Messalina,
la meretrix Augusta
Giovenale compone sedici
satire divise in cinque libri. Esse contengono un’aspra critica a tutti gli
aspetti della nuova società di Roma, dove si sono smarriti gli antichi valori
morali. Il poeta si scaglia contro gli speculatori, i ladri, gli affaristi, i
cacciatori di eredità, gli stranieri, gli omosessuali ma soprattutto contro le
donne che hanno dimenticato la Pudicitia.
La VI satira, che costituisce un libro a sé, è la più violenta ed impetuosa
aggressione che un poeta o un uomo abbia mai potuto pronunciare contro il sesso
femminile. Giovenale, per distogliere l’amico Postumo dal convolare a nozze, delinea
un cupo quadro della condizione in cui versano le donne. L’indignatio del poeta contro queste ultime si dilunga per ben 661
versi nei quali si sussegue una galleria interminabile di vizi, difetti, perversioni
impersonati dalle figure femminili. Anche la donna dell’alta società del suo
tempo, sostiene Giovenale, ha ceduto alle forme più perverse e scabrose del
malcostume e del vizio. Il potere del denaro e una società basata sulla
crescita economica hanno determinato l’emancipazione smisurata della “donna per
bene”, causando la perdita della pudicizia, della fedeltà, della castità e
della devozione che caratterizzava la donna dell’utopico primo periodo
repubblicano. La negazione della modestia
e della reverentia hanno determinato
nella donna un’esplosione incontenibile di luxuria
che le permette di abbandonare il suo ruolo tradizionale. Le donne
cominciano ad esercitare l’atletica, ad occuparsi di diritto, di retorica, di
politica, a parlare liberamente in pubblico, a rifiutare le gravidanze o a
liberarsene con gli aborti e a commettere adulteri senza freni. La galleria di
figure femminili che Giovenale ci offre presenta una gamma svariata di
descrizioni sferzanti, tragiche e comiche. Tra queste figure spicca
l’affascinante Messalina, consorte dell’imperatore Claudio. Lei non sopporta la
vita di palazzo e conduce invece un’esistenza trasgressiva e sregolata. Giovenale
racconta che Messalina, con il nome di Licisca, si proponeva per puro piacere
nei postriboli di Roma travestita da meretrice. Durante gli incontri notturni
riceveva più uomini che poteva e non era mai stanca e soddisfatta anche se
spossata. Queste esperienze le lasciavano l’amaro in bocca poiché dopo la notte
Messalina ritornava ad essere una donna chiusa in una gabbia, accanto ad un
marito che non amava e da cui non era amata. Giovenale prova per questa donna
un sentimento di pietà e di commiserazione. Messalina viene definita
dall’autore Augusta meretrix, questo
audace ossimoro posto al centro del verso qualifica la donna nella sua
doppia funzione di imperatrice e allo
stesso tempo di prostituta. Ma i suoi adulteri e la sua lussuria furono puniti
con la sua uccisione e con la “damnatio memoriae”. Messalina, la figura
femminile più potente e influente di Roma morta giovanissima, è passata alla
storia come simbolo di donna di facili costumi e dagli insaziabili appetiti
sessuali. Il suo comportamento è dovuto al fatto che era stata costretta a
sposare un uomo che non amava e voleva per questo ribellarsi ad un sistema che
l’aveva resa una schiava coniugale.
1 Illustra,
attraverso i riferimenti al testo, i caratteri del personaggio di Messalina qui
raffigurato da Giovenale.
Valeria Messalina era stata la terza moglie dell’imperatore Claudio, più anziano di lei di circa trent’anni a cui diede come figli Ottavia e Britannico. Non viene mai nominata in tutta la sequenza, ma l’espressione “rivali degli dei” a inizio satira, allude ironicamente ai membri della famiglia imperiale e quindi a Messalina. Sposatasi nei giardini di Lucullo con l’amante Gaio Sillo, fu fatta uccidere da Claudio. Mal sopportava la vita di palazzo per cui conduceva un’esistenza trasgressiva e sregolata: attendeva che il marito si fosse addormentato, si truccava, si travestiva indossando una parrucca bionda per nascondere i suoi capelli neri e un ampio mantello scuro per poi fuggire dal palazzo imperiale, aiutata probabilmente da una sua ancella confidente, per recarsi al postribolo, il suo. Lì, sotto le mentite spoglie di Licisca, ovvero “piccola lupa”, accoglieva i clienti con moine, carezze e lusinghe e da essi si faceva regolarmente pagare per le sue prestazioni sessuali. Tuttavia non era mai stanca, anche se spossata, mai soddisfatta, condizione tipica di una ninfomane che non ha tregua.
2
Spiega
la valenza dell’ossimoro meretrix Augusta
(v. 117)
L’audace ossimoro posto al centro del verso qualifica la donna nella sua doppia funzione di imperatrice e nello stesso tempo di prostituta. L’epiteto Augusta qui non ha valore politico, in quanto titolo attribuito alla moglie, alla sorella o alla figlia dell’imperatore, perché Messalina non lo ricevette mai. Giovenale con quest’epiteto più che rifarsi alle mansioni di Messalina di consorte dell’imperatore, vuole piuttosto conferire al termine meretrix una qualifica di grandiosità e magnificenza inusuale.
3
Illustra
la differente scelta dei tempi verbali impiegati nella satira.
L’uso del piuccheperfetto senserat e dell’imperfetto linquebat suggerisce la duratività e l’iterazione di un’azione più volte ricorrente. Il passaggio brusco e improvviso al perfetto che domina incontrastato (intravit, prostitit, ostendit, excepit, poposcit, absorbuit, abit, clausit, recessit, tulit), col suo valore aoristico e puntuale vuole, per così dire, rappresentare le scene nella loro immediatezza e istantaneità.
L’uso del piuccheperfetto senserat e dell’imperfetto linquebat suggerisce la duratività e l’iterazione di un’azione più volte ricorrente. Il passaggio brusco e improvviso al perfetto che domina incontrastato (intravit, prostitit, ostendit, excepit, poposcit, absorbuit, abit, clausit, recessit, tulit), col suo valore aoristico e puntuale vuole, per così dire, rappresentare le scene nella loro immediatezza e istantaneità.
4
La
donna emancipatasi dal suo ruolo tradizionale è secondo Giovenale la maggiore
protagonista della corruzione morale dell’età imperiale: parlane, esprimendo le
tue considerazioni in merito.
La donna dell’alta società romana del suo tempo, sostiene Giovenale, si è abbassata alle forme più abiette, perverse e scabrose del malcostume e del vizio. Il potere del denaro e una società basata sull’arricchimento economico hanno determinato, per Giovenale, l’emancipazione spropositata della “donna per bene”, causando la perdita della pudicizia che caratterizzava la donna dell’utopico primo periodo repubblicano, quando l’ideale perfetto era quella della donna univira, domiseda, lanifica, fecunda (cioè la moglie fedele al marito anche dopo la morte fedele al marito anche dopo la morte di lui, la donna che se ne sta soltanto a casa a filare la lana e che ha l’unico compito di assicurare una prolifica discendenza della gens). La galleria di donne-tipo che Giovenale ci offre presenta una gamma vastissima di descrizioni ora sferzanti, ora comiche, ora tragiche, che hanno una loro peculiare potenza artistica, tuttavia si tratta dell’espressione di un conservatore arrabbiato contro tutto ciò che ai suoi occhi rappresentava abitudini e atteggiamenti morali e sociali nuovi. In realtà, quel che veramente irrita e disturba Giovenale è lo spazio di libertà conquistato dalla donna a scapito e per colpa di un maschio sempre più debole e "femminilizzato". Giovenale teme quella femminile energia vitale che l’uomo non possiede e che non riesce più ad arginare, come accadeva nel passato, e scrive versi di fuoco contro i vizi delle donne, contro la loro sfrenatezza sessuale, la lussuria, il vizio per eccellenza di quelle che un tempo erano severe matrone e madri esemplari, vanto delle famiglie romane. L'emancipazione sociale, morale e politica d'altra parte, è quindi direttamente collegata a quella economica: solo tardivamente la legislazione autorizzò la donna romana a trattenere per sé tutta la sua proprietà (a eccezione della dote che passa al coniuge), a essere padrona dei beni ereditati e a conservarli in caso di divorzio. Tutto ciò però non le permetterà mai di acquisire dei veri diritti politici. Nell'epoca di massima conquista delle libertà femminili a Roma era forte l'influsso delle religioni egiziane, e venivano largamente praticati riti sacri ad Iside e ad altre divinità importate dall'antico Egitto. Nella religione egiziana, infatti, la figura della donna appariva sempre e costantemente collegata a quella di grande madre di tutti gli esseri viventi e di grande sposa. Alla natura femminile si riconosceva l'origine della vita, la sua tutela ed il suo armonioso sviluppo. Molti storici, di allora e di oggi, fanno coincidere il decadere dell'istituto familiare, la crisi dei valori sociali e familiari con l'emancipazione femminile e con l'istituto del divorzio, senza rendersi conto che con questa emancipazione le donne chiedevano semplicemente di poter avere gli stessi diritti degli uomini.
La donna dell’alta società romana del suo tempo, sostiene Giovenale, si è abbassata alle forme più abiette, perverse e scabrose del malcostume e del vizio. Il potere del denaro e una società basata sull’arricchimento economico hanno determinato, per Giovenale, l’emancipazione spropositata della “donna per bene”, causando la perdita della pudicizia che caratterizzava la donna dell’utopico primo periodo repubblicano, quando l’ideale perfetto era quella della donna univira, domiseda, lanifica, fecunda (cioè la moglie fedele al marito anche dopo la morte fedele al marito anche dopo la morte di lui, la donna che se ne sta soltanto a casa a filare la lana e che ha l’unico compito di assicurare una prolifica discendenza della gens). La galleria di donne-tipo che Giovenale ci offre presenta una gamma vastissima di descrizioni ora sferzanti, ora comiche, ora tragiche, che hanno una loro peculiare potenza artistica, tuttavia si tratta dell’espressione di un conservatore arrabbiato contro tutto ciò che ai suoi occhi rappresentava abitudini e atteggiamenti morali e sociali nuovi. In realtà, quel che veramente irrita e disturba Giovenale è lo spazio di libertà conquistato dalla donna a scapito e per colpa di un maschio sempre più debole e "femminilizzato". Giovenale teme quella femminile energia vitale che l’uomo non possiede e che non riesce più ad arginare, come accadeva nel passato, e scrive versi di fuoco contro i vizi delle donne, contro la loro sfrenatezza sessuale, la lussuria, il vizio per eccellenza di quelle che un tempo erano severe matrone e madri esemplari, vanto delle famiglie romane. L'emancipazione sociale, morale e politica d'altra parte, è quindi direttamente collegata a quella economica: solo tardivamente la legislazione autorizzò la donna romana a trattenere per sé tutta la sua proprietà (a eccezione della dote che passa al coniuge), a essere padrona dei beni ereditati e a conservarli in caso di divorzio. Tutto ciò però non le permetterà mai di acquisire dei veri diritti politici. Nell'epoca di massima conquista delle libertà femminili a Roma era forte l'influsso delle religioni egiziane, e venivano largamente praticati riti sacri ad Iside e ad altre divinità importate dall'antico Egitto. Nella religione egiziana, infatti, la figura della donna appariva sempre e costantemente collegata a quella di grande madre di tutti gli esseri viventi e di grande sposa. Alla natura femminile si riconosceva l'origine della vita, la sua tutela ed il suo armonioso sviluppo. Molti storici, di allora e di oggi, fanno coincidere il decadere dell'istituto familiare, la crisi dei valori sociali e familiari con l'emancipazione femminile e con l'istituto del divorzio, senza rendersi conto che con questa emancipazione le donne chiedevano semplicemente di poter avere gli stessi diritti degli uomini.
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