Citazione

L'insegnamento non può fermarsi alle ore di lezioni in classe.

Compito del docente è quello di accompagnare gli allievi nella formazione della persona e ciò può essere possibile solo in un tempo dilatato, per un'educazione permanente (C.C.E., 2001).

Il concetto di educazione permanente indica che si apprende in differenti contesti formali, informali, e non formali: non solo a scuola, ma anche nella rete web.

domenica 25 giugno 2017

LA FIGURA FEMMINILE NELLA COMMEDIA DI DANTE




Nella civiltà occidentale del Medioevo "la donna" non aveva uno specifico posto. L'uomo, come prima creatura più simile a Dio, possedeva una autorità "naturale" sulla moglie, la figlia, la sorella ed anche la madre. La Bibbia dice: "Dio fece l'uomo a sua immagine e somiglianza", la donna in fondo era nata soltanto dalla costola di Adamo e quindi doveva essere "naturalmente" meno perfetta e meno importante di lui! Il campo d'azione di ogni donna era la casa, il suo dovere la procreazione. Generare buoni eredi era il compito affidatole; il cuore della casa in quei tempi era la grande camera nuziale, dove le donne passavano gran parte della giornata, lavorando d'ago o al telaio, dove concepivano e partorivano figli e dove infine morivano. La fragilità e debolezza della donna "necessitavano" di sorveglianza e di protezione, prima da parte del padre e dei fratelli e poi del marito e della sua famiglia.  Le donne però nella vita pratica non restano subordinate completamente agli uomini, infatti lavorano nei campi o nelle botteghe artigiane con i mariti, filano, tessono, cuciono e ricamano, contribuendo così al benessere familiare.  Nei ceti più agiati, guidano la casa, comandano uno stuolo di servi ed attendono all'educazione dei figli. Come scrive Francesco da Barberino: la figlia di un cavaliere, di un giudice o di un medico dovrà filare o cucire "sì che poi che sarà con suo marito in casa, possa malinconia con ciò passare, oziosa non stare e anco in ciò alcuno servigio fare".  Molte famiglie povere mandavano a servizio le proprie figliole, per procurare loro un po' di dote e il corredo, ed anche le vedove, quando non riuscivano ad ottenere dagli eredi del marito quanto spettava loro, erano costrette a guadagnarsi da vivere filando o come domestiche in casa d'altri, tutte comunque venivano sospettate di cattiva condotta morale, di costumi sfrenati, data la nota "debolezza" della natura femminile!  Nella mentalità comune di quell'epoca, le donne sono ritenute tutte subdole, ingannatrici, licenziose e inaffidabili: "Tutti i grandi disonori, vergogne, peccati e spese s'acquistano per femmine" riporta infatti un testo antico.  La ribellione o l'insubordinazione della donna portava disordine e era soggetta alla sanzione della comunità ed anche delle leggi civili e religiose.  Abbiamo fin qui visto che la società medievale vedeva nella donna un personaggio gregario, cui negare ogni autonomia. La "condizione femminile" aveva riconoscimento solo nell'ambito del matrimonio o tra le mura di un convento.  In questo quadro poco idilliaco per le donne, quale considerazione del genere femminino aveva un grande poeta di quel tempo, Dante?

INFERNO

Nei trentatré canti dell'Inferno, “tra le genti dolorose c’hanno perduto il ben dell’intelletto” (Inf. III, vv.17-18) gli incontri con figure femminili sono veramente pochi, spesse volte invece il poeta cita personaggi che non sono presenti, ma solo ricordati nelle parole delle anime trapassate o come modelli esemplari. Dentro l'immane voragine che si sprofonda nel mezzo dell’emisfero settentrionale, Dante immagina di trovare una miriade di anime dannate, tra cui molti personaggi ben conosciuti del suo tempo.  I primi spiriti femminili si trovano nel Limbo (IV Canto), luogo che accoglie non propriamente i dannati, ma solo coloro che non avendo conosciuto la vera fede sono stati esclusi dalla beatitudine eterna.  Proprio nel Limbo Dante incontra Beatrice ( la fanciulla fiorentina amata dal poeta fin dall’infanzia e ispiratrice di tutte le sue poesie), che è scesa su invito di S. Lucia a sua volta inviata dalla Madonna, per incoraggiarlo ad intraprendere questo viaggio di redenzione.

 “I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar desio;
Amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
(Inf. II, vv.70-74)

Tra i giusti, che non conobbero Dio e non ricevettero il battesimo, ma che furono in vita esempi di virtù, ecco otto antiche donne (le prime cinque, però, sono solo figure della leggenda ).  Esse con altre anime, né tristi, né felici, abitano in un “nobile castello”, circondato da un “prato di fresca verdura” e “difeso intorno d' un bel fiumicello”, in “loco aperto, luminoso ed alto”. Dante non si attarda a parlare con loro, ma ne fa cenno nominandole ad una ad una :

“I’ vidi Elettra con molti compagni,
tra ‘quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea,
da l’altra parte, e vidi ‘l re Latino,
che con Lavinia sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia;
e solo in parte vidi il Saladino.
(Inf. V, vv.121-129)

Elettra madre di Dardano, progenitrice della stirpe Troiana, di Enea e dei suoi discendenti, 
Camilla figlia del re dei Volsci, caduta nella guerra contro Enea  Pentesilea regina delle Amazzoni, figlia di Ares (Marte), uccisa da Achille 
Lavinia figlia del re Latino, moglie di Enea e progenitrice dei Romani 
Lucrezia moglie di Collatino, suicidatasi dopo l’offesa fatta al suo onore da Sesto Tarquinio  
Iulia figlia di Giulio Cesare e sposa di Pompeo 
Marzia moglie di Catone l’Uticense. 
Di Marzia si parlerà ancora nel I canto del Purgatorio, quando Dante e Virgilio supplicano, in nome della sua cara sposa, appunto, il vecchio custode del secondo regno, Catone. Marzia sta tutta nella dolce espressione "occhi casti", e in quel tenero desiderio che il marito la consideri ancora sua.

 "ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni."
(Purg. I, vv.78-80)

Corneglia (Cornelia) madre dei Gracchi .

Nel canto che segue Dante incontra i lussuriosi, coloro cioè che non riuscirono a frenare gli istinti carnali (II cerchio). Questi spiriti vengono trasportati qua e là da una incessante bufera: 

"la bufera infernal che mai non resta
mena gli spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta”
(Inf. V, vv.31-33)

Questa loro pena segue la cosiddetta legge del “contrappasso”, una pena cioè esattamente uguale o contraria alla colpa commessa: i lussuriosi sono trascinati vorticosamente dalla bufera, così come in vita furono trascinati dalle passioni. Il poeta chiede a Virgilio:

"…Maestro chi son quelle 
genti, che l’aura nera sì gastiga?”
(Inf.. V, vv.50-51)

e Virgilio gli risponde, indicando tra mille e più ombre che passano anche le figure di alcune donne:

“ La prima di color di cui novelle
tu vuoi saper “ mi disse quegli allotta*,
“fu imperadrice di molte favelle.
a vizio di lussuria fu sì rotta
che libito fe’ lecito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa;
tenne la terra che ‘l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi il grande Achille
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano...”e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
che amor di nostra vita dipartille. 
(Inf. V, vv. 52-69)

*Allotta= allora

Didone, suicidatasi dopo essere stata abbandonata da Enea, Cleopatra ("Cleopatràs lussuriosa"), portata alla guerra e al suicidio per amore di Antonio, Elena, moglie infedele e causa della sanguinosa guerra di Troia, Semiramide, lussuriosa e uccisa dal figlio incestuosamente amato. Sono tutte eroine della tradizione classica, che vengono indicate come esempi di amore eccessivo o mal riposto. Gli unici personaggi vissuti veramente che il poeta incontra sono Paolo e Francesca.

Dante rivolgendosi a Virgilio dice:

":……………..Poeta, volentieri 
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno 
e paion sì al vento esser leggieri”.
(Inf.,V,vv.73-74)

Chi parla con Dante, però, è solo Francesca, perché Paolo al suo fianco piange e tace. Tutti la conosciamo: è Francesca da Rimini, o più precisamente Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, Guido il vecchio.  Ricordiamo qui che dal 1318 Dante fu ospite, durante il suo esilio da Firenze, di un nipote di quest'ultimo, Guido Novello da Polenta.  Francesca, giovanissima, costretta a sposare per ragioni politiche (1275) Gianciotto Malatesta, vecchio, zoppo e deforme I due amanti, probabilmente nell’anno 1285, furono però sorpresi e uccisi dal marito–fratello offeso.  Perché Dante parla di questo episodio di cronaca nera del suo tempo? 
Il fattaccio di cronaca nera, accaduto in una Corte famosa, aveva suscitato ai suoi tempi molto scalpore. Dante, però, non lo riporta per dovere di cronaca, ma solo perché spinto da un sentimento di partecipazione e pietà, (dirà infatti:- “Francesca i tuoi martiri a lacrimar mi fanno tristo e pio”).
Il poeta forse vede riflessi in Francesca se stesso e la fragilità di tutti gli esseri umani. Riconosce colpevole la donna e giusta la condanna, ma se ne duole e prova dell’affetto per la sua tragica sorte, in fondo, come dice il Vangelo, “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”.
Ascoltiamo le parole di Francesca da Rimini:

 “O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aer perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno:
se fosse amico il Re dell’universo
noi pregheremmo Lui della tua pace,
poi c’hai pietà del nostro amor perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che ‘l vento come fa si tace.
Siede la terra dove nata fui,
su la marina dove il Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, c’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte,
Caina attende chi a vita ci spense.
” (Inf. V, vv. 88-107)

Quest’ultime terzine sono famosissime e iniziano tutte con la parola “Amor”. Questo Amore rappresenta tutta l’esistenza di questa giovane donna e tutta la sua tragedia. Francesca sembra quasi voler allontanare da sé la responsabilità di un amore colpevole, indicando nell’Amore una ineluttabile forza, che agisce indipendentemente dalla volontà dell’individuo. (“Amor ch’al cor gentil ...” è il concetto proprio del Dolce Stil Novo che ritroviamo anche in molti altri poeti.) Più avanti troviamo citata la maga tessala Eritone, la quale dice Virgilio lo aveva una volta costretto, con un sortilegio, a lasciare il Limbo per scendere nel nono cerchio infernale per evocare uno spirito sulla terra.

Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritòn cruda
che richiamava l’ombre ai corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
(Inf. IX, vv.22-27)

Sempre in questo canto, Dante incontra le figure mitologiche delle tre Furie (Megera, Aletto e Tesifone) e della Gorgone.

"...tre Furie infernal di sangue tinte,
che membra femmine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avian per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte."
(Inf. IX, vv. 38-42)

e poi:

“Quest’è Megera dal sinistro canto,
quella che piange dal destro è Aletto,
Tesifòn è nel mezzo” e tacque a tanto.
(Inf. IX, vv. 46-48)

“Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ‘l Gorgòn si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso:”
(Inf. IX, vv. 55-57)

Anche solo con brevi cenni possiamo talora scorgere la simpatia del Poeta per alcune figure femminini che non si trovano all’Inferno, ma qui vengono solo ricordate, come ad esempio (Inf. XVI, v.37) l’ava del dannato Guido Guerra, “la buona Gualdrada”, (esempio di virtù domestiche e di onesti costumi nella Firenze del suo tempo) o Ghisolabella, sorella di Venedico Caccianemico, condannato tra i ruffiani,

“I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far le voglie del marchese,
come che suoni la sconcia novella.” 
(Inf. XVIII, vv.55-57)
o pure ancora Isifile, fanciulla mitologica, ma viene soltanto ricordata quando Dante incontra Giasone (Iasòn)

"Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta." 
(Inf. XVIII, vv.91-96)

Altro linguaggio Dante adopera però per peccatrici più spregevoli, vediamo infatti come ci presenta Taide, la prostituta, che troviamo nella seconda bolgia tra gli adulatori: 

“di quella sozza e scapigliata fante *
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taide è, la puttana che rispuose.....” 
( Inf., XVIII, vv.129-133)

* fante = fantesca; donna;

Come si vede, in questo caso, non c’è né commiserazione, né pietà alcuna! Taide è un personaggio classico, tratto dalla commedia “L’Eunuco” dello scrittore latino Terenzio. Scendendo ancora più giù nell’imbuto infernale, nella quarta bolgia, tra gli indovini che vollero “veder troppo davante” ed ora “tacendo e lacrimando” procedono avanzando all’indietro col capo orrendamente torto, ci si presenta la maga Manto. Manto, figlia dell’indovino tebano Tiresia, è la fondatrice della città di Mantova (= Mantua, città natale del poeta Virgilio). Con questi versi, messi in bocca a Virgilio, viene raffigurata l’indovina : 

“E quella che ricopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogni pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte; 
poscia si pose là dove nacqu’io;” 
( Inf., XX, vv.51-56)

 “Qui passando la vergine cruda *
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì per fuggire ogni consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi ch’intorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fér la città sovra quell’ossa morte;
e per cole che ‘l loco prima elesse,
Mantua l’appellar sanz’altra sorte.” 
( Inf., XX, vv.82-93)
 * cruda: selvatica

Verso la fine del canto si incontrano ancora altre indovine o streghe, che vengono nominate di sfuggita con le seguenti parole:
 
"Vedi le triste che lasciaron l'ago,
la spola e 'l fuso e fecersi 'ndivine,
fecer malie con erbe e con imago" *
( Inf., XX, vv.121-123)

* ‘ndivine = indovine; imago = immagine
Nel XXX canto, Dante ricorda, in una similitudine tratta dal mito, una madre resa folle dal dolore: Ecuba, regina di Troia, che, dopo la caduta della città, vede l’uccisione della figlia Polissena e poi trova sulla riva del mare il corpo fatto a pezzi del figlio Polidoro. la leggenda tramandava che ella impazzisse e fosse tramutata in cagna.

"Ecuba trista, misera e cattiva *
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come un cane;
tanto il dolor le fé la mente torta". 
(Inf, XXX, vv. 16-20)

* cattiva: sciagurata

Appartiene al mito anche un’altra figura femminile, che troviamo tra i dannati: Mirra. Questa era una principessa, che per poter soddisfare la sua insana passione verso il proprio padre, Cinìra, re di Cipro, si finse un’altra donna. Il padre si accorse dell'inganno e disgustato cercò di ucciderla, ma ella riuscì a fuggire e fu poi mutata in pianta odorosa (la mirra, appunto). Mirra è punita nel cerchio VIII, nella decima bolgia, tra i falsificatori di persona.

"Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica. 
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma …......” 
(Inf., XXX,vv.37-41) 

Ultima apparizione femminile dell’Inferno è un personaggio biblico la moglie di Putifarre, la quale accusò falsamente Giuseppe di aver tentato di violentarla, mentre era stato proprio lui a sfuggire ai suoi tentativi di adescamento. Noi la incontriamo tra le anime degli accusatori fraudolenti, che giacciono in preda ad una grande febbre.

"Ed io a lui: “ chi son li due tapini 
che fumman come man bagnate ‘l verno,* 
 giacendo strette ai tuoi destri confini?”
 “ Qui li trovai – e poi volta non dierno-“,
rispuose, “quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
L'una è la falsa che accusò Gioseppo...” 
(Inf., XXX, vv.91-97)

*cioè che fumano per l’evaporazione del sudore della febbre come fumano le mani bagnate nelle gelide giornate invernali. Dopo questo ultimo incontro fino al Purgatorio non troveremo più personaggi femminili.

PURGATORIO

Nel Purgatorio, in un paesaggio prettamente terrestre, Dante si imbatte in molti vecchi amici di gioventù, ricorda i tempi di Firenze prima dell’esilio e il cuore gli si riempie di nostalgia e di rammarico.  Tra coloro che espiano in questo luogo le loro colpe prima di salire in Paradiso,dante non pone molte donne, ma vengono proposti numerosi personaggi femminili tratti o dalla storia o dal mito, come esempi sia virtù che di colpa.  Nel primo canto troviamo Virgilio che, mentre supplica Catone di lasciarli passare, ricorda, al severo custode del Purgatorio, l’affetto della sua sposa Marzia, che si trova tra le anime del limbo.

“Non son gli editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son gli occhi casti
di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amor adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni”.
“Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora 
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.” 
(Purg. I, vv.78-90)

Con la connotazione degli “occhi casti”e della richiesta che la consideri sempre sua moglie (“che per tua la tegni”), Dante fa di Marzia l’esempio di moglie fedele. Il poeta non ha voluto tener conto della verità storica, che ci dice come Catone l’Uticense, dopo aver sposato Marzia, la cedette a Quinto Ortensio e che, solo dopo la morte di quest’ultimo, la riprese con sé.

Nel terzo canto, Manfredi, presentatosi come nipote di Costanza d’Altavilla (anima che ritroveremo tra i beati nel III canto del Paradiso), prega Dante affinché, una volta tornato nel mondo dei viventi, riferisca a sua figlia (anch’essa di nome Costanza, che egli afferma essere “bella” e “buona”), che lui, nonostante la scomunica, si è salvato dall’Inferno e che attende di poter scontare le sue colpe nel Purgatorio.

Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.” 
(Purg.III, vv.112-117)

e poco dopo aggiunge :

“Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza”. 
( Purg. III vv.142-145)

Nel V canto del Purgatorio è ricordata con biasimo Giovanna, sposa di Bonconte da Montefeltro, che chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere, perché sua moglie non lo ricorda più:

“Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non han di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte”. 
(Purg. V, vv.88-90)

Nel canto V le anime si presentano dicendo di sé:

“Noi fummo tutti già per forza morti, 
e peccatori infino a l’ultima ora; 
quivi lume del ciel ne fece accorti, 
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati…”  
(Purg. V, versi 52-57)

Tra loro si trova la mesta figura di Pia de’ Tolomei, un personaggio storicamente vissuto tra la fine del 1200 e i primi anni del secolo successivo.  Ella apparteneva alla famiglia dei Tolomei di Siena. Andata sposa a Nello de’ Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, fu assassinata dal marito, che la fece precipitare da un balcone del castello della Pietra in Maremma. (Oggi le rovine di questo castello vengono ancora indicate come “il salto della Contessa”.). C’è chi dice che sia stata uccisa perché colpevole di infedeltà, chi invece sostiene che il marito se ne liberò per potersi risposare. Ci sono molte notizie infatti di una relazione e di un successivo matrimonio di Nello con una donna “dai molti mariti e dai molti amanti”: Margherita degli Aldobrandeschi. 
 Il mistero della morte di Pia rimane fitto oggi come allora.

“ Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via
- seguitò 'l terzo spirito al secondo - 
ricorditi di me che son la Pia; 
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria 
disposando m’avea con la sua gemma” *
(Purg., V, vv.130-136)

 * lo sa bene colui che, dopo avermi inanellata con la sua gemma, mi ha sposata. oppure come interpreta Natalino Sapegno, seguendo un anonimo commentatore fiorentino antico,: "come sa bene colui che mi fece morire e che prima mi aveva dato l'anello e sposata".
Dante prova per questa giovane affetto e commiserazione, infatti ce la presenta come una donna quieta piena di sollecitudine e di dolcezza, priva di qualunque risentimento verso il marito.

Nell'ottavo canto Dante incontra un caro amico, il giudice Nino Visconti, che ricorda con grande affetto la figlia Giovanna e dà invece di Beatrice d'Este, la sua vedova, passata assai presto a nuove nozze, un giudizio assai duro:

“Quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li ‘nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più m'ami,
poscia che trasmutò le bianche bende, 
le quai convien che, misera, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d'amor dura."
(Purg. VIII, vv. 70-78)

Dante qui mostra di credere che Beatrice d'Este fosse colpevole di infedeltà alla memoria del marito, ma in realtà nel medio evo le donne non potevano disporre di se stesse, e i loro matrimoni erano oggetto di scambi politici, in nome del benessere familiare.  A quei tempi, comunque, le seconde nozze delle spose erano mal viste dall'opinione pubblica e le loro infedeltà, quando i mariti erano lontani, erano un luogo comune diffusissimo.  Nelle parole di Nino Visconti (e quindi in Dante stesso) vi è un’eco del pregiudizio medievale contro le donne, secondo una tradizione letteraria che risale ai classici, Ovidio, Virgilio ecc. e ai Padri della Chiesa.  Può darsi anche che il Sommo Poeta, pensasse alla propria moglie Gemma, che non lo aveva seguito nell'esilio, neanche quando i suoi figli stessi lo avevano raggiunto.

Nel canto successivo si affaccia Lucia (la santa di Siracusa), la quale, per facilitargli la salita, prende tra le braccia Dante addormentato, e lo porta all’ingresso del Purgatorio. 
Virgilio racconta a Dante:

Venne una donna e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e l’altre gentil forme;
ella ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella entrata aperta;
poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro”.  
(Purg. IX vv. 55-63)

Nel canto X Dante, mentre sale, vede scolpiti in altorilievo, nella parete del monte di marmo bianco, esempi di umiltà. 

Il primo di questi rappresenta la Madonna che riceve l'annunzio dall'Angelo che pare dica “Ave!”, mentre Maria che sembra dire: "Ecco la serva di Dio": 

"Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”,
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
“Ecce ancilla Dei”, propriamente
come figura in cera si suggella."
(Purg. X vv.40-45)

Dopo appare il re David, che danza intorno all'Arca dell'Alleanza, mentre ad una finestra del palazzo reale appare Micol, la moglie, che è rappresentata irritata per l'eccessiva umiltà del marito. 

  "Di contra, effigiata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista."
(Purg. X vv.67-69)

Più avanti troviamo scolpita la storia di Traiano e della vedova che gli chiede giustizia. La vedova è descritta come una donna chiusa nel suo dolore ma dotata di un forte senso di giustizia e di una lucida capacità di obiezione. 

 " ’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro
pareva dir:: “Segnor, fammi vendetta
di mio figliol ch’è morto, ond’io m’accoro”;
ed elli a lei rispondere: “Or aspetta
tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,
come persona in cui dolor s’affretta,
“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io,
la ti farà”; ed ella. “L’altrui bene
a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?
ond’elli : “Or ti conforta; ch’ei conviene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritiene”." 
(Purg. X vv.76-93)

Nel XII canto, tra gli esempi di superbia punita intagliati nella pietra del sentiero che sale verso la vetta del Purgatorio, Dante vede raffigurate due eroine della mitologia classica: Niobe e Aracne.

"O Niobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti."
(Purg. XII, vv.37-39)

 "O folle Aragne,sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su gli stracci
de l'opera che mal per te si fé." 
(Purg. XII, vv. 43-45)

Niobe, moglie del re di Argo, superba per la numerosa prole (sette maschi e sette femmine) schernì la dea Latona, madre di soli due figli Apollo e Diana, e per questo fu da lei punita con l'uccisione di tutti i suoi figli. Aracne, abile e superba tessitrice della Lidia, avendo sfidato la dea Atena nell'arte del tessere, fu da questa tramutata in ragno (Aragne = Aracne, nome che in greco significa "ragno").
Successivamente saliamo al girone dove sono puniti gli invidiosi, coloro cioè che furono più lieti del danno degli altri che della propria fortuna.  Questi penitenti, vestiti con mantelli dal colore livido della pietra , addossati l’uno accanto all’altro alla parete rocciosa e con gli occhi cuciti col fil di ferro, sono paragonati ai mendicanti ciechi che sostano alle porte delle chiese.  Mentre il Poeta cammina si sentono voci aeree che gridano esempi di carità, che incitano il buon cristiano non solo a non invidiare il suo prossimo, ma anzi ad amarlo. Il primo esempio ricorda il gesto di Maria alle nozze di Cana, allorché piena di sollecitudine verso i giovani sposi, disse "Non hanno più vino" e invitò il Figlio a compiere il primo miracolo.

"E verso noi volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d’amor cortesi inviti.
La prima voce che passò volando
 “Vinum non habent” altamente disse,
e dietro a noi l’andò reiterando."
(Purg. XIII vv.25-30)

Mentre avanza sul sentiero di livida pietra, Dante vede un'ombra, che alza il mento in su come fanno i ciechi, e le chiede di farsi riconoscere.

Tra l’altre vidi un’ombra ch’ aspettava
in vista; e se volesse alcun dir “Come?”,
lo mento a guisa d’orbo in sù levava.
“Spirto” diss’io “che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome”.
"Io fui sanese"- rispuose- "e con questi
altri rimondo qui la vita ria, 
lagrimando a colui che sé ne presti. *
Savia non fui, avvegna che Sapìa *
Fussi chiamata, e fui de l'altrui danni
più lieta assai che di ventura mia" 
(Purg. XIII, vv. 100-110)

* rimondo…= purifico la vita empia lagrimando…= supplicando con lacrime affinché Dio (Colui) conceda se stesso a noi
* avvegna che Sapìa…= sebbene il mio nome fosse Sapìa,(nome che ha la medesima radice di "savia" e di "sapere"). 
  
Sapia, della famiglia senese Salvani, era zia di quel Provenzano, che aveva sperato di diventare Signore di Siena e che, per questa sua presunzione, Dante ha posto tra i Superbi (vedi il Canto XI del Purgatorio). Ella fu sposa di Ghinibaldo di Saracino, signore di Castiglioncello, presso Monteriggioni.  Ai piedi di questo luogo, sulla via francigena, insieme al marito, Sapia aveva fatto costruire l’ospizio di Santa Maria per i pellegrini che si recavano a Roma e nei Luoghi santi.

Di lei non si sa molto, eccetto che prese parte alle lotte politiche e che, come essa stessa dice, assistette compiaciuta ( non si sa bene perché) alla sconfitta, ad opera dei Guelfi di Firenze, dei suoi concittadini, guidati dal suo stesso nipote Provenzano Salvani, nella battaglia di Colle Val d'Elsa nel 1269.

“ Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari 
ed io pregava Iddio di quel ch’e’ volle. 
Rotti fuor quivi e volti ne li amari 
passi di fuga; e veggendo la caccia, 
letizia presi a tutte altre dispàri*, 
tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia, 
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”, 
come fe’ ‘l merlo per poca bonaccia.”*
(Purg. XIII, vv.115-123)

* dispàri= diversa
* come fe’ il merlo…= riferimento ad una favola popolare che dice come il merlo, dopo un periodo freddo, per pochi giorni di sole, credendo finita la cattiva stagione, cantasse al Signore “ Non ti temo più, perché è finito l’inverno!”.
Dalle sue parole Sapia sembra pentita per aver partecipato con tanto odio alle lotte fratricide e appare grata al vecchio Pier Pettinaio, che con le sue sante preghiere le ha abbreviato il tempo da trascorrere nell'Antipurgatorio.  Sul finire del suo lungo discorso, quest'anima chiede che Dante, tornato sulla terra, la riabiliti presso i suoi parenti.

“E chèggioti* per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui* tu ben mi rinfami*.
Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana;
ma più vi perderanno gli ammiragli”. 
(Purg. XIII, vv.148-154)

*cheggioti= ti chiedo;   propinqui= concittadini;  rinfami= mi ridia buona fama

Qui, però, si vede in lei ancora una pepata vena canzonatoria verso i suoi concittadini, definiti “gente vana”, perché sperano in imprese senza costrutto, ) sperperando i loro averi.  Si diceva infatti che il borgo di Talamone sull’Argentario fosse stato acquistato dai Senesi per farne uno sbocco al mare, ma, essendo il luogo  malarico, nonostante le ingenti spese essi non ne ricavassero niente. La Diana era un mitico fiume, che i Senesi credevano scorresse sotto la città, ma ma le lunghe e dispendiose ricerche non approdarono a niente.
Negli ultimi versi del canto successivo, il poeta ode voci  che gridano esempi di invidia punita. Viene ricordata Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, che invidiosa della sorella, aveva cercato di impedirne l’amore col dio Mercurio, e che da questi fu per punizione tramutata in pietra.

“Io son Aglauro che divenni sasso” ( Purg. XIV,v. 139)

Nel canto XV, i due poeti arrivano alla terza cornice , qui Dante ha la visione di esempi di mansuetudine. il primo esempio narra di Maria che con Giuseppe ritrova Gesù nel tempio tra i dottori.

"Ivi mi parve in una visione
estatica di subito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: “Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo”. E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, disparío." 
(Purg., XV,vv.85-93)

Nella seconda visione di mansuetudine, si contrappone la mansueta risposta di Pisistrato alla moglie, di cui condanna l’atteggiamento altero e vendicativo. Essa infatti  chiedeva di punire duramente l’affronto subito dalla figlia, baciata in pubblico da un giovane ateniese innamorato di lei.

 "Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ‘l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: “Se tu se’ sire della villa
del cui nome ne’ deèi fu tanta lite,
e onde ogne scienza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto”.
E ‘l segnor mi parea benigno e mite
risponder lei con viso temperato:
“Che farem noi a chi mal ne desira,
se quei che ci ama è per noi condannato?”. 
(Purg., XV,vv.94-105)

Nel XVI canto Dante chiede a Marco Lombardo chi sia quel buon Gherardo che egli ha nominato quale esempio di saggezza in un secolo privo ormai di valori cavallereschi, e ne ha per risposta che lo può identificare dalla figlia Gaia.

“Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso della gente spenta,
in rimprovero del secolo selvaggio?”.
“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,
rispuose a me; “ché, parlandomi tosco, 
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco*.” 
(Purg., XV,vv.133-141)

*vosco=con voi

Questa Gaia era figlia di Gherardo da Camino, capitano generale di Treviso, protettore di artisti e letterati, di cui si sa solamente che fu moglie di Tolberto da Camino e che morì nel 1311.  Per alcuni commentatori fu esempio di virtù, per altri invece di impudicizia; in questo caso l’accenno di Dante sarebbe ironico e fatto solo per contrapporre i sani costumi dell’antichità a quelli corrotti dell’età nuova.
Proseguendo la lettura della seconda cantica del poema, troviamo al canto diciassettesimo due figure mitologiche femminili che Dante ci offre come esempi di ira punita. Esse sono:
Progne, sposa dell’eroe greco Teseo, la quale uccise il figlio Iti e ne diede in pasto le carni al marito, per punirlo d’aver violentato la sorella Filomena, e che per questo fu trasformata in usignuolo. 

De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta.
(Purg, XVII, vv19-21)

e la regina Amata, moglie del re Latino, che credendo improrogabili le nozze di sua figlia Lavinia con lo straniero Enea, furiosa si tolse la vita, impiccandosi ad una trave:

"Surse in mia visione una fanciulla
piangendo forte e dicea: “O regina
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa* t’hai per non perder Lavinia;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto*,
madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina”." 
(Purg, XVII, vv.34-39)

* ancisa= uccisa; 
* lutto= faccio lutto.

Nel XVIII canto al verso 100, ancora Maria, la Madonna, è riproposta come esempio di sollecitudine, quando volle recarsi ad assistere la cugina Elisabetta, che doveva partorire:

“Maria corse con fretta alla montagna”
 
Nel canto successivo, Dante sogna una femmina deforme (una Sirena), che diviene a un tratto bellissima e inizia a cantare con voce dolce, ma presto le si affianca una santa donna che, dopo aver sgridato Virgilio per aver lasciato che Dante ascoltasse senza proseguire la sua strada, strappa le vesti all’adescatrice mostrandone il ventre putrido, il cui odore fetido risveglia il Poeta.

Mi venne in sogno una femmina balba*,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di color scialba. 
(Purg, XIX, vv.7-9)

*balba=balbuziente

"Poi ch’ella avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar, sì che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
“Io son – cantava - io son dolce Serèna,
che ‘marinai in mezzo mar dismago*;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
 al canto mio; e qual meco s’ausa*,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”.
Ancor non era sua bocca richiusa, 
quand’una donna apparve santa e presta*
lunghesso me per far colei confusa.
 “O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”,
fieramaente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quell’onesta.
L’altra prendéa e dinanzi l’aprìa,
fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscía."
(Purg. XIX vv:16-33)

* dismago= incanto ; 
* s’ausa= si abitua; 
* presta= premurosa. 

Virgilio spiega la visione, dicendo:

“Vedesti – disse – quell’antica strega
che sola sovr’a noi omai si piagne*,
vedesti come l’uom da lei si slega.” 
(Purg. XIX vv:58-60)

*si piagne= per la quale si scontano le pene nei tre gironi del Purgatorio che ci sovrastano; 
* si slega= si libera

Il sogno vuole esprimere la difficoltà del distacco dagli allettanti beni materiali (il soave canto della Sirena) e la necessità della Grazia spirituale (la santa donna)che ne sveli il marcio e la bruttezza nascosta.
Alla fine di questo canto, Il Poeta incontra papa Adriano, al quale chiede si se vuole qualcosa dai vivi, ma il Papa risponde che a pregare per lui non gli è rimasta che la buona nipote Alagia, per la quale teme la vicinanza corrotta della famiglia.

“Nepote ho io di là ch’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
 non faccia lei per essempro* malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa”.  
(Purg.XIX, vv.142 –145)

Questa Alagia Fieschi, moglie di Moroello Malaspina, ebbe fama di donna virtuosa e fu conosciuta personalmente da Dante durante la sua permanenza nel castello dei Malaspina in Lunigiana.
Nel XX canto (versi 19-24), i due poeti sentono un’anima narrare esempi di povertà; primo tra gli altri è quello di Maria, che partorì il Bambino in una povera stalla. 

"e per ventura udi’ : ”Dolce Maria!”
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;
e seguitar: “Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti* il tuo portato santo”. "

*sponesti= deponesti

Come esempio di avarizia punita (al verso112 di questo stesso canto), Dante ricorda, tratta dalle Sacre Scritture, la figura di Saffira (“indi accusiam col marito Saffira”). Ella e il marito Anania vendettero un podere e invece di consegnare l’intero ricavato agli Apostoli, ne trattennero una parte; smascherati da San Pietro, negarono tutto, ma vennero fulminati da Dio.
Nel canto XXII ( versi 109-114), Virgilio nomina alcune eroine greche, che dice son con lui nel Limbo. Esse sono:  Antigone, Deifile, Argia, Ismene, Isifile, Teti, Deidamia e la figlia di Tiresia, la maga Manto. Qui però il poeta è caduto in contraddizione, perché Manto si troverà poi all'Inferno, nella bolgia degli indovini (Inf. XX, vv. 52-56)
Di nuovo la Vergine Maria è citata come esempio di temperanza negli ultimi versi del XXII canto, quando i due poeti si avvicinano ad uno strano albero dai frutti profumati, che ha rami e tronco che digradano all’ingiù, contrario dell’abete. Dal folto delle fronde, sentono provenire una voce che ricorda loro come Maria alle nozze di Cana si preoccupasse più alla buona riuscita della festa nuziale che di soddisfare la sua bocca (il suo appetito) e dice che con quella bocca ora Ella intercede per le anime del Purgatorio.  Vi è dopo anche un breve accenno alla sobrietà delle antiche donne romane.

"Li due poeti all’alber s’appressaro 
e una voce per entro le fronde
gridò: “Di questo cibo avrete caro*”.
Poi disse: “Più pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli* e intere,
ch’a la sua bocca,ch’or per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor ber,
contente furon d’acqua;.............."
Purg., XXII,vv.139-146)

*caro= carestia * orrevoli=onorevoli


Nel XXIII Canto, vengono incontro anime terribilmente magre, il cui aspetto rinsecchito fa venire alla mente a Dante quello degli Ebrei dopo il lungo assedio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito. Allora, per la fame, narrava lo storico Giuseppe Flavio, una donna Maria di Eleazaro divorò bestialmente il suo stesso bambino: 

 "Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco
 la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco*!”."
(Purg., XXIII,vv.28-30)

*diè di becco= divorò col becco come un uccello rapace

Tra di loro, (i golosi puniti con la pena del contrappasso), Dante incontra l’amico Forese Donati, morto circa cinque anni prima. Dante gli chiede come è possibile che non sia ancora nell’Antipurgatorio, come coloro che hanno atteso per pentirsi fino al termine della vita. Forese risponde che è per merito delle lacrime e delle preghiere di sua moglie Nella, unica donna onesta in mezzo alle corrotte donne di Firenze e scaglia una forte invettiva contro la moda femminile del suo tempo: 

“Ond’elli a me: “Sì tosto m’ha condotto
a ber lo dolce assenzio d’i martìri
la Nella mia col suo pianger dirotto,
coi suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia,che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo* interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline*? 
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna*,
già per urlar avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder* qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.*
(Purg. XXIII vv. 85-111) 

* pergamo= pulpito ; 
* spirital o altre disciplinei=o pene date dalle autorità religiose o  pene date da autorità civili; 
* ammanna= prepara;
* antiveder=prevedere;
* Prima fien ....con nanna= saranno addolorate prima che metta la barba il bimbo, che ora si consola con la ninna-nanna. 

Nel canto successivo il poeta chiede all’amico dove sia la sua buona sorella Piccarda e Forese risponde che ella è già tra i beati:

“Ma dimmi se tu sai dov’è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda”.
“La mia sorella, che tra bella e buona
 non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona”.
(Purg.XXIV,vv.9-15)

Vi è poi subito dopo l’incontro con il poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani, che dà modo a Dante di discutere di poesia e di definire il Nuovo Stile. Prima del colloquio Bonagiunta mormora il nome Gentucca e dichiara che questa sarà una donna gentile che gli farà apprezzare la città di Lucca.

“El mormorava; e non so che “Gentucca”
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga*
de la giustizia che sì li pilucca.
“O anima”, diss’io, “che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga”.
“Femmina è nata e non porta ancor benda*”
cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.*
Tu te n’andrai con questo antivedere*;
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere*.”
(Purg.XXIV,vv.37-48)

* ov’el sentia la piaga= dove egli sentiva lo strazio della fame; 
* benda= velo delle donne maritate;
* come... riprenda= sebbene se ne parli male ;
* antivedere= profezia; 
* se nel mio...vere= se ti hanno indotto in errore le mie parole, le cose reali poi ti chiariranno quanto ho detto.

Nel canto XXV, i due poeti salgono una scala che li conduce alla settima cornice, dove in una cortina di fuoco avanzano i lussuriosi, che alternano un inno sacro ad esempi di castità.

“Appresso al fine ch’a quell’inno fassi,
gridavano alto: “Virum non cognosco”,
indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: “Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tosco”.
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.” 
(Purg.XXV,vv.127-135)

Il primo esempio di castità è quello di Maria che all’Angelo annunziante la nascita di Gesù rispose di non conoscere uomo;  il secondo esempio riporta il mito della dea Diana, che allontana la ninfa Elice, poiché aveva conosciuto il veleno (tosco= tossico) dell’amore (Venere);  l’ultimo è l’amore di donne e uomini che vivono castamente il sacramento del matrimonio.
Nel XXVII canto,infine, Dante e Virgilio salgono la scala che porta al Paradiso Terrestre. Qui il poeta latino dice che sono giunti dove la ragione umana (cioè lui stesso) non potrà più fare da guida:

"…e se' venuto in parte 
dov' io per me più oltre non discerno"
(Purg, XXVII vv.124-125)

e aggiunge che Dante dovrà attendere 

" mentre che vegnan lieti gli occhi belli 
che, lagrimando, a te venir mi fenno" *
(Purg.XXVII, vv.136-137)

* cioè: i lieti begli occhi di Beatrice, la quale, piangendo, aveva spinto Virgilio ad andare in aiuto di Dante. ( II canto dell'Inferno).

Nel Paradiso Terrestre si incontrano due figure di donna: Matelda e Beatrice, le quali lo guideranno nel cammino verso il Paradiso.

La prima, Matelda, è una sorridente giovane (“bella donna”) che canta raccogliendo fiori.  E' lei che dopo aver fatto immergere Dante nel fiume Leté, perché si purifichi e dimentichi anche il ricordo del peccato, lo fa bere alla sorgente dell’Eunoé, in modo che quell’acqua lo rafforzi nelle virtù. 

I commentatori hanno cercato di ravvisare in lei qualche personaggio storico, chi l’ha identificata con Matilde di Canossa, chi con la “donna gentile” citata altrove, altri con una delle donne nella “Vita Nova”, altri ancora con la monaca benedettina Matilde di Hachenborn o con Matilde di Magdeburgo, autrici entrambe di scritti spirituali. Il mistero resta, ma con tutta probabilità Matelda è solo il simbolo della Grazia Divina, infatti Beatrice, nel XXXIII canto dice di lei che è “usa”, cioè abituata, a purificare le anime che salgono dal Purgatorio al Paradiso.

Nel XXX Canto, a coronamento del viaggio spirituale verso l’alto, c’è finalmente l’incontro con Beatrice, che non è più la Bice Portinari, fanciulla amata del poeta, ma, pur nella conservazione dei lineamenti umani della giovinetta conosciuta da Dante, è divenuta ormai la rappresentazione tangibile della Teologia, della Verità rivelata. Essa è la messaggera di Dio, che deve guidare il poeta all’interno dei cieli del Paradiso.   


PARADISO

"…quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta a riguardare il sole" 
( Pd. I,vv.46-47)

siamo nel Paradiso Terrestre, presso la sorgente dei fiumi Leté ed Eunoé.  Dante inizia ora il viaggio con Beatrice, che è forse la principale figura femminile di questa terza cantica.. Già dal primo canto ella, con atteggiamento umanamente materna, presenta al poeta una visione dell’ordine universale e gli svela la graduazione della beatitudine di cui godono le anime dei beati:

“Ond’ella appresso d’un pïo sospiro,
gli occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro*
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa somigliante:”
(Pd. I ,vv.100-105)

* deliro=delirante per la febbre

Di Beatrice, il poeta non descrive mai l’aspetto fisico, ma costantemente parla del suo sguardo e del suo sorriso. Gli occhi sono, da sempre, ritenuti lo specchio dell’anima, quindi Dante vuol significarci quanto bella e luminosa sia questa donna. 
Essa è l'incarnazione di una bellezza spirituale, pura e luminosa, destinata a schiudere al poeta la visione abbagliante di Dio.

“.....................e però quella
 cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver’ me, sì lieta come bella,
“Drizza la mente in Dio, grata” -mi disse-
“che n’ha congiunti con la prima stella”.”
(Pd. II ,vv.26-30)

altrove dice

“Ella sorrise alquanto...”
(canto II v. 52)

o

“... sorridendo ardea ne li occhi santi”
(canto III, verso 24)

o ancora, alla fine del III canto, Beatrice appare tanto sfolgorante di luce che Dante non può sostenerne la vista, tanto da non riuscire per un po’a fare la domanda che intendeva rivolgerle:

“ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso* non sofferse
e ciò mi fece a dimandar più tardo.”
(Pd. III ,vv.128-130) *viso = la vista

“Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni*
e quasi mi perdei con li occhi chiusi.”
(Pd. IV ,vv.139-142)

*mia virtute diè le reni = la mia vista volse le spalle, fuggì via


“e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria* l’uom felice:”
(Pd. VII ,vv.17-18)

*foco= fuoco; faria= farebbe

“Non le dispiacque, ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.” *
(Pd. X ,vv.61-63)

*Beatrice fu lieta e rise con gli occhi, così che la mente di Dante si divise tra il pensiero di Dio e di lei.

“Ma Beatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.”*
(Pd.XIV,vv.79-81)

 *Ma Beatrice mi apparve così bella che conviene lasciarne la descrizione tra le cose vedute, che sfuggirono alla memoria.

altrove il poeta di lei rammenta ancora gli occhi:

“posponendo il piacer de li occhi belli
ne’ quai mirando mio disio ha posa.” 
(Pd.XIV,vv. 130-131)

“Poscia rivolsi alla mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensa co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.” 
(Pd. XV,vv.32-36)

 “Onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossío
al primo fallo scritto di Ginevra.”*
(Pd. XVI, vv.13-15)

*Beatrice, ch’era un po’ discosta, sorride alla debolezza umana del poeta, come la dama di compagnia della regina tossì assistendo al primo colloquio segreto di Ginevra con Lancillotto.

“fin che ‘l piacere eterno, che diretto
raggiava in Beatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.*
Vincendo me col lume d’un sorriso,
ella mi disse:-“Volgiti e ascolta;
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso”. ”
(Pd. XVIII , vv. 16-21)

*finché l’eterna grazia di Dio, che raggiava in Beatrice, dagli occhi (viso) di lei mi contentava con la sua luce riflessa (secondo aspetto).

“e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l’ultimo solere.”*
(Pd. XVIII , vv. 16-21)

*solere = aspetto, cioè: e vidi i suoi occhi tanto puri, tanto lieti, che il suo aspetto vinceva in splendore gli altri soliti aspetti e anche l’ultimo.

Man mano che Dante si avvicina all’ultimo cielo e a Dio, cresce anche lo splendore di Beatrice, tanto che ella dice al poeta di non poter più sorridere, perché lui non potrebbe sostenerne il fulgore: ne rimarrebbe incenerito, come accadde a Semele, figlia del re Cadmo e madre del dio Bacco, quando chiese a Giove, suo divino amante, di poterlo vedere in tutta la sua luminosa maestà.

 “Già eran gli occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento s’era tolto.
E quella non ridea; ma:“S’io ridessi
- mi cominciò- tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi;
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal potere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende*.”
(Pd. XXI, vv 1-12)

*sarebbe come una fronda squarciata dal fulmine (tuono)

Il XXII canto si conclude con un verso che sottolinea ancora la bellezza degli occhi di Beatrice:

“poscia rivolsi li occhi a li occhi belli”.

Nel canto successivo, all’annunciarsi delle schiere del trionfo di Cristo, ella trasfigura nella persona e Dante la descrive così: 

“Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien senza costrutto:”*
(Pd. XXIII, vv 1-12)

*pariemi = mi pareva, che passarmen convien senza costrutto = che mi conviene passare avanti senza parlarne, per l’impossibilita di descriverlo.

Dopo che ha acquistato nuova forza per aver visto le anime dei beati illuminate dalla presenza spendente di Cristo, il poeta viene invitato dalla sua donna (“Oh Beatrïce, dolce guida e cara!”) a guardarla in viso:

“Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se’ fatto a sostener lo riso mio”.
(Pd. XXIII, vv 46-48)

Dante dice però di non essere in grado di descrivere neppure la millesima parte della bellezza di quel sorriso di Beatrice. 

Ancora avanti nel canto XXV, v.28, si dice:

“Ridendo allora Beatrice disse.”

Che in questa figura femminile si debba vedere l’allegoria della Teologia, è accettato da tutti, ma certo Beatrice ha in sé un doppio aspetto, perché è impossibile non vedere come Dante veda in lei l’immagine della fanciulla amata, tanto che talvolta usa espressioni della poesia cortese del suo tempo:

“La mente innamorata che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture,
 tutte adunate, parrebbe nïente
ver’ lo piacer divin che mi refulse,
quando mi volsi al suo viso ridente.”*
(Pd. XXVII, vv.88-96)

*donnea = vagheggiava;  se natura......= se la natura o l’arte fecero mai ii tanto belle da essere seca (pastura)da prender gli occhi per conquistare la mente di chi guarda, tutte queste belle immagini non sarebbero niente a paragone del piacere divino che splendette i Beatrice, quando mi rivolsi al suo viso ridente. 

“incominciò, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire”
(Pd. XXVII, vv.103-104)

Dante si riferisce a Beatrice (v.3, canto XXVIII) le parole: 

“Quella che imparadisa* la mia mente”

* manda in paradiso

“così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.”*
(Pd. XXVIII, vv.10-12)

*con quegli occhi belli Amore fece una corda per catturarmi.

Giunti all’Empireo, cioè l’ultimo cielo, la bellezza di Beatrice diviene così sovrumana che il poeta si dichiara incapace di descriverla (canto XXX versi 1-33).  Egli ricorda come dal primo giorno in cui vide Beatrice, a solo nove anni (come racconta nella Vita Nova), non gli è mai stato precluso di proseguire nel suo canto, ma ora bisogna che desista dallo scrivere seguendo la nuova bellezza di lei, come un artista che è giunto al limite delle sue possibilità espressive.

“Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;*
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascun artista.
(Pd. XXX, vv.28-33)

*preciso = precluso

Ma lasciamo ora la figura di Beatrice e proseguiamo nella lettura degli altri canti del Paradiso.

Nel III canto, Dante ha la prima visione di spiriti beati: sono i volti di varie anime, trasparenti come immagini riflesse sull'acqua. Questi spiriti in vita non mantennero fede sino in fondo ai voti fatti, e per questo sono i più distanti da Dio.  Tra essi è Piccarda, come era già stato rivelato a Dante dal fratello Forese Donati con le parole:

"La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta 
ne l'alto Olimpo già di sua corona"
(Purg. XXIV, vv. 13-15)

Piccarda è figlia di Simone Donati, sorella appunto di Forese e di Corso, odiato capo dei Guelfi di parte Nera.  Entrata giovanissima nel monastero di Santa Chiara a Firenze, fu rapita dal convento dal fratello Corso, che per ragioni politiche la dette in moglie a Rossellino della Tosa, facinoroso seguace dei Neri.
(Alcuni commentatori antichi dicono che essa si ammalò e morì appena tolta dal convento.)
Come Forese, anche Piccarda ha conosciuto Dante da giovane, vediamo infatti che gli dice:

"I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda, 
non mi ti celerà l'esser più bella, 
ma riconoscerai ch'io son Piccarda,
che posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.”*
( Pd. III, vv. 47-49) 

*spera più tarda = nel cielo più lento

Il poeta ce la raffigura bella e ardente di amore spirituale : 

"Con quelle altr'ombre pria sorrise un poco; 
da indi mi rispuose tanto lieta 
ch' arder parea d'amor nel primo foco…"
(Pd. III, vv.67-69) 

Ella parla a Dante di sé e dice che da giovinetta era entrata nell'ordine fondato da Santa Chiara, di cui dice:

" perfetta vita e alto merto inciela 
donna più su - mi disse - a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,"
(Pd. III, vv. 97-99)

* la vita perfetta e l'alto merito collocano più in su nei cieli una donna, secondo la cui regola si prendono giù nel vostro mondo abiti religiosi e velo monacale.

poi prosegue narrando di sé:

“Dal mondo per seguirla*, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta*.
Uomini poi a mal più ch’a ben usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi"
(Pd. III, vv. 103-108)

*per seguirla = per seguire la vita monacale; la sua setta = il suo ordine religioso; Iddio si sa qual poi mia vita fusi = Dio sa quale fu poi la mia vita .

Qui pudicamente Piccarda tace, ma lascia ad intendere che quel matrimonio, impostole con la violenza, non fu felice.
Successivamente indica al poeta un'altra figura luminosa, anch'essa vittima della violenza maschile:

"Sorella fu e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta. Quest'è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave* generò ‘l terzo e l’ultima speranza”.
(Pd. III, vv. 113-120)

*non fu dal vel del cor già mai disciolta = rimase nel suo cuore sempre fedele al velo, cioè ai voti fatti.
*del secondo vento di Soave... = dal secondo potente re di Svevia, Enrico VI, generò il terzo e ultimo imperatore, Federico II.

Si parla di Costanza d'Altavilla, ultima figlia di Ruggero II, re di Sicilia, la quale si diceva fosse stata tolta suo malgrado, per ragion di stato, dal convento e fatta sposare a 31 anni (nel 1185) con Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa.  In effetti una donna che arrivasse nubile a quell'età era per quei tempi evento raro ed improbabile; per questo forse era nata la credenza che fosse stata rapita dopo aver preso il velo. Da questo matrimonio nove anni più tardi nacque Federico II, il futuro imperatore. Rimasta vedova all'età di 43 anni, Costanza governò con prudenza e saggezza il regno, fino alla morte avvenuta nell'anno successivo (1198). Terminato di parlare Piccarda intona il canto "Ave Maria" e svanisce d'un tratto così come un oggetto pesante scompare nell'acqua profonda.

Qua e là nei canti successivi vengono brevemente ricordate antiche eroine, come le Sabine e Lucrezia, citate per indicare sinteticamente il periodo storico dei sette re di Roma:

“E sai ch’el fé dal mal delle Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine.”*
(Pd.VI, vv.40-42)

*Tu sai cosa fece, durante sette regni, dal ratto delle Sabine fino all’offesa che Lucrezia subì da parte di Tarquinio il Superbo, vincendo i popoli confinanti

o come Cleopatra: 

“Piangene ancor la trista Cleopatra,
che fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra*.”
(Pd.VI,vv.76-78)

*subitanea e atroce

Nel terzo cielo, quello del pianeta Venere, che irradia sugli uomini l'amore, secondo la credenza antica, troviamo due personaggi femminili, che in vita si lasciarono trascinare da amori illeciti e sconsiderati, ma poi, pentitesi, compirono gesta di carità eroica per amore verso Dio, tanto da meritare il Paradiso.  La prima anima è quella di Cunizza da Romano (1198-1279), sorella di Ezzelino, crudele signore della Marca trevigiana. Ella ebbe molti mariti ed amanti, tra cui il mantovano Sordello, uno dei più famosi trovatori del XIII secolo :

"Cunizza fui chiamata e qui refulgo, perché mi vinse il lume d'esta stella; ma lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia;" *
(Pd. IX, vv.32-36)
* lietamente mi perdono per aver subito la causa della mia sorte,cioè l’influsso del pianeta Veneree non me ne dolgo .

Un documento del 1265 riporta che, passata la giovinezza, visse a Firenze, dove morì, dopo aver dedicato gli ultimi anni della vita ad opere di misericordia verso i bisognosi.  Dante da giovane probabilmente la conobbe e rimase colpito dal suo stupefacente cambiamento di costumi, dal passaggio da una vita di piacere ad una di religiosa penitenza.  Il secondo spirito che ci viene indicato è quello di Raab, la meretrice cananea, che, come dicono le Sacre Scritture, meritò la salvezza per la sua grande fede e per aver favorito la causa del popolo ebraico ( Hebr. XI 31; Isac. II, 25):

“Tu vuo’ saper chi è in questa lumera che qui appresso me così scintilla come raggio di sole in acqua mera.* Or sappi che là entro si tranquilla Raab; e a nostr’ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla.”*
(Pd.IX,vv.112-117)

*Lumera = lume; mera = pura; a nostro.... sigilla = ella è congiunta la nostro coro, che da lei riceve il massimo sigillo

Raab, infatti, durante l'assedio della città di Gerico, aveva nascosto nella sua casa i due esploratori inviati da Giosuè, sottraendoli alle ricerche del re e, nel ritorno al loro accampamento, aiutandoli a ripassare indenni il fiume. Dopo la vittoria di Giosuè, la casa di Raab fu risparmiata dalla distruzione ed ella fu accolta nel popolo di Israele. Nel canto XV, dalla bocca di Cacciaguida, avo di Dante, sentiamo un elogio della Firenze antica, città in cui i cittadini anche quelli più in vista e le loro mogli si accontentavano di poco.

“Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond’ella toglie ancora terza e nona,* si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate*, non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva, nascendo ancor paura la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote Non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia vote*; non v'era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che 'n camera si puote."
(Pd. XV vv. 97-108)
*terza e nona = la chiesa di Badia, costruita presso la prima cerchia di mura, suonava ancora ai tempi di Dante l’ora terza (le nove di mattina) e l’ora nona (le tre del pomeriggio).
*contigiate = ornate di ricami.
*vote = vuote, prive di prole, per i corrotti costumi dei coniugi.

Le donne in particolare non andavano vestite riccamente,non si agghindavano e non si mettevano belletti, così che i mariti vedevano (vv113-114): "…….e venir da lo specchio la donna sua sanza 'l viso dipinto" “e le sue donne al fuso e al pennacchio"(v117)

non essendoci, allora, le discordie civili, le donne erano sicure di morire là dove erano nate e di non diventare, con i mariti esiliati in terra di Francia, come oggi si direbbe, "vedove bianche".  Ogni donna si preoccupava di sorvegliare ed allevare i suoi figli, raccontando, mentre filava, le belle favole antiche sulle origini della città.  In quei tempi antichi Cianghella, donna arrogante e corrotta, figlia del fiorentino Arrigo della Tosa, amante del lusso sfrenato,(morta intorno al 1330), sarebbe stata oggetto di stupore, così come al tempo di Dante sarebbe parsa strana la
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figura di Cornelia, la virtuosa madre dei Gracchi (Corniglia).

“Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepoltura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta.”  L’una vagheggiava a studio de la culla, e, consolando, usava l’idïoma che prima i padri e le madri trastulla; l’ltra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia D’i Troiani, di Fiesole e di Roma. Sa ria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Saltarello, qual or saria Cincínnato e Corniglia.  (Pd. XV vv.118-129)

Attraverso le parole del suo avo, Dante trova modo di sferzare la Firenze “nuova”, in cui, a differenza del buon tempo antico, si dà più importanza allo sfarzo dei vestiti e degli ornamenti, che alla persona stessa, in cui anche la nascita di una figlia spaventa il padre,(a causa del tempo troppo precoce del matrimonio e della misura eccessiva della dote) e in cui infine le case, troppo grandi, sono vuote, prive di figli, per la lussuria e la depravazione dei costumi (Sardanapalo era infatti simbolo di sregolatezza e lussuria). Le donne, sembra dire il poeta, hanno avuto la loro buona parte di colpa nella decadenza civile e morale della città!

Nel canto XXXI Dante arriva a vedere la "rosa mistica", cioè tutte le anime beate sui loro seggi. A questo punto Beatrice scompare, lasciando al suo fianco un vecchio venerando, San Bernardo, a cui il poeta chiede meravigliato “Ov’è ella?” e il santo gliela indica nel terzo giro della candida rosa, dove la donna è posta per i suoi meriti. Nella parte più elevata della rosa, circonfusa di luce sta la Vergine Maria, nel momento del suo trionfo e della sua incoronazione: Sotto di Lei siedono di gradino in gradino altre donne beate. S. Bernardo gliele enumera una ad una, esse sono Eva,. 

“La piaga che Maria richiuse e unse, quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi è colei che l’aperse e che la punse.”*(Pd. XXXII, vv.4-6) *La ferita (il peccato originale) che Maria medicò e richiuse, l’aprì e la ferì quella tanto bella che sta ai suoi piedi.

Rachele, Beatrice, Sara, Rebecca, Giuditta, Ruth e poi altre eroine Ebree, di cui non fa il nome. “Nell’ordine che fanno i terzi sedi, siede Rachele di sotto da costei con Beatrice, sì come tu vedi. Sara e Rebecca, Iudit e colei che fu bisava* al cantor che per doglia del fallo disse “Miserere mei”, (Pd. XXXII, vv.7-12) *bisava = Ruth bisavola di David, che compose il Miserere dopo l’adulterio con Betsabea e l’omicidio del marito di lei. 

Dall’altra parte della Rosa, di fronte a San Pietro sta Anna, madre della Madonna, e davanti ad Adamo siede Lucia, la martire siracusana, colei che mandò Beatrice in soccorso di Dante (Inf. I, 61).

“Di contr’a Pietro vedi sedere Anna, tanto contenta di mirar sua figlia, che non move occhio per cantare osanna; e contro al maggior padre di famiglia siede Lucia, che mosse la tua donna quando chinavi, a rovinar,le ciglia.”(Pd. XXXII, vv.133-138)

L'ultimo canto del Paradiso, infine, si apre con l’inno di lode di San Bernardo alla Vergine Maria (Pd. XXXIII, vv.1-39) I questi versi c’è l'esaltazione della bontà e dell'amore di cui fu ricolma questa donna assolutamente eccezionale e non simile a nessun altra. Troviamo nel poeta un sentimento tutto cristiano, uno slancio di fede, visione mistica della Madre del Salvatore, che lo fa prorompere in una esaltazione che trascende l'immagine della donna comune.

-------------------------------- Dante, come abbiamo letto, non ha posto tra i dannati più sordidi nessuna donna, ad esclusione di personaggi tratti dal mito o dalla leggenda, anzi l'unica figura dell'Inferno, che davvero ci muove a pietà e commozione è proprio una donna: Francesca da Rimini.  Nel Purgatorio, la dolente figura di Pia dei Tolomei e della puntigliosa Sapìa sono tratteggiate con grande attenzione e sapienza psicologica, si avverte bene tra le righe che il Poeta partecipa alla loro vicenda umana.  Nel Paradiso, dove il mondo materiale è dimenticato e dove tutto è etereo, la fiorentina Piccarda Donati e la trevigiana Cunizza da Romano, pur nella loro intensa spiritualità, sono ancora donne veramente reali, rappresentate cioè con tutte quelle doti di gentilezza, di dolcezza e di calore umano, comunemente attribuite al genere femminile.  Riguardo Matelda o Beatrice, il discorso da fare è diverso, esse infatti, pur se descritte nelle sembianze di fanciulle sorridenti e belle, sono quasi figure mistiche, simboli di un processo interiore di elevazione spirituale, in cui riconosciamo l'immagine della "donna angelicata" del Dolce Stil Novo.  I personaggi femminili che Dante dice di aver incontrato nel suo viaggio ultraterreno sono tutti storicamente esistiti. Con loro si è fermato a parlare ed ha voluto a metterne in evidenza i affetti umani, le passioni, i sentimenti dolenti.  Ha così dato un ritratto vivo, non stereotipato delle donne, in cui possiamo avvertire una carica di simpatia.. Egli,quasi commosso dalla loro fragilità umana, sembra assolverle tutte.  Per concludere si può dire che Dante, pure se talvolta si è scagliato contro le donne, per la smodatezza (o forse modernità?) dei loro costumi, ha saputo nello stesso tempo tesserne le lodi, sottolineandone in particolare la sfera del
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sentimento, la delicatezza e l'intensità degli affetti, ed ha creato per noi figure indimenticabili, piene di fascino e sensibilità.
( adattato da Presenze femminili nella Divina Commedia di Gioia Guarducci)


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