto
antiche donne (le prime cinque, però, sono solo figure della leggenda ). Esse con altre anime, né tristi, né felici,
abitano in un “nobile castello”, circondato da un “prato di fresca verdura” e
“difeso intorno d' un bel fiumicello”, in “loco aperto, luminoso ed alto”.
Dante non si attarda a parlare con loro, ma ne fa cenno nominandole ad una ad
una :
“I’
vidi Elettra con molti compagni,
tra
‘quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare
armato con li occhi grifagni.
Vidi
Cammilla e la Pantasilea,
da
l’altra parte, e vidi ‘l re Latino,
che
con Lavinia sua figlia sedea.
Vidi
quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia;
e
solo in parte vidi il Saladino.
(Inf.
V, vv.121-129)
Elettra
madre di Dardano, progenitrice della stirpe Troiana, di Enea e dei suoi
discendenti,
Camilla
figlia del re dei Volsci, caduta nella guerra contro Enea Pentesilea
regina delle Amazzoni, figlia di Ares (Marte), uccisa da Achille
Lavinia
figlia del re Latino, moglie di Enea e progenitrice dei Romani
Lucrezia
moglie di Collatino, suicidatasi dopo l’offesa fatta al suo onore da Sesto
Tarquinio
Iulia
figlia di Giulio Cesare e sposa di Pompeo
Marzia
moglie di Catone l’Uticense.
Di Marzia si parlerà ancora nel I
canto del Purgatorio, quando Dante e Virgilio supplicano, in nome della sua
cara sposa, appunto, il vecchio custode del secondo regno, Catone. Marzia sta
tutta nella dolce espressione "occhi casti", e in quel tenero
desiderio che il marito la consideri ancora sua.
"ma son del cerchio ove son li occhi
casti
di Marzia tua, che 'n vista ancor ti
priega,
o santo petto, che per tua la tegni."
(Purg. I, vv.78-80)
Corneglia
(Cornelia) madre dei Gracchi .
Nel canto che segue Dante incontra i
lussuriosi, coloro cioè che non riuscirono a frenare gli istinti carnali (II
cerchio). Questi spiriti vengono trasportati qua e là da una incessante
bufera:
"la
bufera infernal che mai non resta
mena
gli spirti con la sua rapina;
voltando
e percotendo li molesta”
(Inf.
V, vv.31-33)
Questa loro pena segue la cosiddetta
legge del “contrappasso”, una pena cioè esattamente uguale o contraria alla
colpa commessa: i lussuriosi sono trascinati vorticosamente dalla bufera, così
come in vita furono trascinati dalle passioni. Il poeta chiede a Virgilio:
"…Maestro
chi son quelle
genti,
che l’aura nera sì gastiga?”
(Inf..
V, vv.50-51)
e Virgilio gli risponde, indicando tra
mille e più ombre che passano anche le figure di alcune donne:
“
La prima di color di cui novelle
tu
vuoi saper “ mi disse quegli allotta*,
“fu
imperadrice di molte favelle.
a
vizio di lussuria fu sì rotta
che
libito fe’ lecito in sua legge,
per
tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è
Semiramìs, di cui si legge
che
succedette a Nino e fu sua sposa;
tenne
la terra che ‘l Soldan corregge.
L’altra
è colei che s’ancise amorosa
e
ruppe fede al cener di Sicheo;
poi
è Cleopatràs lussuriosa.
Elena
vedi, per cui tanto reo
tempo
si volse, e vedi il grande Achille
che
con amore al fine combatteo.
Vedi
Parìs, Tristano...”e più di mille
ombre
mostrommi e nominommi a dito,
che
amor di nostra vita dipartille.
(Inf.
V, vv. 52-69)
*Allotta=
allora
Didone,
suicidatasi dopo essere stata abbandonata da Enea, Cleopatra ("Cleopatràs lussuriosa"), portata alla guerra
e al suicidio per amore di Antonio, Elena,
moglie infedele e causa della sanguinosa guerra di Troia, Semiramide, lussuriosa e uccisa dal figlio incestuosamente amato.
Sono tutte eroine della tradizione classica, che vengono indicate come esempi
di amore eccessivo o mal riposto. Gli unici personaggi vissuti veramente che il
poeta incontra sono Paolo e Francesca.
Dante
rivolgendosi a Virgilio dice:
":……………..Poeta,
volentieri
parlerei
a quei due che ‘nsieme vanno
e paion
sì al vento esser leggieri”.
(Inf.,V,vv.73-74)
Chi parla con Dante, però, è solo
Francesca, perché Paolo al suo fianco piange e tace. Tutti la conosciamo: è Francesca da Rimini, o più precisamente
Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, Guido il vecchio. Ricordiamo qui che dal 1318 Dante fu ospite,
durante il suo esilio da Firenze, di un nipote di quest'ultimo, Guido Novello
da Polenta. Francesca, giovanissima,
costretta a sposare per ragioni politiche (1275) Gianciotto Malatesta, vecchio,
zoppo e deforme I due amanti, probabilmente nell’anno 1285, furono però
sorpresi e uccisi dal marito–fratello offeso.
Perché Dante parla di questo episodio di cronaca nera del suo tempo?
Il fattaccio di cronaca nera, accaduto
in una Corte famosa, aveva suscitato ai suoi tempi molto scalpore. Dante, però,
non lo riporta per dovere di cronaca, ma solo perché spinto da un sentimento di
partecipazione e pietà, (dirà infatti:- “Francesca i tuoi martiri a lacrimar mi
fanno tristo e pio”).
Il poeta forse vede riflessi in
Francesca se stesso e la fragilità di tutti gli esseri umani. Riconosce
colpevole la donna e giusta la condanna, ma se ne duole e prova dell’affetto
per la sua tragica sorte, in fondo, come dice il Vangelo, “chi è senza peccato,
scagli la prima pietra”.
Ascoltiamo
le parole di Francesca da Rimini:
“O animal grazioso e benigno
che
visitando vai per l’aer perso
noi
che tignemmo il mondo di sanguigno:
se
fosse amico il Re dell’universo
noi
pregheremmo Lui della tua pace,
poi
c’hai pietà del nostro amor perverso.
Di
quel che udire e che parlar vi piace,
noi
udiremo e parleremo a vui,
mentre
che ‘l vento come fa si tace.
Siede
la terra dove nata fui,
su
la marina dove il Po discende
per
aver pace co’ seguaci sui.
Amor,
ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese
costui della bella persona
che
mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor,
c’a nullo amato amar perdona,
mi
prese del costui piacer sì forte,
che,
come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor
condusse noi ad una morte,
Caina
attende chi a vita ci spense.
”
(Inf. V, vv. 88-107)
Quest’ultime terzine sono famosissime
e iniziano tutte con la parola “Amor”. Questo Amore rappresenta tutta
l’esistenza di questa giovane donna e tutta la sua tragedia. Francesca sembra
quasi voler allontanare da sé la responsabilità di un amore colpevole,
indicando nell’Amore una ineluttabile forza, che agisce indipendentemente dalla
volontà dell’individuo. (“Amor ch’al cor gentil ...” è il concetto proprio del
Dolce Stil Novo che ritroviamo anche in molti altri poeti.) Più avanti troviamo
citata la maga tessala Eritone, la
quale dice Virgilio lo aveva una volta costretto, con un sortilegio, a lasciare
il Limbo per scendere nel nono cerchio infernale per evocare uno spirito sulla
terra.
Ver
è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato
da quella Eritòn cruda
che
richiamava l’ombre ai corpi sui.
Di
poco era di me la carne nuda,
ch’ella
mi fece intrar dentr’a quel muro,
per
trarne un spirto del cerchio di Giuda.
(Inf.
IX, vv.22-27)
Sempre in questo canto, Dante incontra
le figure mitologiche delle tre Furie
(Megera, Aletto e Tesifone) e della Gorgone.
"...tre
Furie infernal di sangue tinte,
che
membra femmine avieno e atto,
e
con idre verdissime eran cinte;
serpentelli
e ceraste avian per crine,
onde
le fiere tempie erano avvinte."
(Inf.
IX, vv. 38-42)
e
poi:
“Quest’è
Megera dal sinistro canto,
quella
che piange dal destro è Aletto,
Tesifòn
è nel mezzo” e tacque a tanto.
(Inf.
IX, vv. 46-48)
“Volgiti
‘n dietro e tien lo viso chiuso;
ché
se ‘l Gorgòn si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla
sarebbe di tornar mai suso:”
(Inf.
IX, vv. 55-57)
Anche solo con brevi cenni possiamo
talora scorgere la simpatia del Poeta per alcune figure femminini che non si
trovano all’Inferno, ma qui vengono solo ricordate, come ad esempio (Inf. XVI,
v.37) l’ava del dannato Guido Guerra, “la buona Gualdrada”, (esempio di virtù
domestiche e di onesti costumi nella Firenze del suo tempo) o Ghisolabella, sorella di Venedico
Caccianemico, condannato tra i ruffiani,
“I’
fui colui che la Ghisolabella
condussi
a far le voglie del marchese,
come
che suoni la sconcia novella.”
(Inf.
XVIII, vv.55-57)
o pure ancora Isifile, fanciulla mitologica, ma viene soltanto ricordata quando
Dante incontra Giasone (Iasòn)
"Ivi
con segni e con parole ornate
Isifile
ingannò la giovinetta
che
prima avea tutte l’altre ingannate.
Lasciolla
quivi, gravida, soletta;
tal
colpa a tal martiro lui condanna;
e
anche di Medea si fa vendetta."
(Inf.
XVIII, vv.91-96)
Altro linguaggio Dante adopera però
per peccatrici più spregevoli, vediamo infatti come ci presenta Taide, la prostituta, che troviamo
nella seconda bolgia tra gli adulatori:
“di
quella sozza e scapigliata fante *
che
là si graffia con l’unghie merdose,
e
or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taide
è, la puttana che rispuose.....”
(
Inf., XVIII, vv.129-133)
*
fante = fantesca; donna;
Come si vede, in questo caso, non c’è
né commiserazione, né pietà alcuna! Taide è un personaggio classico, tratto
dalla commedia “L’Eunuco” dello scrittore latino Terenzio. Scendendo ancora più
giù nell’imbuto infernale, nella quarta bolgia, tra gli indovini che vollero
“veder troppo davante” ed ora “tacendo e lacrimando” procedono avanzando
all’indietro col capo orrendamente torto, ci si presenta la maga Manto. Manto, figlia dell’indovino tebano Tiresia, è la
fondatrice della città di Mantova (= Mantua, città natale del poeta Virgilio).
Con questi versi, messi in bocca a Virgilio, viene raffigurata l’indovina
:
“E
quella che ricopre le mammelle,
che
tu non vedi, con le trecce sciolte,
e
ha di là ogni pilosa pelle,
Manto
fu, che cercò per terre molte;
poscia
si pose là dove nacqu’io;”
(
Inf., XX, vv.51-56)
“Qui passando la vergine cruda *
vide
terra, nel mezzo del pantano,
sanza
coltura e d’abitanti nuda.
Lì
per fuggire ogni consorzio umano,
ristette
con suoi servi a far sue arti,
e
visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li
uomini poi ch’intorno erano sparti
s’accolsero
a quel loco, ch’era forte
per
lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fér
la città sovra quell’ossa morte;
e
per cole che ‘l loco prima elesse,
Mantua
l’appellar sanz’altra sorte.”
(
Inf., XX, vv.82-93)
* cruda: selvatica
Verso la fine del canto si incontrano
ancora altre indovine o streghe, che
vengono nominate di sfuggita con le seguenti parole:
"Vedi
le triste che lasciaron l'ago,
la
spola e 'l fuso e fecersi 'ndivine,
fecer
malie con erbe e con imago" *
(
Inf., XX, vv.121-123)
*
‘ndivine = indovine; imago = immagine
Nel XXX canto, Dante ricorda, in una
similitudine tratta dal mito, una madre resa folle dal dolore: Ecuba, regina di Troia, che, dopo la
caduta della città, vede l’uccisione della figlia Polissena e poi trova sulla riva del mare il corpo fatto a pezzi
del figlio Polidoro. la leggenda tramandava che ella impazzisse e fosse
tramutata in cagna.
"Ecuba
trista, misera e cattiva *
poscia
che vide Polissena morta,
e
del suo Polidoro in su la riva
del
mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata
latrò sì come un cane;
tanto
il dolor le fé la mente torta".
(Inf,
XXX, vv. 16-20)
*
cattiva: sciagurata
Appartiene al mito anche un’altra
figura femminile, che troviamo tra i dannati: Mirra. Questa era una principessa, che per poter soddisfare la sua
insana passione verso il proprio padre, Cinìra, re di Cipro, si finse un’altra
donna. Il padre si accorse dell'inganno e disgustato cercò di ucciderla, ma
ella riuscì a fuggire e fu poi mutata in pianta odorosa (la mirra, appunto).
Mirra è punita nel cerchio VIII, nella decima bolgia, tra i falsificatori di
persona.
"Ed elli a me: “Quell’è l’anima
antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore,
amica.
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma
…......”
(Inf., XXX,vv.37-41)
Ultima apparizione femminile
dell’Inferno è un personaggio biblico la
moglie di Putifarre, la quale accusò falsamente Giuseppe di aver tentato di
violentarla, mentre era stato proprio lui a sfuggire ai suoi tentativi di
adescamento. Noi la incontriamo tra le anime degli accusatori fraudolenti, che
giacciono in preda ad una grande febbre.
"Ed io a lui: “ chi son li due
tapini
che fumman come man bagnate ‘l
verno,*
giacendo strette ai tuoi destri confini?”
“ Qui li trovai – e poi volta non dierno-“,
rispuose,
“quando piovvi in questo greppo,
e
non credo che dieno in sempiterno.
L'una
è la falsa che accusò Gioseppo...”
(Inf.,
XXX, vv.91-97)
*cioè che fumano per l’evaporazione
del sudore della febbre come fumano le mani bagnate nelle gelide giornate
invernali. Dopo questo ultimo incontro fino al Purgatorio non troveremo più
personaggi femminili.
PURGATORIO
Nel Purgatorio, in un paesaggio
prettamente terrestre, Dante si imbatte in molti vecchi amici di gioventù,
ricorda i tempi di Firenze prima dell’esilio e il cuore gli si riempie di
nostalgia e di rammarico. Tra coloro che
espiano in questo luogo le loro colpe prima di salire in Paradiso,dante non
pone molte donne, ma vengono proposti numerosi personaggi femminili tratti o
dalla storia o dal mito, come esempi sia virtù che di colpa. Nel primo canto troviamo Virgilio che, mentre
supplica Catone di lasciarli passare, ricorda, al severo custode del
Purgatorio, l’affetto della sua sposa Marzia,
che si trova tra le anime del limbo.
“Non
son gli editti etterni per noi guasti,
ché
questi vive e Minòs me non lega;
ma
son del cerchio ove son gli occhi casti
di
Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o
santo petto, che per tua la tegni:
per
lo suo amor adunque a noi ti piega.
Lasciane
andar per li tuoi sette regni;
grazie
riporterò di te a lei,
se
d’esser mentovato là giù degni”.
“Marzia
piacque tanto a li occhi miei
mentre
ch’i’ fu’ di là”, diss’elli allora,
“che
quante grazie volse da me, fei.
Or
che di là dal mal fiume dimora
più
muover non mi può, per quella legge
che
fatta fu quando me n’usci’ fora.”
(Purg.
I, vv.78-90)
Con la connotazione degli “occhi casti”e
della richiesta che la consideri sempre sua moglie (“che per tua la tegni”),
Dante fa di Marzia l’esempio di moglie fedele. Il poeta non ha voluto tener
conto della verità storica, che ci dice come Catone l’Uticense, dopo aver
sposato Marzia, la cedette a Quinto Ortensio e che, solo dopo la morte di
quest’ultimo, la riprese con sé.
Nel terzo canto, Manfredi,
presentatosi come nipote di Costanza d’Altavilla (anima che ritroveremo tra i
beati nel III canto del Paradiso), prega Dante affinché, una volta tornato nel
mondo dei viventi, riferisca a sua figlia (anch’essa di nome Costanza, che egli afferma essere
“bella” e “buona”), che lui, nonostante la scomunica, si è salvato dall’Inferno
e che attende di poter scontare le sue colpe nel Purgatorio.
Poi
sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote
di Costanza imperadrice;
ond’io
ti priego che, quando tu riedi,
vadi
a mia bella figlia, genitrice
de
l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e
dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.”
(Purg.III,
vv.112-117)
e
poco dopo aggiunge :
“Vedi
oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando
a la mia buona Costanza
come
m’hai visto, e anco esto divieto;
ché
qui per quei di là molto s’avanza”.
(
Purg. III vv.142-145)
Nel V canto del Purgatorio è ricordata
con biasimo Giovanna, sposa di
Bonconte da Montefeltro, che chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere,
perché sua moglie non lo ricorda più:
“Io
fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna
o altri non han di me cura;
per
ch’io vo tra costor con bassa fronte”.
(Purg.
V, vv.88-90)
Nel canto V le anime si presentano
dicendo di sé:
“Noi
fummo tutti già per forza morti,
e
peccatori infino a l’ultima ora;
quivi
lume del ciel ne fece accorti,
sì
che, pentendo e perdonando, fora
di
vita uscimmo a Dio pacificati…”
(Purg.
V, versi 52-57)
Tra loro si trova la mesta figura di Pia de’ Tolomei, un personaggio
storicamente vissuto tra la fine del 1200 e i primi anni del secolo
successivo. Ella apparteneva alla
famiglia dei Tolomei di Siena. Andata sposa a Nello de’ Pannocchieschi, podestà
di Volterra e di Lucca, fu assassinata dal marito, che la fece precipitare da
un balcone del castello della Pietra in Maremma. (Oggi le rovine di questo
castello vengono ancora indicate come “il salto della Contessa”.). C’è chi dice
che sia stata uccisa perché colpevole di infedeltà, chi invece sostiene che il
marito se ne liberò per potersi risposare. Ci sono molte notizie infatti di una
relazione e di un successivo matrimonio di Nello con una donna “dai molti
mariti e dai molti amanti”: Margherita degli Aldobrandeschi.
Il mistero della morte di Pia rimane fitto
oggi come allora.
“
Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e
riposato de la lunga via
-
seguitò 'l terzo spirito al secondo -
ricorditi
di me che son la Pia;
Siena
mi fé, disfecemi Maremma:
salsi
colui che ‘nnanellata pria
disposando
m’avea con la sua gemma” *
(Purg.,
V, vv.130-136)
* lo sa bene colui che, dopo avermi inanellata
con la sua gemma, mi ha sposata. oppure come interpreta Natalino Sapegno,
seguendo un anonimo commentatore fiorentino antico,: "come sa bene colui
che mi fece morire e che prima mi aveva dato l'anello e sposata".
Dante prova per questa giovane affetto
e commiserazione, infatti ce la presenta come una donna quieta piena di
sollecitudine e di dolcezza, priva di qualunque risentimento verso il marito.
Nell'ottavo canto Dante incontra un
caro amico, il giudice Nino Visconti, che ricorda con grande affetto la figlia Giovanna e dà invece di Beatrice d'Este,
la sua vedova, passata assai presto a nuove nozze, un giudizio assai duro:
“Quando
sarai di là da le larghe onde,
dì
a Giovanna mia che per me chiami
là
dove a li ‘nnocenti si risponde.
Non
credo che la sua madre più m'ami,
poscia
che trasmutò le bianche bende,
le
quai convien che, misera, ancor brami.
Per
lei assai di lieve si comprende
quanto
in femmina foco d'amor dura."
(Purg.
VIII, vv. 70-78)
Dante qui mostra di credere che Beatrice d'Este fosse colpevole di infedeltà
alla memoria del marito, ma in realtà nel medio evo le donne non potevano
disporre di se stesse, e i loro matrimoni erano oggetto di scambi politici, in
nome del benessere familiare. A quei
tempi, comunque, le seconde nozze delle spose erano mal viste dall'opinione
pubblica e le loro infedeltà, quando i mariti erano lontani, erano un luogo
comune diffusissimo. Nelle parole di
Nino Visconti (e quindi in Dante stesso) vi è un’eco del pregiudizio medievale
contro le donne, secondo una tradizione letteraria che risale ai classici,
Ovidio, Virgilio ecc. e ai Padri della Chiesa.
Può darsi anche che il Sommo Poeta, pensasse alla propria moglie Gemma,
che non lo aveva seguito nell'esilio, neanche quando i suoi figli stessi lo
avevano raggiunto.
Nel canto successivo si affaccia Lucia (la santa di Siracusa), la quale,
per facilitargli la salita, prende tra le braccia Dante addormentato, e lo
porta all’ingresso del Purgatorio.
Virgilio
racconta a Dante:
Venne
una donna e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi
pigliar costui che dorme;
sì
l’agevolerò per la sua via”.
Sordel
rimase e l’altre gentil forme;
ella
ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro,
sen
venne suso; e io per le sue orme.
Qui
ti posò, ma pria mi dimostraro
li
occhi suoi belli quella entrata aperta;
poi
ella e ‘l sonno ad una se n’andaro”.
(Purg.
IX vv. 55-63)
Nel
canto X Dante, mentre sale, vede scolpiti in altorilievo, nella parete del
monte di marmo bianco, esempi di umiltà.
Il primo di questi rappresenta la Madonna che riceve l'annunzio
dall'Angelo che pare dica “Ave!”, mentre Maria che sembra dire: "Ecco la
serva di Dio":
"Giurato
si saria ch’el dicesse “Ave!”,
perché
iv’era imaginata quella
ch’ad
aprir l’alto amor volse la chiave;
e
avea in atto impressa esta favella
“Ecce
ancilla Dei”, propriamente
come
figura in cera si suggella."
(Purg.
X vv.40-45)
Dopo appare il re David, che danza
intorno all'Arca dell'Alleanza, mentre ad una finestra del palazzo reale appare
Micol, la moglie, che è
rappresentata irritata per l'eccessiva umiltà del marito.
"Di
contra, effigiata ad una vista
d’un
gran palazzo, Micòl ammirava
sì
come donna dispettosa e trista."
(Purg.
X vv.67-69)
Più avanti troviamo scolpita la storia
di Traiano e della vedova che gli
chiede giustizia. La vedova è descritta come una donna chiusa nel suo dolore ma
dotata di un forte senso di giustizia e di una lucida capacità di
obiezione.
" ’ dico di Traiano imperadore;
e
una vedovella li era al freno,
di
lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno
a lui parea calcato e pieno
di
cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’essi
in vista al vento si movieno.
La
miserella intra tutti costoro
pareva
dir:: “Segnor, fammi vendetta
di
mio figliol ch’è morto, ond’io m’accoro”;
ed
elli a lei rispondere: “Or aspetta
tanto
ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,
come
persona in cui dolor s’affretta,
“se
tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io,
la
ti farà”; ed ella. “L’altrui bene
a
te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?
ond’elli
: “Or ti conforta; ch’ei conviene
ch’i’
solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia
vuole e pietà mi ritiene”."
(Purg.
X vv.76-93)
Nel XII canto, tra gli esempi di
superbia punita intagliati nella pietra del sentiero che sale verso la vetta
del Purgatorio, Dante vede raffigurate due eroine della mitologia classica: Niobe e Aracne.
"O
Niobè, con che occhi dolenti
vedea
io te segnata in su la strada,
tra
sette e sette tuoi figliuoli spenti."
(Purg.
XII, vv.37-39)
"O folle Aragne,sì vedea io te
già
mezza ragna, trista in su gli stracci
de
l'opera che mal per te si fé."
(Purg.
XII, vv. 43-45)
Niobe, moglie del re di Argo, superba
per la numerosa prole (sette maschi e sette femmine) schernì la dea Latona,
madre di soli due figli Apollo e Diana, e per questo fu da lei punita con
l'uccisione di tutti i suoi figli. Aracne, abile e superba tessitrice della
Lidia, avendo sfidato la dea Atena nell'arte del tessere, fu da questa
tramutata in ragno (Aragne = Aracne, nome che in greco significa "ragno").
Successivamente saliamo al girone dove
sono puniti gli invidiosi, coloro cioè che furono più lieti del danno degli
altri che della propria fortuna. Questi
penitenti, vestiti con mantelli dal colore livido della pietra , addossati
l’uno accanto all’altro alla parete rocciosa e con gli occhi cuciti col fil di
ferro, sono paragonati ai mendicanti ciechi che sostano alle porte delle
chiese. Mentre il Poeta cammina si
sentono voci aeree che gridano esempi di carità, che incitano il buon cristiano
non solo a non invidiare il suo prossimo, ma anzi ad amarlo. Il primo esempio
ricorda il gesto di Maria alle nozze
di Cana, allorché piena di sollecitudine verso i giovani sposi, disse "Non
hanno più vino" e invitò il Figlio a compiere il primo miracolo.
"E
verso noi volar furon sentiti,
non
però visti, spiriti parlando
a
la mensa d’amor cortesi inviti.
La
prima voce che passò volando
“Vinum non habent” altamente disse,
e
dietro a noi l’andò reiterando."
(Purg.
XIII vv.25-30)
Mentre avanza sul sentiero di livida
pietra, Dante vede un'ombra, che alza il mento in su come fanno i ciechi, e le
chiede di farsi riconoscere.
Tra
l’altre vidi un’ombra ch’ aspettava
in
vista; e se volesse alcun dir “Come?”,
lo
mento a guisa d’orbo in sù levava.
“Spirto”
diss’io “che per salir ti dome,
se
tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti
conto o per luogo o per nome”.
"Io
fui sanese"- rispuose- "e con questi
altri
rimondo qui la vita ria,
lagrimando
a colui che sé ne presti. *
Savia
non fui, avvegna che Sapìa *
Fussi
chiamata, e fui de l'altrui danni
più
lieta assai che di ventura mia"
(Purg.
XIII, vv. 100-110)
* rimondo…= purifico la vita empia
lagrimando…= supplicando con lacrime affinché Dio (Colui) conceda se stesso a
noi
* avvegna che Sapìa…= sebbene il mio
nome fosse Sapìa,(nome che ha la medesima radice di "savia" e di
"sapere").
Sapia,
della famiglia senese Salvani, era zia di quel Provenzano, che aveva sperato di
diventare Signore di Siena e che, per questa sua presunzione, Dante ha posto
tra i Superbi (vedi il Canto XI del Purgatorio). Ella fu sposa di Ghinibaldo di
Saracino, signore di Castiglioncello, presso Monteriggioni. Ai piedi di questo luogo, sulla via francigena,
insieme al marito, Sapia aveva fatto costruire l’ospizio di Santa Maria per i
pellegrini che si recavano a Roma e nei Luoghi santi.
Di lei non si sa molto, eccetto che
prese parte alle lotte politiche e che, come essa stessa dice, assistette
compiaciuta ( non si sa bene perché) alla sconfitta, ad opera dei Guelfi di
Firenze, dei suoi concittadini, guidati dal suo stesso nipote Provenzano
Salvani, nella battaglia di Colle Val d'Elsa nel 1269.
“
Eran li cittadin miei presso a Colle
in
campo giunti co’ loro avversari
ed
io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
Rotti
fuor quivi e volti ne li amari
passi
di fuga; e veggendo la caccia,
letizia
presi a tutte altre dispàri*,
tanto
ch’io volsi in su l’ardita faccia,
gridando
a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come
fe’ ‘l merlo per poca bonaccia.”*
(Purg.
XIII, vv.115-123)
*
dispàri= diversa
* come fe’ il merlo…= riferimento ad
una favola popolare che dice come il merlo, dopo un periodo freddo, per pochi
giorni di sole, credendo finita la cattiva stagione, cantasse al Signore “ Non
ti temo più, perché è finito l’inverno!”.
Dalle sue parole Sapia sembra pentita
per aver partecipato con tanto odio alle lotte fratricide e appare grata al
vecchio Pier Pettinaio, che con le sue sante preghiere le ha abbreviato il
tempo da trascorrere nell'Antipurgatorio.
Sul finire del suo lungo discorso, quest'anima chiede che Dante, tornato
sulla terra, la riabiliti presso i suoi parenti.
“E
chèggioti* per quel che tu più brami,
se
mai calchi la terra di Toscana,
che
a’ miei propinqui* tu ben mi rinfami*.
Tu
li vedrai tra quella gente vana
che
spera in Talamone, e perderagli
più
di speranza ch’a trovar la Diana;
ma
più vi perderanno gli ammiragli”.
(Purg.
XIII, vv.148-154)
*cheggioti=
ti chiedo; propinqui=
concittadini; rinfami= mi ridia buona
fama
Qui, però, si vede in lei ancora una
pepata vena canzonatoria verso i suoi concittadini, definiti “gente vana”,
perché sperano in imprese senza costrutto, ) sperperando i loro averi. Si diceva infatti che il borgo di Talamone
sull’Argentario fosse stato acquistato dai Senesi per farne uno sbocco al mare,
ma, essendo il luogo malarico,
nonostante le ingenti spese essi non ne ricavassero niente. La Diana era un
mitico fiume, che i Senesi credevano scorresse sotto la città, ma ma le lunghe
e dispendiose ricerche non approdarono a niente.
Negli ultimi versi del canto
successivo, il poeta ode voci che
gridano esempi di invidia punita. Viene ricordata Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, che invidiosa della
sorella, aveva cercato di impedirne l’amore col dio Mercurio, e che da questi
fu per punizione tramutata in pietra.
“Io
son Aglauro che divenni sasso” ( Purg. XIV,v. 139)
Nel canto XV, i due poeti arrivano
alla terza cornice , qui Dante ha la visione di esempi di mansuetudine. il
primo esempio narra di Maria che con Giuseppe ritrova Gesù nel tempio tra i
dottori.
"Ivi
mi parve in una visione
estatica
di subito esser tratto,
e
vedere in un tempio più persone;
e
una donna in su l’entrar, con atto
dolce
di madre dicer: “Figliuol mio,
perché
hai tu così verso noi fatto?
Ecco,
dolenti, lo tuo padre e io
ti
cercavamo”. E come qui si tacque,
ciò
che pareva prima, disparío."
(Purg.,
XV,vv.85-93)
Nella seconda visione di mansuetudine,
si contrappone la mansueta risposta di Pisistrato
alla moglie, di cui condanna l’atteggiamento altero e vendicativo. Essa
infatti chiedeva di punire duramente
l’affronto subito dalla figlia, baciata in pubblico da un giovane ateniese
innamorato di lei.
"Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù
per le gote che ‘l dolor distilla
quando
di gran dispetto in altrui nacque,
e
dir: “Se tu se’ sire della villa
del
cui nome ne’ deèi fu tanta lite,
e
onde ogne scienza disfavilla,
vendica
te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar
nostra figlia, o Pisistràto”.
E
‘l segnor mi parea benigno e mite
risponder
lei con viso temperato:
“Che
farem noi a chi mal ne desira,
se
quei che ci ama è per noi condannato?”.
(Purg.,
XV,vv.94-105)
Nel XVI canto Dante chiede a Marco
Lombardo chi sia quel buon Gherardo che egli ha nominato quale esempio di
saggezza in un secolo privo ormai di valori cavallereschi, e ne ha per risposta
che lo può identificare dalla figlia Gaia.
“Ma
qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’
ch’è rimaso della gente spenta,
in
rimprovero del secolo selvaggio?”.
“O
tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,
rispuose
a me; “ché, parlandomi tosco,
par
che del buon Gherardo nulla senta.
Per
altro sopranome io nol conosco,
s’io
nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio
sia con voi, ché più non vegno vosco*.”
(Purg.,
XV,vv.133-141)
*vosco=con
voi
Questa Gaia era figlia di Gherardo da
Camino, capitano generale di Treviso, protettore di artisti e letterati, di cui
si sa solamente che fu moglie di Tolberto da Camino e che morì nel 1311. Per alcuni commentatori fu esempio di virtù,
per altri invece di impudicizia; in questo caso l’accenno di Dante sarebbe
ironico e fatto solo per contrapporre i sani costumi dell’antichità a quelli
corrotti dell’età nuova.
Proseguendo la lettura della seconda
cantica del poema, troviamo al canto diciassettesimo due figure mitologiche
femminili che Dante ci offre come esempi di ira punita. Esse sono:
Progne,
sposa dell’eroe greco Teseo, la quale uccise il figlio Iti e ne diede in pasto
le carni al marito, per punirlo d’aver violentato la sorella Filomena, e che per questo fu
trasformata in usignuolo.
De
l’empiezza di lei che mutò forma
ne
l’uccel ch’a cantar più si diletta.
(Purg,
XVII, vv19-21)
e la regina Amata, moglie del re Latino, che credendo improrogabili le nozze di
sua figlia Lavinia con lo straniero Enea, furiosa si tolse la vita,
impiccandosi ad una trave:
"Surse
in mia visione una fanciulla
piangendo
forte e dicea: “O regina
perché
per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa*
t’hai per non perder Lavinia;
or
m’hai perduta! Io son essa che lutto*,
madre,
a la tua pria ch’a l’altrui ruina”."
(Purg,
XVII, vv.34-39)
*
ancisa= uccisa;
*
lutto= faccio lutto.
Nel XVIII canto al verso 100, ancora
Maria, la Madonna, è riproposta come
esempio di sollecitudine, quando volle recarsi ad assistere la cugina
Elisabetta, che doveva partorire:
“Maria
corse con fretta alla montagna”
Nel canto successivo, Dante sogna una
femmina deforme (una Sirena), che
diviene a un tratto bellissima e inizia a cantare con voce dolce, ma presto le
si affianca una santa donna che, dopo aver sgridato Virgilio per aver lasciato
che Dante ascoltasse senza proseguire la sua strada, strappa le vesti
all’adescatrice mostrandone il ventre putrido, il cui odore fetido risveglia il
Poeta.
Mi
venne in sogno una femmina balba*,
ne
li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con
le man monche, e di color scialba.
(Purg,
XIX, vv.7-9)
*balba=balbuziente
"Poi
ch’ella avea ’l parlar così disciolto,
cominciava
a cantar, sì che con pena
da
lei avrei mio intento rivolto.
“Io
son – cantava - io son dolce Serèna,
che
‘marinai in mezzo mar dismago*;
tanto
son di piacere a sentir piena!
Io
volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa*,
rado
sen parte; sì tutto l’appago!”.
Ancor
non era sua bocca richiusa,
quand’una
donna apparve santa e presta*
lunghesso
me per far colei confusa.
“O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”,
fieramaente
dicea; ed el venìa
con
li occhi fitti pur in quell’onesta.
L’altra
prendéa e dinanzi l’aprìa,
fendendo
i drappi, e mostravami ‘l ventre;
quel
mi svegliò col puzzo che n’uscía."
(Purg.
XIX vv:16-33)
*
dismago= incanto ;
*
s’ausa= si abitua;
*
presta= premurosa.
Virgilio spiega la visione, dicendo:
“Vedesti
– disse – quell’antica strega
che
sola sovr’a noi omai si piagne*,
vedesti
come l’uom da lei si slega.”
(Purg.
XIX vv:58-60)
*si piagne= per la quale si scontano
le pene nei tre gironi del Purgatorio che ci sovrastano;
*
si slega= si libera
Il sogno vuole esprimere la difficoltà
del distacco dagli allettanti beni materiali (il soave canto della Sirena) e la
necessità della Grazia spirituale (la santa donna)che ne sveli il marcio e la
bruttezza nascosta.
Alla fine di questo canto, Il Poeta
incontra papa Adriano, al quale chiede si se vuole qualcosa dai vivi, ma il
Papa risponde che a pregare per lui non gli è rimasta che la buona nipote Alagia, per la quale teme la vicinanza
corrotta della famiglia.
“Nepote
ho io di là ch’ha nome Alagia,
buona
da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro* malvagia;
e
questa sola di là m’è rimasa”.
(Purg.XIX,
vv.142 –145)
Questa Alagia Fieschi, moglie di
Moroello Malaspina, ebbe fama di donna virtuosa e fu conosciuta personalmente
da Dante durante la sua permanenza nel castello dei Malaspina in Lunigiana.
Nel XX canto (versi 19-24), i due
poeti sentono un’anima narrare esempi di povertà; primo tra gli altri è quello
di Maria, che partorì il Bambino in una povera stalla.
"e
per ventura udi’ : ”Dolce Maria!”
dinanzi
a noi chiamar così nel pianto
come
fa donna che in parturir sia;
e
seguitar: “Povera fosti tanto,
quanto
veder si può per quello ospizio
dove
sponesti* il tuo portato santo”. "
*sponesti=
deponesti
Come esempio di avarizia punita (al
verso112 di questo stesso canto), Dante ricorda, tratta dalle Sacre Scritture,
la figura di Saffira (“indi accusiam
col marito Saffira”). Ella e il marito Anania vendettero un podere e invece di
consegnare l’intero ricavato agli Apostoli, ne trattennero una parte;
smascherati da San Pietro, negarono tutto, ma vennero fulminati da Dio.
Nel canto XXII ( versi 109-114),
Virgilio nomina alcune eroine greche, che dice son con lui nel Limbo. Esse
sono: Antigone, Deifile, Argia,
Ismene, Isifile, Teti, Deidamia e la figlia di Tiresia, la maga Manto.
Qui però il poeta è caduto in contraddizione, perché Manto si troverà poi
all'Inferno, nella bolgia degli indovini (Inf. XX, vv. 52-56)
Di nuovo la Vergine Maria è citata come esempio di temperanza negli ultimi
versi del XXII canto, quando i due poeti si avvicinano ad uno strano albero dai
frutti profumati, che ha rami e tronco che digradano all’ingiù, contrario
dell’abete. Dal folto delle fronde, sentono provenire una voce che ricorda loro
come Maria alle nozze di Cana si preoccupasse più alla buona riuscita della
festa nuziale che di soddisfare la sua bocca (il suo appetito) e dice che con quella
bocca ora Ella intercede per le anime del Purgatorio. Vi è dopo anche un breve accenno alla
sobrietà delle antiche donne romane.
"Li
due poeti all’alber s’appressaro
e
una voce per entro le fronde
gridò:
“Di questo cibo avrete caro*”.
Poi
disse: “Più pensava Maria onde
fosser
le nozze orrevoli* e intere,
ch’a
la sua bocca,ch’or per voi risponde.
E
le Romane antiche, per lor ber,
contente
furon d’acqua;.............."
Purg.,
XXII,vv.139-146)
*caro=
carestia * orrevoli=onorevoli
Nel XXIII Canto, vengono incontro
anime terribilmente magre, il cui aspetto rinsecchito fa venire alla mente a
Dante quello degli Ebrei dopo il lungo assedio di Gerusalemme da parte
dell’imperatore Tito. Allora, per la fame, narrava lo storico Giuseppe Flavio,
una donna Maria di Eleazaro divorò
bestialmente il suo stesso bambino:
"Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando
Maria nel figlio diè di becco*!”."
(Purg.,
XXIII,vv.28-30)
*diè
di becco= divorò col becco come un uccello rapace
Tra di loro, (i golosi puniti con la
pena del contrappasso), Dante incontra l’amico Forese Donati, morto circa
cinque anni prima. Dante gli chiede come è possibile che non sia ancora
nell’Antipurgatorio, come coloro che hanno atteso per pentirsi fino al termine
della vita. Forese risponde che è per merito delle lacrime e delle preghiere di
sua moglie Nella, unica donna onesta
in mezzo alle corrotte donne di Firenze e scaglia una forte invettiva contro la
moda femminile del suo tempo:
“Ond’elli
a me: “Sì tosto m’ha condotto
a
ber lo dolce assenzio d’i martìri
la
Nella mia col suo pianger dirotto,
coi
suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto
m’ha de la costa ove s’aspetta,
e
liberato m’ha de li altri giri.
Tanto
è a Dio più cara e più diletta
la
vedovella mia,che molto amai,
quanto
in bene operare è più soletta;
ché
la Barbagia di Sardigna assai
ne
le femmine sue più è pudica
che
la Barbagia dov’io la lasciai.
O
dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo
futuro m’è già nel cospetto,
cui
non sarà quest’ora molto antica,
nel
qual sarà in pergamo* interdetto
a
le sfacciate donne fiorentine
l’andar
mostrando con le poppe il petto.
Quai
barbare fuor mai, quai saracine,
cui
bisognasse, per farle ir coperte,
o
spiritali o altre discipline*?
Ma
se le svergognate fosser certe
di
quel che ‘l ciel veloce loro ammanna*,
già
per urlar avrian le bocche aperte;
ché,
se l’antiveder* qui non m’inganna,
prima
fien triste che le guance impeli
colui
che mo si consola con nanna.*
(Purg.
XXIII vv. 85-111)
* pergamo=
pulpito ;
* spirital
o altre disciplinei=o pene date dalle autorità religiose o pene date da autorità civili;
* ammanna=
prepara;
* antiveder=prevedere;
* Prima
fien ....con nanna= saranno addolorate prima che metta la barba il bimbo, che
ora si consola con la ninna-nanna.
Nel canto successivo il poeta chiede
all’amico dove sia la sua buona sorella Piccarda
e Forese risponde che ella è già tra i beati:
“Ma
dimmi se tu sai dov’è Piccarda;
dimmi
s’io veggio da notar persona
tra
questa gente che sì mi riguarda”.
“La
mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne
l’alto Olimpo già di sua corona”.
(Purg.XXIV,vv.9-15)
Vi è poi subito dopo l’incontro con il
poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani, che dà modo a Dante di discutere di
poesia e di definire il Nuovo Stile. Prima del colloquio Bonagiunta mormora il
nome Gentucca e dichiara che questa
sarà una donna gentile che gli farà apprezzare la città di Lucca.
“El
mormorava; e non so che “Gentucca”
sentiv’io
là, ov’el sentia la piaga*
de
la giustizia che sì li pilucca.
“O
anima”, diss’io, “che par sì vaga
di
parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e
te e me col tuo parlare appaga”.
“Femmina
è nata e non porta ancor benda*”
cominciò
el, “che ti farà piacere
la
mia città, come ch’om la riprenda.*
Tu
te n’andrai con questo antivedere*;
se
nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti
ancor le cose vere*.”
(Purg.XXIV,vv.37-48)
* ov’el sentia la piaga= dove egli
sentiva lo strazio della fame;
* benda= velo delle donne maritate;
* come... riprenda= sebbene se ne
parli male ;
* antivedere= profezia;
* se nel mio...vere= se ti hanno
indotto in errore le mie parole, le cose reali poi ti chiariranno quanto ho
detto.
Nel canto XXV, i due poeti salgono una
scala che li conduce alla settima cornice, dove in una cortina di fuoco
avanzano i lussuriosi, che alternano un inno sacro ad esempi di castità.
“Appresso
al fine ch’a quell’inno fassi,
gridavano
alto: “Virum non cognosco”,
indi
ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo,
anco gridavano: “Al bosco
si
tenne Diana, ed Elice caccionne
che
di Venere avea sentito il tosco”.
Indi
al cantar tornavano; indi donne
gridavano
e mariti che fuor casti
come
virtute e matrimonio imponne.”
(Purg.XXV,vv.127-135)
Il primo esempio di castità è quello
di Maria che all’Angelo annunziante la nascita di Gesù rispose di non conoscere
uomo; il secondo esempio riporta il mito
della dea Diana, che allontana la ninfa Elice, poiché aveva conosciuto il
veleno (tosco= tossico) dell’amore (Venere);
l’ultimo è l’amore di donne e uomini che vivono castamente il sacramento
del matrimonio.
Nel XXVII canto,infine, Dante e
Virgilio salgono la scala che porta al Paradiso Terrestre. Qui il poeta latino
dice che sono giunti dove la ragione umana (cioè lui stesso) non potrà più fare
da guida:
"…e
se' venuto in parte
dov'
io per me più oltre non discerno"
(Purg,
XXVII vv.124-125)
e
aggiunge che Dante dovrà attendere
"
mentre che vegnan lieti gli occhi belli
che,
lagrimando, a te venir mi fenno" *
(Purg.XXVII,
vv.136-137)
* cioè: i lieti begli occhi di
Beatrice, la quale, piangendo, aveva spinto Virgilio ad andare in aiuto di Dante.
( II canto dell'Inferno).
Nel Paradiso Terrestre si incontrano
due figure di donna: Matelda e Beatrice, le quali lo guideranno nel
cammino verso il Paradiso.
La prima, Matelda, è una sorridente
giovane (“bella donna”) che canta raccogliendo fiori. E' lei che dopo aver fatto immergere Dante
nel fiume Leté, perché si purifichi e dimentichi anche il ricordo del peccato,
lo fa bere alla sorgente dell’Eunoé, in modo che quell’acqua lo rafforzi nelle
virtù.
I commentatori hanno cercato di
ravvisare in lei qualche personaggio storico, chi l’ha identificata con Matilde
di Canossa, chi con la “donna gentile” citata altrove, altri con una delle
donne nella “Vita Nova”, altri ancora con la monaca benedettina Matilde di
Hachenborn o con Matilde di Magdeburgo, autrici entrambe di scritti spirituali.
Il mistero resta, ma con tutta probabilità Matelda è solo il simbolo della
Grazia Divina, infatti Beatrice, nel XXXIII canto dice di lei che è “usa”, cioè
abituata, a purificare le anime che salgono dal Purgatorio al Paradiso.
Nel XXX Canto, a coronamento del
viaggio spirituale verso l’alto, c’è finalmente l’incontro con Beatrice, che
non è più la Bice Portinari, fanciulla amata del poeta, ma, pur nella
conservazione dei lineamenti umani della giovinetta conosciuta da Dante, è
divenuta ormai la rappresentazione tangibile della Teologia, della Verità
rivelata. Essa è la messaggera di Dio, che deve guidare il poeta all’interno
dei cieli del Paradiso.
PARADISO
"…quando
Beatrice in sul sinistro fianco
vidi
rivolta a riguardare il sole"
(
Pd. I,vv.46-47)
siamo nel Paradiso Terrestre, presso
la sorgente dei fiumi Leté ed Eunoé.
Dante inizia ora il viaggio con Beatrice, che è forse la principale
figura femminile di questa terza cantica.. Già dal primo canto ella, con
atteggiamento umanamente materna, presenta al poeta una visione dell’ordine
universale e gli svela la graduazione della beatitudine di cui godono le anime
dei beati:
“Ond’ella
appresso d’un pïo sospiro,
gli
occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che
madre fa sovra figlio deliro*
e
cominciò: “Le cose tutte quante
hanno
ordine tra loro, e questo è forma
che
l’universo a Dio fa somigliante:”
(Pd.
I ,vv.100-105)
*
deliro=delirante per la febbre
Di Beatrice, il poeta non descrive mai
l’aspetto fisico, ma costantemente parla del suo sguardo e del suo sorriso. Gli
occhi sono, da sempre, ritenuti lo specchio dell’anima, quindi Dante vuol
significarci quanto bella e luminosa sia questa donna.
Essa è l'incarnazione di una bellezza
spirituale, pura e luminosa, destinata a schiudere al poeta la visione
abbagliante di Dio.
“.....................e
però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta
ver’ me, sì lieta come bella,
“Drizza
la mente in Dio, grata” -mi disse-
“che
n’ha congiunti con la prima stella”.”
(Pd.
II ,vv.26-30)
altrove
dice
“Ella
sorrise alquanto...”
(canto
II v. 52)
o
“...
sorridendo ardea ne li occhi santi”
(canto
III, verso 24)
o ancora, alla fine del III canto,
Beatrice appare tanto sfolgorante di luce che Dante non può sostenerne la
vista, tanto da non riuscire per un po’a fare la domanda che intendeva
rivolgerle:
“ma
quella folgorò nel mïo sguardo
sì
che da prima il viso* non sofferse
e
ciò mi fece a dimandar più tardo.”
(Pd.
III ,vv.128-130) *viso = la vista
“Beatrice
mi guardò con li occhi pieni
di
faville d’amor così divini,
che,
vinta, mia virtute diè le reni*
e
quasi mi perdei con li occhi chiusi.”
(Pd.
IV ,vv.139-142)
*mia virtute diè le reni = la mia
vista volse le spalle, fuggì via
“e
cominciò, raggiandomi d’un riso
tal,
che nel foco faria* l’uom felice:”
(Pd.
VII ,vv.17-18)
*foco= fuoco; faria= farebbe
“Non
le dispiacque, ma sì se ne rise,
che
lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia
mente unita in più cose divise.” *
(Pd.
X ,vv.61-63)
*Beatrice fu lieta e rise con gli
occhi, così che la mente di Dante si divise tra il pensiero di Dio e di lei.
“Ma
Beatrice sì bella e ridente
mi
si mostrò, che tra quelle vedute
si
vuol lasciar che non seguir la mente.”*
(Pd.XIV,vv.79-81)
*Ma Beatrice mi apparve così bella che
conviene lasciarne la descrizione tra le cose vedute, che sfuggirono alla
memoria.
altrove
il poeta di lei rammenta ancora gli occhi:
“posponendo
il piacer de li occhi belli
ne’
quai mirando mio disio ha posa.”
(Pd.XIV,vv.
130-131)
“Poscia
rivolsi alla mia donna il viso,
e
quinci e quindi stupefatto fui;
ché
dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal,
ch’io pensa co’ miei toccar lo fondo
de
la mia gloria e del mio paradiso.”
(Pd.
XV,vv.32-36)
“Onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo,
parve quella che tossío
al
primo fallo scritto di Ginevra.”*
(Pd.
XVI, vv.13-15)
*Beatrice, ch’era un po’ discosta,
sorride alla debolezza umana del poeta, come la dama di compagnia della regina
tossì assistendo al primo colloquio segreto di Ginevra con Lancillotto.
“fin
che ‘l piacere eterno, che diretto
raggiava
in Beatrice, dal bel viso
mi
contentava col secondo aspetto.*
Vincendo
me col lume d’un sorriso,
ella
mi disse:-“Volgiti e ascolta;
ché
non pur ne’ miei occhi è paradiso”. ”
(Pd.
XVIII , vv. 16-21)
*finché l’eterna grazia di Dio, che
raggiava in Beatrice, dagli occhi (viso) di lei mi contentava con la sua luce
riflessa (secondo aspetto).
“e
vidi le sue luci tanto mere,
tanto
gioconde, che la sua sembianza
vinceva
li altri e l’ultimo solere.”*
(Pd.
XVIII , vv. 16-21)
*solere = aspetto, cioè: e vidi i suoi
occhi tanto puri, tanto lieti, che il suo aspetto vinceva in splendore gli
altri soliti aspetti e anche l’ultimo.
Man mano che Dante si avvicina
all’ultimo cielo e a Dio, cresce anche lo splendore di Beatrice, tanto che ella
dice al poeta di non poter più sorridere, perché lui non potrebbe sostenerne il
fulgore: ne rimarrebbe incenerito, come accadde a Semele, figlia del re Cadmo e madre del dio Bacco, quando chiese a
Giove, suo divino amante, di poterlo vedere in tutta la sua luminosa maestà.
“Già eran gli occhi miei rifissi al volto
de
la mia donna, e l’animo con essi,
e
da ogne altro intento s’era tolto.
E
quella non ridea; ma:“S’io ridessi
-
mi cominciò- tu ti faresti quale
fu
Semelè quando di cener fessi;
ché
la bellezza mia, che per le scale
de
l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai
veduto, quanto più si sale,
se
non si temperasse, tanto splende,
che
‘l tuo mortal potere, al suo fulgore,
sarebbe
fronda che trono scoscende*.”
(Pd.
XXI, vv 1-12)
*sarebbe come una fronda squarciata
dal fulmine (tuono)
Il XXII canto si conclude con un verso
che sottolinea ancora la bellezza degli occhi di Beatrice:
“poscia rivolsi li occhi a li occhi
belli”.
Nel canto successivo, all’annunciarsi
delle schiere del trionfo di Cristo, ella trasfigura nella persona e Dante la
descrive così:
“Pariemi
che ‘l suo viso ardesse tutto,
e
li occhi avea di letizia sì pieni,
che
passarmen convien senza costrutto:”*
(Pd.
XXIII, vv 1-12)
*pariemi = mi pareva, che passarmen
convien senza costrutto = che mi conviene passare avanti senza parlarne, per
l’impossibilita di descriverlo.
Dopo che ha acquistato nuova forza per
aver visto le anime dei beati illuminate dalla presenza spendente di Cristo, il
poeta viene invitato dalla sua donna (“Oh Beatrïce, dolce guida e cara!”) a
guardarla in viso:
“Apri
li occhi e riguarda qual son io;
tu
hai vedute cose, che possente
se’
fatto a sostener lo riso mio”.
(Pd.
XXIII, vv 46-48)
Dante dice però di non essere in grado
di descrivere neppure la millesima parte della bellezza di quel sorriso di
Beatrice.
Ancora
avanti nel canto XXV, v.28, si dice:
“Ridendo
allora Beatrice disse.”
Che in questa figura femminile si debba
vedere l’allegoria della Teologia, è accettato da tutti, ma certo Beatrice ha
in sé un doppio aspetto, perché è impossibile non vedere come Dante veda in lei
l’immagine della fanciulla amata, tanto che talvolta usa espressioni della
poesia cortese del suo tempo:
“La
mente innamorata che donnea
con
la mia donna sempre, di ridure
ad
essa li occhi più che mai ardea;
e
se natura o arte fé pasture
da
pigliare occhi, per aver la mente,
in
carne umana o ne le sue pitture,
tutte adunate, parrebbe nïente
ver’
lo piacer divin che mi refulse,
quando
mi volsi al suo viso ridente.”*
(Pd.
XXVII, vv.88-96)
*donnea = vagheggiava; se natura......= se la natura o l’arte fecero
mai ii tanto belle da essere seca (pastura)da prender gli occhi per conquistare
la mente di chi guarda, tutte queste belle immagini non sarebbero niente a
paragone del piacere divino che splendette i Beatrice, quando mi rivolsi al suo
viso ridente.
“incominciò,
ridendo tanto lieta,
che
Dio parea nel suo volto gioire”
(Pd.
XXVII, vv.103-104)
Dante
si riferisce a Beatrice (v.3, canto XXVIII) le parole:
“Quella
che imparadisa* la mia mente”
*
manda in paradiso
“così
la mia memoria si ricorda
ch’io
feci riguardando ne’ belli occhi
onde
a pigliarmi fece Amor la corda.”*
(Pd.
XXVIII, vv.10-12)
*con
quegli occhi belli Amore fece una corda per catturarmi.
Giunti all’Empireo, cioè l’ultimo
cielo, la bellezza di Beatrice diviene così sovrumana che il poeta si dichiara
incapace di descriverla (canto XXX versi 1-33).
Egli ricorda come dal primo giorno in cui vide Beatrice, a solo nove
anni (come racconta nella Vita Nova), non gli è mai stato precluso di
proseguire nel suo canto, ma ora bisogna che desista dallo scrivere seguendo la
nuova bellezza di lei, come un artista che è giunto al limite delle sue
possibilità espressive.
“Dal
primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in
questa vita, infino a questa vista,
non
m’è il seguire al mio cantar preciso;*
ma
or convien che mio seguir desista
più
dietro a sua bellezza, poetando,
come
a l’ultimo suo ciascun artista.
(Pd.
XXX, vv.28-33)
*preciso
= precluso
Ma lasciamo ora la figura di Beatrice
e proseguiamo nella lettura degli altri canti del Paradiso.
Nel III canto, Dante ha la prima
visione di spiriti beati: sono i volti di varie anime, trasparenti come
immagini riflesse sull'acqua. Questi spiriti in vita non mantennero fede sino
in fondo ai voti fatti, e per questo sono i più distanti da Dio. Tra essi è Piccarda, come era già stato rivelato a Dante dal fratello Forese
Donati con le parole:
"La
mia sorella, che tra bella e buona
non
so qual fosse più, triunfa lieta
ne
l'alto Olimpo già di sua corona"
(Purg.
XXIV, vv. 13-15)
Piccarda è figlia di Simone Donati,
sorella appunto di Forese e di Corso, odiato capo dei Guelfi di parte
Nera. Entrata giovanissima nel monastero
di Santa Chiara a Firenze, fu rapita dal convento dal fratello Corso, che per
ragioni politiche la dette in moglie a Rossellino della Tosa, facinoroso
seguace dei Neri.
(Alcuni commentatori antichi dicono
che essa si ammalò e morì appena tolta dal convento.)
Come
Forese, anche Piccarda ha conosciuto Dante da giovane, vediamo infatti che gli
dice:
"I’
fui nel mondo vergine sorella;
e
se la mente tua ben sé riguarda,
non
mi ti celerà l'esser più bella,
ma
riconoscerai ch'io son Piccarda,
che
posta qui con questi altri beati,
beata
sono in la spera più tarda.”*
(
Pd. III, vv. 47-49)
*spera
più tarda = nel cielo più lento
Il poeta ce la raffigura bella e
ardente di amore spirituale :
"Con
quelle altr'ombre pria sorrise un poco;
da
indi mi rispuose tanto lieta
ch'
arder parea d'amor nel primo foco…"
(Pd.
III, vv.67-69)
Ella parla a Dante di sé e dice che da
giovinetta era entrata nell'ordine fondato da Santa Chiara, di cui dice:
"
perfetta vita e alto merto inciela
donna
più su - mi disse - a la cui norma
nel
vostro mondo giù si veste e vela,"
(Pd.
III, vv. 97-99)
* la vita perfetta e l'alto merito
collocano più in su nei cieli una donna, secondo la cui regola si prendono giù
nel vostro mondo abiti religiosi e velo monacale.
poi
prosegue narrando di sé:
“Dal
mondo per seguirla*, giovinetta
fuggi’mi,
e nel suo abito mi chiusi
e
promisi la via de la sua setta*.
Uomini
poi a mal più ch’a ben usi,
fuor
mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio
si sa qual poi mia vita fusi"
(Pd.
III, vv. 103-108)
*per seguirla = per seguire la vita
monacale; la sua setta = il suo ordine religioso; Iddio si sa qual poi mia vita
fusi = Dio sa quale fu poi la mia vita .
Qui pudicamente Piccarda tace, ma
lascia ad intendere che quel matrimonio, impostole con la violenza, non fu
felice.
Successivamente indica al poeta
un'altra figura luminosa, anch'essa vittima della violenza maschile:
"Sorella
fu e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al
mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor
già mai disciolta. Quest'è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di
Soave* generò ‘l terzo e l’ultima speranza”.
(Pd.
III, vv. 113-120)
*non fu dal vel del cor già mai
disciolta = rimase nel suo cuore sempre fedele al velo, cioè ai voti fatti.
*del secondo vento di Soave... = dal
secondo potente re di Svevia, Enrico VI, generò il terzo e ultimo imperatore,
Federico II.
Si parla di Costanza d'Altavilla,
ultima figlia di Ruggero II, re di Sicilia, la quale si diceva fosse stata
tolta suo malgrado, per ragion di stato, dal convento e fatta sposare a 31 anni
(nel 1185) con Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa. In effetti una donna che arrivasse nubile a
quell'età era per quei tempi evento raro ed improbabile; per questo forse era
nata la credenza che fosse stata rapita dopo aver preso il velo. Da questo
matrimonio nove anni più tardi nacque Federico II, il futuro imperatore. Rimasta
vedova all'età di 43 anni, Costanza governò con prudenza e saggezza il regno,
fino alla morte avvenuta nell'anno successivo (1198). Terminato di parlare Piccarda
intona il canto "Ave Maria" e svanisce d'un tratto così come un
oggetto pesante scompare nell'acqua profonda.
Qua e là nei canti successivi vengono
brevemente ricordate antiche eroine, come le Sabine e Lucrezia, citate per
indicare sinteticamente il periodo storico dei sette re di Roma:
“E
sai ch’el fé dal mal delle Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo
intorno le genti vicine.”*
(Pd.VI,
vv.40-42)
*Tu sai cosa fece, durante sette
regni, dal ratto delle Sabine fino all’offesa che Lucrezia subì da parte di
Tarquinio il Superbo, vincendo i popoli confinanti
o
come Cleopatra:
“Piangene
ancor la trista Cleopatra,
che
fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra*.”
(Pd.VI,vv.76-78)
*subitanea
e atroce
Nel terzo cielo, quello del pianeta
Venere, che irradia sugli uomini l'amore, secondo la credenza antica, troviamo
due personaggi femminili, che in vita si lasciarono trascinare da amori
illeciti e sconsiderati, ma poi, pentitesi, compirono gesta di carità eroica
per amore verso Dio, tanto da meritare il Paradiso. La prima anima è quella di Cunizza da Romano
(1198-1279), sorella di Ezzelino, crudele signore della Marca trevigiana. Ella
ebbe molti mariti ed amanti, tra cui il mantovano Sordello, uno dei più famosi
trovatori del XIII secolo :
"Cunizza
fui chiamata e qui refulgo, perché mi vinse il lume d'esta stella; ma
lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia;" *
(Pd.
IX, vv.32-36)
* lietamente mi perdono per aver
subito la causa della mia sorte,cioè l’influsso del pianeta Veneree non me ne
dolgo .
Un documento del 1265 riporta che,
passata la giovinezza, visse a Firenze, dove morì, dopo aver dedicato gli
ultimi anni della vita ad opere di misericordia verso i bisognosi. Dante da giovane probabilmente la conobbe e
rimase colpito dal suo stupefacente cambiamento di costumi, dal passaggio da
una vita di piacere ad una di religiosa penitenza. Il secondo spirito che ci viene indicato è
quello di Raab, la meretrice cananea, che, come dicono le Sacre Scritture,
meritò la salvezza per la sua grande fede e per aver favorito la causa del
popolo ebraico ( Hebr. XI 31; Isac. II, 25):
“Tu
vuo’ saper chi è in questa lumera che qui appresso me così scintilla come
raggio di sole in acqua mera.* Or sappi che là entro si tranquilla Raab; e a
nostr’ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla.”*
(Pd.IX,vv.112-117)
*Lumera = lume; mera = pura; a
nostro.... sigilla = ella è congiunta la nostro coro, che da lei riceve il
massimo sigillo
Raab, infatti, durante l'assedio della
città di Gerico, aveva nascosto nella sua casa i due esploratori inviati da
Giosuè, sottraendoli alle ricerche del re e, nel ritorno al loro accampamento,
aiutandoli a ripassare indenni il fiume. Dopo la vittoria di Giosuè, la casa di
Raab fu risparmiata dalla distruzione ed ella fu accolta nel popolo di Israele.
Nel canto XV, dalla bocca di Cacciaguida, avo di Dante, sentiamo un elogio
della Firenze antica, città in cui i cittadini anche quelli più in vista e le
loro mogli si accontentavano di poco.
“Fiorenza
dentro da la cerchia antica, ond’ella toglie ancora terza e nona,* si stava in
pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate*,
non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva, nascendo ancor
paura la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote Non fuggien quinci e quindi la
misura. Non avea case di famiglia vote*; non v'era giunto ancor Sardanapalo a
mostrar ciò che 'n camera si puote."
(Pd.
XV vv. 97-108)
*terza
e nona = la chiesa di Badia, costruita presso la prima cerchia di mura, suonava
ancora ai tempi di Dante l’ora terza (le nove di mattina) e l’ora nona (le tre
del pomeriggio).
*contigiate
= ornate di ricami.
*vote
= vuote, prive di prole, per i corrotti costumi dei coniugi.
Le
donne in particolare non andavano vestite riccamente,non si agghindavano e non
si mettevano belletti, così che i mariti vedevano (vv113-114): "…….e venir
da lo specchio la donna sua sanza 'l viso dipinto" “e le sue donne al fuso
e al pennacchio"(v117)
non
essendoci, allora, le discordie civili, le donne erano sicure di morire là dove
erano nate e di non diventare, con i mariti esiliati in terra di Francia, come
oggi si direbbe, "vedove bianche".
Ogni donna si preoccupava di sorvegliare ed allevare i suoi figli,
raccontando, mentre filava, le belle favole antiche sulle origini della
città. In quei tempi antichi Cianghella,
donna arrogante e corrotta, figlia del fiorentino Arrigo della Tosa, amante del
lusso sfrenato,(morta intorno al 1330), sarebbe stata oggetto di stupore, così
come al tempo di Dante sarebbe parsa strana la
17
figura
di Cornelia, la virtuosa madre dei Gracchi (Corniglia).
“Oh
fortunate! ciascuna era certa de la sua sepoltura, e ancor nulla era per Francia
nel letto diserta.” L’una vagheggiava a
studio de la culla, e, consolando, usava l’idïoma che prima i padri e le madri
trastulla; l’ltra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua
famiglia D’i Troiani, di Fiesole e di Roma. Sa ria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Saltarello, qual or saria Cincínnato e Corniglia. (Pd. XV vv.118-129)
Attraverso
le parole del suo avo, Dante trova modo di sferzare la Firenze “nuova”, in cui,
a differenza del buon tempo antico, si dà più importanza allo sfarzo dei
vestiti e degli ornamenti, che alla persona stessa, in cui anche la nascita di
una figlia spaventa il padre,(a causa del tempo troppo precoce del matrimonio e
della misura eccessiva della dote) e in cui infine le case, troppo grandi, sono
vuote, prive di figli, per la lussuria e la depravazione dei costumi
(Sardanapalo era infatti simbolo di sregolatezza e lussuria). Le donne, sembra
dire il poeta, hanno avuto la loro buona parte di colpa nella decadenza civile
e morale della città!
Nel canto XXXI Dante arriva a vedere
la "rosa mistica", cioè tutte le anime beate sui loro seggi. A questo
punto Beatrice scompare, lasciando al suo fianco un vecchio venerando, San
Bernardo, a cui il poeta chiede meravigliato “Ov’è ella?” e il santo gliela
indica nel terzo giro della candida rosa, dove la donna è posta per i suoi
meriti. Nella parte più elevata della rosa, circonfusa di luce sta la Vergine
Maria, nel momento del suo trionfo e della sua incoronazione: Sotto di Lei
siedono di gradino in gradino altre donne beate. S. Bernardo gliele enumera una
ad una, esse sono Eva,.
“La
piaga che Maria richiuse e unse, quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi è colei
che l’aperse e che la punse.”*(Pd. XXXII, vv.4-6) *La ferita (il peccato
originale) che Maria medicò e richiuse, l’aprì e la ferì quella tanto bella che
sta ai suoi piedi.
Rachele,
Beatrice, Sara, Rebecca, Giuditta, Ruth e poi altre eroine Ebree, di cui non fa
il nome. “Nell’ordine che fanno i terzi sedi, siede Rachele di sotto da costei
con Beatrice, sì come tu vedi. Sara e Rebecca, Iudit e colei che fu bisava* al
cantor che per doglia del fallo disse “Miserere mei”, (Pd. XXXII, vv.7-12)
*bisava = Ruth bisavola di David, che compose il Miserere dopo l’adulterio con
Betsabea e l’omicidio del marito di lei.
Dall’altra
parte della Rosa, di fronte a San Pietro sta Anna, madre della Madonna, e
davanti ad Adamo siede Lucia, la martire siracusana, colei che mandò Beatrice
in soccorso di Dante (Inf. I, 61).
“Di
contr’a Pietro vedi sedere Anna, tanto contenta di mirar sua figlia, che non
move occhio per cantare osanna; e contro al maggior padre di famiglia siede
Lucia, che mosse la tua donna quando chinavi, a rovinar,le ciglia.”(Pd. XXXII,
vv.133-138)
L'ultimo
canto del Paradiso, infine, si apre con l’inno di lode di San Bernardo alla
Vergine Maria (Pd. XXXIII, vv.1-39) I questi versi c’è l'esaltazione della
bontà e dell'amore di cui fu ricolma questa donna assolutamente eccezionale e
non simile a nessun altra. Troviamo nel poeta un sentimento tutto cristiano,
uno slancio di fede, visione mistica della Madre del Salvatore, che lo fa
prorompere in una esaltazione che trascende l'immagine della donna comune.
--------------------------------
Dante, come abbiamo letto, non ha posto tra i dannati più sordidi nessuna
donna, ad esclusione di personaggi tratti dal mito o dalla leggenda, anzi
l'unica figura dell'Inferno, che davvero ci muove a pietà e commozione è proprio
una donna: Francesca da Rimini. Nel
Purgatorio, la dolente figura di Pia dei Tolomei e della puntigliosa Sapìa sono
tratteggiate con grande attenzione e sapienza psicologica, si avverte bene tra
le righe che il Poeta partecipa alla loro vicenda umana. Nel Paradiso, dove il mondo materiale è
dimenticato e dove tutto è etereo, la fiorentina Piccarda Donati e la
trevigiana Cunizza da Romano, pur nella loro intensa spiritualità, sono ancora
donne veramente reali, rappresentate cioè con tutte quelle doti di gentilezza,
di dolcezza e di calore umano, comunemente attribuite al genere femminile. Riguardo Matelda o Beatrice, il discorso da
fare è diverso, esse infatti, pur se descritte nelle sembianze di fanciulle
sorridenti e belle, sono quasi figure mistiche, simboli di un processo
interiore di elevazione spirituale, in cui riconosciamo l'immagine della
"donna angelicata" del Dolce Stil Novo. I personaggi femminili che Dante dice di aver
incontrato nel suo viaggio ultraterreno sono tutti storicamente esistiti. Con
loro si è fermato a parlare ed ha voluto a metterne in evidenza i affetti
umani, le passioni, i sentimenti dolenti.
Ha così dato un ritratto vivo, non stereotipato delle donne, in cui
possiamo avvertire una carica di simpatia.. Egli,quasi commosso dalla loro
fragilità umana, sembra assolverle tutte.
Per concludere si può dire che Dante, pure se talvolta si è scagliato
contro le donne, per la smodatezza (o forse modernità?) dei loro costumi, ha
saputo nello stesso tempo tesserne le lodi, sottolineandone in particolare la
sfera del
18
sentimento,
la delicatezza e l'intensità degli affetti, ed ha creato per noi figure
indimenticabili, piene di fascino e sensibilità.
(
adattato da Presenze femminili nella Divina Commedia di Gioia Guarducci)
Nessun commento:
Posta un commento